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Sateriale: “L’Europa si deve rigenerare”

Intervista a Gaetano Sateriale di Alessandro Mauriello 

 

 

 

 

In prima istanza, nei suoi molteplici ruoli di dirigente
sindacale, amministratore locale, policy maker a che
punto é a suo avviso la costruzione politica dell’
Europa?

– Non sono un grande esperto di Unione Europea. I miei
contatti diretti risalgono agli anni 90 quando, come molti,
frequentavo la Ces e le Istituzioni europee per conto della
Cgil e poi per qualche contatto da Sindaco, quando era
presidente Romano Prodi. A quei tempi, caduto il muro di
Berlino, l’Unione Europea si allargò molto: troppo e
troppo in fretta secondo il mio parere. Anche se capisco
le spinte e le pressioni che ci furono. Ci si immaginò che
tutto quello che era stato sotto il controllo sovietico
potesse divenire immediatamente parte dell’Unione
Europea con pienezza di diritti (e relatività di doveri). Fu
un’ingenuità o un errore di presunzione? Oggi ci
accorgiamo che alcuni di quei paesi impediscono all’UE
di prendere le decisioni politiche giuste in tempi adeguati.
Io penso, da osservatore esterno, che si sarebbero dovuti
creare due livelli di appartenenza alla UE, con progressivi
passaggi fra loro: uno dei paesi fondatori e uno dei nuovi
aderenti. Con disparità di diritti fra loro. Non è solo un
problema di diritto di veto e di trattati da riscrivere.

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Associazione LABOUR: “Alternanza Scuola-Lavoro, la Legge va Cancellata”

Associazione LABOUR: “Alternanza Scuola-Lavoro, la Legge va Cancellata”

di Sergio Negri

L’alternanza scuola-lavoro, introdotta dal governo Renzi (legge 107 del 2015, la cosiddetta Buona Scuola) come “modalità didattica innovativa”  si è trasformata, in molti casi, in un pessimo esercizio speculativo da parte di alcune aziende che invece di favorire il percorso formativo degli allievi hanno preferito sfruttare i giovani studenti-lavoratori, integrandoli subito nel ciclo produttivo.

I troppi infortuni di questi ultimi mesi, alcuni dei quali addirittura letali, sono il triste esito di questa pratica inumana.

Ma la scuola, non può e non deve produrre beni di consumo ma sapienza, cultura, conoscenza.

“Fatti non foste a viver come bruti…” dovrebbe recitare l’insegna che andrebbe posta sul frontale di ogni edificio scolastico.

Torna alla mente quel virtuoso professore di Filosofia che al primo giorno di scuola aveva chiesto ai suoi alunni: “secondo voi a che serve studiare?”. In molti avevano risposto. “A crescere – A diventare bravi – A maturare”. Ma ad ogni risposta aveva scosso la testa in segno di disapprovazione. Dopo qualche attimo aveva poi risposto: “Studiare serve ad evadere dal carcere”. A quell’affermazione tutti si erano stupiti e si erano guardati increduli. Poi aveva proseguito: “L’ignoranza è un carcere. Lì dentro non capisci, non sai cosa fare. In questi anni, insieme, dobbiamo organizzare la più grande delle evasioni. Non sarà facile. Vi vogliono stupidi ma se scavalcate il muro dell’ignoranza poi capirete senza chiedere aiuto e sarà difficile ingannarvi”.

Dunque il compito della scuola è aiutare gli alunni a fuggire dal carcere dell’ignoranza, a formare il cittadino moderno, a modellare la società del futuro. Non è più tollerabile considerare la scuola e un costo da contenere in ogni legge finanziaria.

L’alternanza scuola-lavoro deve essere abbandonata perché a scuola, per dirla con il prof Galimberti, “si deve diventare uomini, a scuola si deve riportare la letteratura e non il lavoro. La letteratura è il luogo nel quale impari l’amore, la disperazione, la tragedia, l’ironia, il suicidio”.

E mai come in questo momento il nostro paese ha bisogno di cultura.

Sergio Negri

Per l’Associazione “Labour R. Lombardi”

24 giugno 2022

Giudice: “RICCARDO LOMBARDI TRA MARX E KEYNES”

RICCARDO LOMBARDI TRA MARX E KEYNES

di Giuseppe Giudice – 2 giugno 2022

Lombardi fu certamente uno dei primi uomini della sinistra che lesse approfonditamente Keynes. Ma il keynesismo di Lombardi era quello “di sinistra” – i postkeynesiani di Cambridge : Joan Robinson, Nicholas Kaldor, in particolare, di orientamento socialista rispetto al liberale Keynes. Quindi in Lombardi credo che si sia operata una sintesi tra il suo marxismo eterodosso ed il postkeynesismo. Che poi è alla base della sua ben nota teoria della Riforme di struttura come mezzo per una transizione democratica e graduale verso il socialismo. Di qui, anche la sua opposizione alla “politica dei redditi ” di Ugo La Malfa volta alla razionalizzazione del neocapitalismo e non al suo superamento.

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Gallino: “Come il neoliberismo arrivò in Italia”

Un’attualissima (e inedita) intervista ritrovata a Luciano Gallino: su come la sinistra postcomunista è divenuta neoliberista e sulla «lotta di classe dopo la lotta di classe»

Quest’intervista a Luciano Gallino, scomparso nel novembre del 2015, è stata condotta da Dario Colombo ed Enrico Gargiulo a inizio giugno dello stesso anno. Solo recentemente l’intervista è stata recuperata e resa pubblica  proprio nei giorni in cui cade il decimo anniversario dell’uscita del libro di Gallino “Lotta di classe dopo la lotta di classe“.

Da jacobintalia.it “26 marzo 2022

Caro professor Gallino, prima di tutto le chiediamo una definizione complessiva di neoliberismo: cosa si intende con questo termine? Cos’è il neoliberismo come fenomeno globale degli ultimi decenni e cosa, soprattutto, non è?

Dagli anni Ottanta del secolo scorso, con l’avvento al potere di leader politici come Ronald Reagan negli Stati uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito, si usa designare come neoliberismo o neoliberalismo un’ideologia universale che afferma che qualunque settore della società, ciascun individuo in essa e, infine, la società intera in quanto somma dei due elementi precedenti, può funzionare meglio, costare meno, presentare minor problemi, essere più efficace ed efficiente qualora sia governata in ogni momento dai principi di una razionalità economica e strumentale.

La razionalità strumentale ha a che fare soprattutto con il rapporto tra mezzi scarsi – rispetto all’attore che li vuole utilizzare – e fini alternativi – che possono dare esiti molto diversi. Qualunque altro ragionamento passa in secondo piano dinanzi a questo impegno e presupposto. Non solo l’economia, l’impresa o il commercio dovrebbero essere organizzati e gestiti secondo il principio della razionalità economica ma anche i servizi pubblici: scuola, sanità, ricerca, beni culturali. E così tutte le azioni degli individui, perché solo in questo modo la loro somma complessiva darebbe origine a una società migliore, nel senso di più efficiente e con costi minori.

Se poi mi chiede che cosa non è, si può dire una cosa precisa e piuttosto trascurata: il neoliberalismo non è una dottrina che vuole scoprire come funziona il mondo, spiegarlo agli altri e conformarlo in modo che sia più consono rispetto a leggi individuate e scoperte. Tra le grandi dottrine politiche questo approccio caratterizza ad esempio il marxismo. Marx voleva scoprire come funzionava davvero il mondo capitalistico e spiegarlo, per poi correggerlo, emendarlo e fondare un altro ordine sociale. Il neoliberalismo è una dottrina essenzialmente costruttivistica. Essa non dice, come dicevano i liberali classici, che l’essere umano è di per sé un homo oeconomicus, dice che l’essere umano anche se non lo è, può essere spinto in diversi modi ad agire come un uomo economico e questo ha i suoi vantaggi non solo in economia ma anche nella famiglia, nei rapporti sociali, in politica e in qualunque altro settore della società. Il neoliberalismo, tra tutte le grandi dottrine politiche, non è una teoria scientifica nel senso che vuole scoprire come funziona la realtà, vuole piuttosto costruire la realtà secondo i propri principi e i propri canoni, nella convinzione che tutto funzionerebbe meglio.

A suo parere, esiste un unico neoliberismo o esistono invece molti neoliberismi? A questo proposito, le chiedo cosa pensa del dibattito sulle varietà del neoliberismo, anche in rapporto al precedente dibattito sui differenti modelli di capitalismo.

È certamente sensato parlare di varietà di neoliberalismo. Sul tema si è svolto un dibattito intenso che, negli ultimi quindici anni – non in Italia ma in paesi come gli Stati uniti, la Germania e il Regno Unito –, ha messo in luce la complessità del pensiero neoliberale. Senza inseguire le minute variazioni individuate dagli storici del neoliberalismo ma dovendo e volendo semplificare, si possono individuare due grandi varietà di neoliberismo.

Quella anglosassone, detto anche transatlantico, quindi Stati uniti e Gran Bretagna essenzialmente, alla cui base c’è il pensiero neoclassico liberale e della scuola di Chicago, i Chicago Boys, vale a dire Milton Friedman e compagni. L’altra variante è quella europea, nata principalmente in Germania e in Austria, che è caratterizzata dal peso che hanno avuto le dottrine dette ordoliberali. Sono dottrine nate intorno agli anni Trenta, ancora sotto Weimar, soprattutto all’università di Friburgo, per cui sono dette anche Scuola di Friburgo. Il pensatore principale, tra molti altri, è Walter Eucken.

Ambedue le varianti hanno avuto un grande successo politico ma anche sociale, perché il neoliberismo è diventato non solo la dottrina politica più o meno ufficiale ma ha vinto e stravinto in ogni ambito di applicazione possibile. L’ordoliberalismo, la versione tedesca, ha avuto grande importanza ad esempio nell’economia del dopoguerra. Ludwig Ehrard, considerato il padre della rinascita dell’economia tedesca, in modo più o meno evidente si rifaceva ai principi dell’ordoliberalismo.

Le differenze tra le due versioni sono moltissime e profonde. Una distinzione piuttosto importante verte sul fatto che gli anglosassoni insistono sul ridurre al minimo lo stato. C’è uno slogan che affiora di continuo durante le campagne elettorali negli Stati uniti che suona, in maniera non molto elegante, «Bisogna affamare la bestia» [lo slogan comparve la prima volta nel 1986 nel libro The Triumph of Politics: Why the Reagan Revolution Failed, il cui autore è David Stockman, sotto la presidenza Reagan direttore dell’Ufficio per la gestione e il bilancio, Ndr]. Il che significa ridurre al minimo le risorse dello stato affinché intervenga il meno possibile nell’economia. Lo stato deve provvedere alle forze armate, alla sicurezza, a pochi altri aspetti ma deve stare lontano da qualsiasi cosa abbia a che fare non solo con l’economia ma anche con la regolazione della società. Invece l’ordoliberalismo è una dottrina che insiste molto sul fatto che è lo stato che con le leggi, la normativa, la regolazione, deve predisporre l’ambiente e il terreno in cui il sistema economico possa dipanarsi in tutta la sua efficacia, in tutta la sua libertà. Quindi meno stato o stato ridotto al minimo nei paesi anglosassoni; stato invece che pesa molto in Europa. Per certi aspetti il trattato di Maastricht, l’autoritarismo economico dominante che ancora oggi subiamo, denota il fatto che in Europa ha avuto la meglio la variante ordoliberale la quale richiede una certa dose di autoritarismo per far sì che sia lo stato a spianare la strada alla stabilità monetaria, al controllo dell’inflazione, al pareggio di bilancio pubblico.

Quali sono le caratteristiche distintive della variante italiana – se ritiene corretto parlare di una variante italiana – del neoliberismo? Quali le date e i passaggi rilevanti della penetrazione del neoliberismo in Italia e quali gli attori cruciali sia individuali che collettivi?

Prima richiamavo la mole di studi internazionali sull’elaborazione teorica intorno al neoliberismo. Sino a tempi recenti questa era molto modesta in Italia. Ho letto di recente una riedizione del 2008 di un volume di Norberto Bobbio, L’età dei diritti, con un’abbondante bibliografia di lavori in italiano sul pensiero liberale che integra l’originale: ne figura soltanto uno che si riferisce al neoliberismo. Nondimeno si può dire che l’Italia sia stata un canale importante per far diventare neoliberali i successori del Pci, i comunisti, così come i socialisti e altri.

Già negli anni Sessanta c’erano scambi molto nutriti tra economisti e studiosi di altre discipline italiani ed europei con studiosi sovietici e dell’area sovietica, soprattutto ungheresi e polacchi, sullo sfondo di quella che si chiamava la teoria della convergenza. Sono autori lontani dai dogmi sovietici che con autori occidentali altrettanto lontani dai dogmi liberali ritenevano che la produzione di massa, il fordismo, le nuove tecnologie della comunicazione, i grandi calcolatori – che erano già presenti e operativi, io ne vidi uno a Ivrea alla fine degli anni Cinquanta – producessero elementi di convergenza tra il sistema dell’economia di piano e il sistema capitalistico. Economisti delle due parti si incontrarono spesso, anche in Italia, per discutere gli aspetti di questa convergenza. Gli italiani scoprirono, ma anche gli americani che venivano in Italia ad ascoltare, che i colleghi sovietici parlavano come neoliberali. Parlavano di mercato, di regolazione del mercato mediante l’informatica. Gli economisti sovietici erano critici sull’economia di piano perché ritenevano che non avrebbe potuto funzionare ancora molto.

Gli economisti europei e italiani apprendevano che per i colleghi sovietici l’economia, per essere felicemente regolata, avrebbe avuto bisogno di un dittatore benevolo. E il dittatore benevolo in questo caso era l’informatica. Per generazioni era stato vero l’assioma per cui lo stato non sarà mai in grado di governare il mercato perché il mercato raccoglie una serie di informazioni istante per istante e lo stato non può farlo. Però l’informatica poteva essere anche più rapida del mercato nel raccogliere informazioni e a essa si sarebbe dovuto sottostare.

Tra le istituzioni che hanno favorito gli incontri con questi economisti sovietici, polacchi e ungheresi – tutti espressione dell’era comunista ma molto critici e molto attenti alle trasformazioni dell’economia – ha avuto un’importanza notevole la fondazione Ceses, Centro di studi economici e sociali, fondata a Milano nel 1964 a spese e per volere della Confindustria. Il suo impegno si è via via ridotto ma ha operato fino al 1988. Per ventiquattro anni è stata una fondazione molto importante, a cui hanno partecipato molti docenti e anche uomini politici, che cercava di scoprire cosa succedesse dall’altra parte attraverso le voci degli economisti dei due campi. Purtroppo, gran parte di questa letteratura è andata dispersa e, tanto per cambiare, per sapere qualcosa bisogna andare negli archivi americani o cercare delle pubblicazioni americane, essendo stati loro a studiare quest’esperienza.

Ciò significa che nella testa di quelli che erano prima membri del Pci, e poi via via membri del Pds, Ds e Pd, circolavano delle idee in tema di economia che erano sostanzialmente neoliberali. L’economia doveva essere libera, doveva essere amministrata in modo tecnicamente perfetto. Quello che prima il piano e anche il mercato capitalistico facevano male, poteva essere fatto meglio mediante le tecnologie informatiche. Quindi, uno dei canali attraverso i quali il neoliberismo è entrato nella testa degli esponenti dei partiti di sinistra sono stati questi colloqui trans-europei tra comunisti da un lato e liberisti dall’altro, i quali si confrontavano sulla possibile evoluzione dell’economia.

Nel caso del Pci e delle tante vesti che ha assunto dopo, si può aggiungere un elemento che è diventato particolarmente pesante dopo l’89. Da allora si è parlato sempre più degli errori, dei gulag, di un regno del terrore che finalmente era caduto. Questo ha fatto sì che generazioni di aderenti, simpatizzanti e studiosi delle successive incarnazioni del Pci abbiano fatto l’impossibile per far dimenticare che avevano avuto rapporti e simpatie col comunismo sovietico, ovvero col socialismo realizzato. È come se avessero deciso di spogliarsi di tutti i propri panni e buttarli in un bidone del cortile affinché nessuno si ricordasse che qualche tempo prima erano stati comunisti. C’è stato una sorta di pentimento politico a posteriori, non sempre chiaro e non sempre evidente, che ha avuto molta importanza nel far letteralmente sparire in poco tempo il Pci.

Ancora più importante è stato il fatto che, come si evince dai colloqui avuti con i colleghi comunisti, l’economia comunista alla quale il Partito comunista nostrano si sentiva più vicino assomigliava molto al neoliberismo: il dittatore benevolo, l’importanza data al calcolo, alla previsione. Dal punto di vista intellettuale e politico, uno dei cardini dello sviluppo del neoliberismo in Italia, un canale davvero molto importante, sono stati questi incontri con gli economisti dell’area sovietica avvenuti al Ceses per un quarto di secolo. Intendiamoci, la Confindustria lo finanziava perché sperava che in tal modo venissero fuori le magagne dell’economia di piano. Qualcosa magari veniva pure fuori, ma emergeva anche il fatto che quelli erano studiosi – e di primissimo piano, pensiamo agli ungheresi, tra i quali Micheal Polanyi e altri – che lasciavano una traccia che poi purtroppo non è stata contrastata da nessuno studio critico. Il neoliberismo è stato accettato per intero senza alcuna reticenza e senza ragionamento sulle conseguenze.

È corretto dire che il modello italiano di neoliberismo è autoctono oppure è più corretto dire che sia eterodiretto, guidato dall’esterno? Ed eventualmente quali sono i paesi e i soggetti politico-economici che lo hanno ispirato?

Io non pretendo di conoscere l’intera bibliografia. Resta il fatto che trovare una pubblicazione sul neoliberismo italiano è veramente molto difficile. Quello che è stato travasato in politica viene in parte dagli Stati uniti, in parte dall’Inghilterra della signora Thatcher e in parte dai tedeschi. L’assoluta obbedienza dei nostri governi ai dettami di Bruxelles e ai dettami di Berlino attesta il fatto che c’è stato un assorbimento in gran parte acritico del neoliberalismo, dei suoi aspetti più politici e più disciplinari, senza che si levasse quasi alcuna voce a contrastarlo.

Quali sono i settori di policy in cui la presenza delle ideologie e delle politiche neoliberiste è più evidente, quali i settori in cui c’è ma è più nascosta e quali, ammesso e non concesso che ve ne siano, in cui questa influenza è del tutto assente?

I due settori in cui questa influenza è più evidente sono la protezione sociale, quindi l’attacco allo stato sociale, alle pensioni come alla sanità, e il lavoro, quindi la sfera delle politiche del lavoro. Su quest’ultimo punto, le leggi incominciano a grandinare già nei primi anni Novanta, per poi diventare un vero diluvio con le leggi Treu del 1997, la legge Biagi del 2003, quelle di Sacconi nel governo Berlusconi alla fine dello stesso decennio, la legge Fornero del 2012 e il cosiddetto Jobs Act del governo Renzi. Questi sono stati e sono i settori in cui le pratiche neoliberiste sono maggiormente attive e presenti. Ce ne sono poi parecchi altri. Quando si dice che occorre avere cura dei beni culturali perché attirano molti visitatori che contribuiscono al Pil nazionale, si tradisce una norma di fede neoliberale. Ciò che conta non è il merito dell’oggetto ma cosa l’oggetto può determinare in termini di utilità. Diversi servizi pubblici che stanno impoverendo le città: si riducono i trasporti e parchi, gli asili nido e altre forme di sostegno alle famiglie. Nel campo culturale, l’università ha avuto delle ferite terrificanti in quanto a soppressione del pensiero critico in nome di un’università sempre più azienda. Per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria si sta affermando il principio che debba comportarsi, essere organizzata, agire e pensare come un’azienda. E questa è una delle caratteristiche neoliberali principali.

È la sua vocazione totalitaria perché per certi aspetti il neoliberismo è un’ideologia profondamente totalitaria. Non ammette discussione, non ammette critiche. Anche dopo quel che è successo, anche dopo quel che è accaduto nell’economia globale che ha seguito il credo neoliberale. È incredibile: gli economisti neoliberali non hanno previsto la crisi, non hanno saputo spiegarla, non hanno nulla da dire al riguardo, hanno inventato le politiche di austerità che, per ammissione di alcuni di loro stessi, sono state una catastrofe. Non solo le critiche ma le contraddizioni della realtà, il principio di realtà, passano sulle politiche neoliberali come fossero acqua sulla roccia. Nelle università si insegna quello che si insegnava dieci anni fa. Non c’è un barlume di pensiero critico in economia che sia sopravvissuto. Sì, c’è qualcosa, ma talmente minoritario da essere pressoché invisibile.

Per quanto riguarda lo scenario attuale: come sta cambiando, se sta cambiando, il liberismo in Italia? Ha esaurito il suo ciclo e verrà sostituito da un’altra ideologia egemone, oppure è vivo e vegeto? Pensiamo ad esempio a questo volume uscito di recente su Lo stato innovatore, che alcuni hanno letto come segnale di un’inversione di tendenza del pensiero economico.

Buonissimo libro ma si riferisce agli anni Trenta e Quaranta più che al presente. Non ha nulla a che fare con le tendenze attuali o le eventuali loro inversioni. Lo dico con rimpianto ma serenamente perché bisogna riconoscere le cose come stanno. Il neoliberalismo è vivo come non mai. Fa parte della sua inossidabilità. Gli scarti dalla realtà non hanno minimamente scalfito il pensiero neoliberale. Tutte le dichiarazioni che fanno i nostri ministri sono dichiarazioni intrinsecamente neoliberali e spesso sono riprese da testi neoliberali. Il Jobs Act contiene pezzi di testi dell’Ocse, testa di ponte della demolizione neoliberale dell’Europa, che risalgono al 1994. La riforma della scuola del governo Renzi è stata sostanzialmente scritta da una fondazione privata, di cui si citano esattamente i passi, che vengono recepiti dal governo e dal parlamento. Nonostante le sconfitte, il neoliberismo è più vivo che mai. Si potrà cominciare a parlare di un suo decadimento quando si vedranno dei provvedimenti che vanno in senso contrario, che aboliscono alcune delle leggi adottate in questi anni, insomma che si esprimono contro la tendenza dominante. Oso dire che non vedo assolutamente nulla di tutto questo. Le dichiarazioni del presidente Renzi, che ogni tanto dice che «bisogna cambiare l’Europa», non sono che acqua fresca.

Alcuni osservatori ripongono fiducia in attori politici che potrebbero costruire una nuova egemonia intorno a idee diverse rispetto a quelle neoliberali. Secondo lei è plausibile questo scenario o non lo è?

Io dal mio canto ho fiducia nel flogisto o nella pietra filosofale, più o meno equivalente alla fiducia nella direzione che lei indica.

Facendo un bilancio, quali sono stati e quali saranno i costi umani delle politiche neoliberiste in Italia? Quali sono i gruppi, magari quelli meno visibili e più nascosti, maggiormente colpiti da queste politiche?

Il neoliberismo politico è orientato sistematicamente a colpire i più deboli. Ed è quello che ha fatto anche in Italia: i lavoratori dipendenti, gli impiegati a mille euro al mese, i pensionati a seicento euro, le famiglie povere. Una grande fascia della popolazione, stimabile intorno al 25-30%, avrebbe bisogno di essere in qualche modo aiutata, non soltanto con sussidi ma con politiche del lavoro e della protezione sociale che non siano solamente punitive come sono state quelle degli ultimi tre o quattro governi.

Peraltro, spesso maneggiando in modo non corretto i dati. Noi abbiamo ormai uno strato di poveri, sia assoluti che relativi, molto elevato. Parliamo di molti milioni di persone che non possono permettersi gli standard di vita ai quali ci eravamo tutti abituati oppure non possono nemmeno procurarsi le risorse per far fronte a una vita dignitosa, riprendendo i significati di povertà relativa e povertà assoluta. Parliamo, tra gli uni e gli altri, di una cifra intorno ai dieci milioni di persone; su sessanta milioni è assai significativa. Inoltre assistiamo a una contrazione delle classi medie, perché l’attacco alla pubblica amministrazione e ai quadri intermedi, l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro vanno tutte nella direzione di colpire anche le cosiddette professioni liberali, quelle che richiedono una certa qualificazione.

Nell’insieme, sono certo i più deboli a essere più colpiti, coloro che hanno bisogno di assistenza perché proprio non ce la fanno, che necessitano di politiche contro la disoccupazione decenti, di un autentico aiuto a tornare sul mercato del lavoro. Su tutto questo non è stato fatto nulla. Non c’è da stupirsi perché è ciò che è accaduto anche negli altri paesi dell’Occidente. Prendiamo ad esempio la ricca Germania: le riforme del lavoro neoliberali volute dal socialdemocratico Gerhard Schroeder – e non è un errore accostare i due termini – a partire dal 2003, con le cosiddette leggi Hartz, sono andate nel senso di impoverire una grande frazione della popolazione lavoratrice, inclusa la classe media.

Questo è il neoliberismo. Per il neoliberismo l’ineguaglianza, anche sfrenata e molto elevata, non è un male da curare. Piuttosto, è un aspetto indispensabile di un’economia ben funzionante, perché se ci sono molti ricchi, in base alla teoria del gocciolamento – che è una teoria per molti aspetti spudorata dal punto di vista scientifico – questi investono di più, consumano di più e quindi gli effetti benefici gocciolerebbero sui ceti meno abbienti finendo per produrre più occupazione. Non è vero nulla, non c’è uno straccio di statistica che lo possa confermare. Il consumo dei ricchi non può superare certi livelli: comprare ciascuno otto lavatrici, sei automobili o cambiarsi quattro camicie al giorno. E per l’investimento bisogna considerare che, come numerosi studi confermano, oggi i ricchi tendenzialmente non investono in infrastrutture, stabilimenti, impianti, aziende di servizi. Investono in finanza per moltiplicare il denaro che già hanno. Quando la diseguaglianza non è deplorevole, non è un male, non è una forma di patologia sociale da curare in maniera più o meno radicale, il risultato è che i più deboli ne fanno le spese. L’enorme aumento della disuguaglianza negli ultimi vent’anni è dovuto alla finanziarizzazione dell’economia, al taglio delle tasse ai più ricchi, a due occhi dello stato perennemente chiusi sull’evasione e l’elusione fiscale. Ma questo, nell’ottica del neoliberalismo, è un bene, perché i ricchi consumando e investendo trascinerebbero all’insù anche i consumi e gli investimenti dei più poveri.

Nel corso dell’intervista è già emerso che manca una forte opposizione politica e sociale al neoliberismo. Quali sono le ragioni di tale assenza? È possibile pensare a un’azione politica organizzata della classe del lavoro salariato o da parte di altri soggetti che riescano a opporsi al neoliberismo? Da questa prospettiva, che ruolo svolge la precarizzazione, sia come agente di frammentazione dell’organizzazione politica del lavoro, e quindi di offuscamento della coscienza di classe, sia come possibile base di partenza di un nuovo agire collettivo? 

Sono abbastanza scettico a questo riguardo. Il movimento operaio e il movimento sindacale sono divenuti importanti, potenti e hanno ottenuto i migliori risultati nel dopoguerra, durante i «trenta gloriosi» come sono chiamati in Francia: buoni salari, buone condizioni di lavoro e, parallelamente, un tasso di sviluppo oggi inimmaginabile. Questo perché il sindacato era potente, rappresentativo, poteva battere i pugni sul tavolo per ottenere migliori condizioni di lavoro. Senza tralasciare nell’analisi quel fattore geopolitico che è stato la presenza, sino al 1991, dell’ombra sovietica. Anche in Confindustria, e comunque nel padronato in generale, si preferiva concedere abbastanza agli operai e ai lavoratori indipendenti, piuttosto che rischiare di irritare quel grande orso che sonnecchiava a oriente. Caduto quello, dissoltosi nel giro di un anno o due, la controffensiva delle classi più ricche e dominanti non ha più avuto limiti.

Il potere del sindacato si è fondato per un secolo e mezzo su tre forme di unità: l’unità di tetto, cinquecento, mille, diecimila persone sotto lo stesso tetto che facevano lo stesso lavoro; l’unità di contratto, vale a dire che se quei mille o diecimila sotto lo stesso tetto facevano il lavoro da metalmeccanici, allora avevano il medesimo contratto da metalmeccanici, punto e basta; inoltre rispondevano a un solo padrone, e quindi c’era anche l’unità di padrone. Questi tre elementi hanno reso forte il sindacato perché facevano maturare dei forti interessi comuni. Se tutti avevano lo stesso contratto, se tutti avevano lo stesso padrone, quelli si muovevano tutti insieme o quasi per una singola vertenza.

Adesso quelle cinque o diecimila persone un tempo sotto lo stesso tetto, anche lasciando perdere gli impatti dell’automazione, sono divise in centinaia di fabbriche e fabbrichette che stanno metà in Italia e metà all’estero in nome delle cosiddette catene di creazione del valore. Nessuno sa bene chi è padrone di che cosa e soprattutto i cinquemila sono diventati trecento, magari pure moltiplicati per quindici sedi in un territorio sterminato. Non hanno alcuna possibilità di vedersi, di raccontarsi, di solidarizzare fisicamente nei luoghi di lavoro.

Tutto questo ha indebolito fortemente il sindacato a prescindere dalle lotte sindacali che sono state condotte. La prima cosa che Reagan e Thatcher hanno fatto appena andati al potere, nell’81 Reagan e nel ’79 Thatcher, è stato schiantare i sindacati più rappresentativi come quello dei piloti o dei minatori. Tutto questo è accaduto anche in altri paesi, e naturalmente anche in Italia. Non c’è stata riforma del lavoro che non fosse anche un attacco ai sindacati. Non soltanto. L’organizzazione fondata sulla distribuzione di centinaia di aziende collegate fra di loro nelle catene di creazione di valore non è mica caduta dal cielo. È stata voluta per indebolire il sindacato: se uno ha una fabbrica nel milanese, una a Timisoara, una a Taiwan, avere a che a fare con i sindacati diventa molto agevole perché basta buttare via un anello, ossia interrompere il contratto con una particolare azienda, e avviarne uno nuovo con una diversa impresa tra le innumerevoli che si offrono. L’indebolimento del sindacato è stato cercato sul piano organizzativo e praticato sul piano politico. Non mi si venga a dire oggi: «il sindacato non fa più il suo mestiere». Per forza: gli sono state tagliate non solo le unghie ma anche le dita.

Vedo difficile, per concludere, ritrovare un qualche tipo di unità, perlomeno di interessi derivanti dai contratti, che preluda a un’organizzazione di massa. I soggetti sono molto frammentati e hanno interessi diversi. Occorrono delle micro-organizzazioni che sappiano coordinarsi tra loro. Ad esempio, come avviene adesso in Spagna, ma non a partire dai contratti di lavoro ma da altri punti di partenza: i contratti di affitto, i contratti di finanziamento che permettono di espropriare casa a una famiglia che pure abbia ripagato quasi tutto il prestito, dalle mense comuni, dalle scuole che non hanno i materiali o gli insegnanti. Lì si può trovare una comunità di interesse che il luogo di lavoro non offre più. Da noi non vedo molte esperienze in questo senso. Ripeto: data la frammentazione intervenuta rispetto al tetto, al contratto e al padrone, non credo sia possibile pensare soltanto alla classe lavoratrice come soggetto egemone. Bisogna pensare ai tanti altri soggetti che possono avere in comune interessi significativi pur facendo diversi lavori e sperimentando condizioni di lavoro molto diverse.

*Dario Colombo, sociologo, si è occupato della neoliberalizzazione delle politiche sociali e lavora nel campo della microprogettazione sociale. Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Bologna, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.

Luciano Gallino (1927-2015), sociologo tra i più autorevoli della nostra epoca, ha insegnato all’Università di Torino. Si è occupato delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell’epoca della globalizzazione. 

 

 

 

Marco Revelli: “Il virus della guerra”

Il virus della guerra – L’antidoto della memoria“. *

Di Marco Revelli,  7 marzo 2022

Il 24 febbraio, quando tutto è incominciato, per un gesto quasi automatico, mi sono trovato tra le mani Mai tardi, il diario di guerra di mio padre con le pagine tragiche della ritirata di Russia. Forse perché quella fuga a ritroso nel tempo, in un lontano orrore conservato nella memoria familiare mi aiutava a metabolizzare quest’altro orrore contemporaneo affidato al racconto pubblico. O, più probabilmente, perché quella rilettura mi aiutava a meglio capire la doppia angoscia che mi veniva dalla sovrapposizione di quelle due temporalità coesistenti nello stesso territorio. Giocava, in quel grumo emotivo, la coincidenza cronologica: il 24 febbraio (del 1943) è segnato nel diario come quello dell’arrivo nel villaggio di Verkievka, finalmente fuori dalla “sacca” chiusa dai russi sull’Armata italiana, quando il giovane tenente degli alpini diventato di colpo “vecchio” incominciò a raccogliere i brandelli della propria vita per rielaborare il suo pensiero sulla guerra, e non solo. Ma soprattutto mi colpiva la coincidenza geografica: tutte le fasi di quella guerra maledetta di allora si sono svolte, dall’inizio alla fine, esattamente nelle stesse terre di quest’altra, di oggi.

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Daniela Palma: “La Ricerca dimenticata”

di Daniela Palma: “La lunga crisi dell’economia italiana e la Ricerca dimenticata

Tutt’altro che nuova alle attenzioni degli osservatori esteri, l’Italia è tornata recentemente a suscitare interesse per la sua positiva capacità di reazione alla crisi pandemica. Impossibile non ricordare gli elogi dispensati sul finire del 2021 dal settimanale “The Economist”, che l’ha consacrata “Paese dell’anno” non solo in ragione dei maggiori miglioramenti conseguiti in termini di qualità del governo e di gestione della pandemia, ma anche per aver dato prova di un più rapido avvio di ripresa del Pil. Con l’avvento del nuovo anno, tuttavia, un’analisi del quadro economico dei 23 paesi più “ricchi” dell’area Ocse da parte del medesimo settimanale, comprendente oltre al Pil anche altri indicatori significativi sullo stato di salute dell’economia, ha mostrato come in realtà il nostro paese sia ancora ben lontano dal poter cantare vittoria. L’Economist sottolinea come la pandemia “abbia creato vincitori e vinti” e l’Italia ricada tra i “worst performers”, avendo recuperato solo parzialmente le perdite subite sul fronte del reddito (complessivo e riferito alle famiglie), in un contesto nel quale il tasso di disoccupazione è molto più alto della media Ocse (9,2% contro 5,7%). Rispetto ai “blocchi di partenza” dell’inizio pandemia il Pil italiano – prosegue l’Economist – registra uno scostamento del -1,3%, contro i più ridotti scarti di Germania e Francia (rispettivamente -1,1% e -0,1%); differenze per la verità non preoccupanti se non fosse che il dato di confronto del 2019 corrisponde per l’Italia a un valore del 4% inferiore al livello del Pil precedente l’arrivo della crisi finanziaria internazionale del 2008.

Aldilà di qualunque valutazione più o meno benevola, è dunque un fatto che l’economia italiana non ha ancora saldato i suoi conti con il passato. All’arrivo della crisi Covid l’Italia è l’unico paese dell’Eurozona (ad eccezione della Grecia) a non aver risalito completamente la china della trascorsa recessione. E andando a ritroso appare chiaramente come le sue difficoltà di crescita vengano da molto più lontano. Nel 2005 lo stesso Economist l’aveva presentata come “The real sick man of Europe” (Il vero malato d’Europa), zoppicante e ormai avviata sul sentiero del tramonto. Un’uscita che non doveva suonare inaspettata, visto che proprio allora iniziava ad animarsi fra gli economisti il dibattito sul “declino” del paese; questione tanto più discussa dopo il 2008 quanto più risultava evidente che i contraccolpi della crisi erano stati tra i più duri e che il terreno perso veniva riguadagnato molto più lentamente. Quella dell’Italia appariva sempre più una “crisi nella crisi” della quale veniva colta la natura essenzialmente strutturale, collegata soprattutto al persistere di una debole capacità di innovazione del suo sistema produttivo a causa della scarsa presenza di imprese nei settori tecnologicamente più avanzati. Questi ultimi divenuti sempre più cruciali per lo sviluppo mondiale via via che il rapido incremento delle conoscenze scientifiche innovava radicalmente gli assetti della produzione industriale grazie a un’attività di ricerca sempre più sistematica e condotta su larga scala.

Ciò che però sembra aver per lo più improntato l’industrializzazione italiana è l’idea che fosse percorribile la via di uno “sviluppo senza ricerca”, che è finita con il diventare la “bussola” alla quale sono state affidate le sorti dell’economia del paese. Emblematico in tal senso è stato il frequente ricorso alla metafora del “volo del calabrone”, una leggenda rivenduta spesso come “verità scientifica”, secondo la quale il tozzo insetto riuscirebbe a volare sfidando le leggi della fisica. Esattamente come l’Italia che, priva di risorse naturali e relativamente povera di industrie avanzate, contro ogni aspettativa avrebbe tessuto una storia fitta di successi, divenendo una delle maggiori economie mondiali. Nella realtà, tuttavia, e senza nulla togliere alla forza di un’ascesa che dalla seconda metà del secolo scorso ha sostenuto il decollo economico del paese, i sintomi di una fragilità del percorso di sviluppo intrapreso si sono fatti sempre più numerosi e frequenti. I limiti erano quelli di un’economia che, completata la prima fase della modernizzazione in coda ai paesi più industrializzati, non poteva sfruttare oltre la spinta propulsiva tipica del “paese inseguitore”, importando o adattando secondo modalità più o meno creative le tecnologie prodotte altrove e frutto di una continua e crescente attività di ricerca scientifica.

Non importa pertanto rilevare “solo” quanto a investimenti in ricerca (fermi ad appena 1,5% del Pil) e relativamente alla capacità di presidiare i mercati dei beni ad elevato contenuto tecnologico l’Italia si trovi oggi a gravitare verso la periferia dei maggiori paesi industrializzati e con ormai l’incombente presenza di quelli “di nuova generazione” (Cina in testa) che pure stanno divenendo protagonisti nello sviluppo di nuove tecnologie. E’ importante piuttosto capire fino in fondo cosa sia “andato storto”, capire come mai il divario tecnologico con il resto del mondo sviluppato non solo non si sia ridotto, ma abbia seguitato ad ampliarsi. E su questo versante è importante cogliere i tratti fondamentali della dinamica storica che ha caratterizzato la spesa in ricerca in rapporto al processo di industrializzazione. Così facendo, si osserva infatti che il paese non aveva fin dal principio rinunciato a progettare un “salto di qualità” del suo sviluppo, ma si trovava impegnato a promuovere un forte aumento dell’investimento in ricerca con grande attenzione per quella di base (indispensabile ad alimentare la produzione di nuove conoscenze), prefigurando un’espansione dell’industria nei settori chiave delle tecnologie di frontiera. Ma, già dalla prima metà degli anni Sessanta, il fallimento di un’illuminata “programmazione economica”, che sarebbe dovuta diventare fulcro di politiche di intervento volte ad incidere sulla struttura del sistema produttivo, lasciava che emergessero i primi deragliamenti di una “corsa al benessere” prorompente e che necessitava al più presto di un altro registro. Aumenti dei salari che superavano quelli della produttività, generavano incrementi significativi dei costi unitari del lavoro e comprimevano i profitti, con effetti negativi sugli investimenti. In assenza di miglioramenti della produttività derivanti dallo sviluppo di settori avanzati, la via breve alla competitività non poteva che essere quella di calmierare le retribuzioni, riorganizzando l’occupazione anche attraverso operazioni di decentramento produttivo e di precarizzazione della forza lavoro e, non ultimo, facendo ricorso alla svalutazione del cambio. Un meccanismo in seguito solo parzialmente corretto mettendo in campo una capacità di innovazione del tutto inedita che faceva perno sulle conoscenze “non formalizzate” di “distretti industriali” incardinati in un fitto tessuto territoriale di piccole-medie imprese, e destinati a trainare per molto tempo il comparto manifatturiero, ma che sempre meno sarebbero stati attrezzati a fronteggiare gli esiti degli ulteriori avanzamenti tecnologici connessi alla rivoluzione dell’elettronica e dell’informatica.

L’Italia che si affaccia agli anni Novanta, che si confronta con uno scenario di piena globalizzazione produttiva attraversato dai veloci ritmi del cambiamento tecnologico, e con mercati nei quali cresce vertiginosamente il peso delle produzioni high-tech, da più di un ventennio ha già di fatto realizzato una  sorta di “fuga dalla ricerca”, segnata da un sempre minor protagonismo delle imprese (operanti in prevalenza in settori tradizionali) e da una ritirata del settore pubblico che si è tradotta anche in minori finanziamenti per la ricerca di base. Nel frattempo il Pil cresceva già a tassi inferiori a quelli dei principali paesi industriali, collocandosi su una traiettoria declinante. La crisi valutaria subentrata nel 1992 e la necessità di ristrutturare le finanze pubbliche per predisporre il paese all’entrata nell’euro, completavano il quadro. Le spese in ricerca (tanto sul fronte delle imprese quanto su quello dello Stato) non sono esenti da ripercussioni e si contraggono drammaticamente, raggiungendo in quel decennio i loro minimi storici. Tale arretramento, di per sé negativo, risulta addirittura letale non appena se ne considerino gli effetti a lungo termine: una debole capacità del sistema industriale non solo di produrre innovazione, ma anche di utilizzarla, rendendo sempre meno rilevante la spesa pubblica in ricerca (che viene ulteriormente ridotta) e l’offerta di “capitale umano” altamente qualificato (che tende via via a diminuire o a infoltire le fila dei cosiddetti “cervelli in fuga”). Un circolo vizioso che ancora oggi sta pregiudicando la possibilità di dare il giusto impulso agli investimenti in ricerca (a cominciare da quelli pubblici) e alla nascita di filiere produttive a più elevata intensità tecnologica, facendo sì che il paese continui a giocare (infruttuosamente) la propria competitività sulla riduzione del costo del lavoro, con riflessi molto pesanti anche sulla la componente interna della domanda.

In una recente intervista, il Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha sostenuto come il positivo apporto di finanziamenti provenienti dall’Europa attraverso il programma di rilancio post-Covid “Next Generation EU” debba essere certamente salutato con soddisfazione, ma debba soprattutto risuonare come stimolo affinché l’Italia torni realmente a destinare risorse più consistenti e stabili all’attività di ricerca, a cominciare da quella di base. Il richiamo di Parisi coglie effettivamente un punto nodale. La storia della “fuga dalla ricerca” dell’Italia è infatti una vicenda che si contraddistingue anche per l’ampia variabilità delle cifre destinate alla spesa in ricerca e per la residualità con cui spesso queste sono state contestualizzate nelle politiche di bilancio. Ciò significa che l’investimento in ricerca ha perso da tempo anche il suo valore strategico e che, nel momento in cui si riconosce la necessità di tornare a investire, è necessario farlo avendo presente che esso deve diventare un pilastro della politica economica, della quale una politica industriale finalizzata al potenziamento dei settori tecnologicamente avanzati – che nell’attività di ricerca hanno il loro fondamento – diventi parte integrante. Una prospettiva, questa, che troverebbe riscontro anche nell’ambito di un rinnovato contesto europeo nel quale si sta valutando la possibilità di valorizzare il ruolo di quegli investimenti pubblici giudicati più rilevanti per il loro impatto strutturale sullo sviluppo economico, con crescente considerazione per gli interventi orientati all’innovazione dei sistemi produttivi.

7 febbraio 2022

“Articolo 33”

 

Penna: “55° RAPPORTO CENSIS: UNA SOCIETA’ INGIUSTA E “IRRAZIONALE””

55° RAPPORTO CENSIS: UNA SOCIETA’ INGIUSTA E “IRRAZIONALE” – di Renzo PENNA

Il 55° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese sta facendo molto discutere per la parte relativa agli elementi di “irrazionalità” che una quota non piccola di italiani manifesta. Rimanendo su temi di pregnante attualità, quasi il 6% (circa 3 milioni di persone) pensa che il Covid non esista, per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace, mentre il 12,7% ritiene che la scienza produca più danni che benefici. Avendo seguito un poco le rivendicazioni, i proclami e le proteste dei no-vax, debbo confessare che mi sarei aspettato anche risultati con percentuali maggiori. In ogni caso un fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda solo il nostro Paese, ma, e in maniera maggiore, tutte le nazioni del cosiddetto “mondo sviluppato”. Il Rapporto osserva, poi, una poco ragionevole disponibilità dei cittadini nel credere a superstizioni, teorie infondate e speculazioni complottiste: il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. Ma una più cospicua e, anche per questo, pericolosa parte di connazionali, il 39,9%, condivide la teoria del “gran rimpiazzamento”, cioè della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno per l’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte élite globaliste.

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Revelli: “Piazze malate”

Piazze malate (quando la “cultura del sospetto” si fa Pop)

26-07-2021 – di: Marco Revelli (volerelaluna.it)

A volte i popoli impazziscono. O impazziscono piccole porzioni di popolo, come quelle che si sono ritrovate nelle piazze in questi giorni, segno di tempi deragliati. Indecifrabili nella loro composizione scomposta, con i leghisti e i fascisti mescolati ai bene-comunisti, ai dentisti e agli apprendisti o ai giuristi d’assalto, incarnazione di un’eterogeneità sociale accomunata solo dall’assurdità di una pretesa irricevibile: dalla rivolta contro un provvedimento-simbolo come il Green Pass che in tempi di pandemia mortale appare mera proposta di buon senso e senza dubbio male minore, e che invece viene identificato come attentato a una libertà confusa con l’affermazione dell’assoluto diritto al proprio personale capriccio. Espressione, a sua volta, della rottura di ogni principio di responsabilità nei confronti degli altri, del loro ben più sostanziale (e costituzionalmente sancito) diritto alla salute e alla sopravvivenza, come se l’affermazione che “la mia libertà si arresta dove comincia quella del mio vicino” avesse perso di significato, e ognuno si ergesse nella propria solitudine sovrana al di fuori e al di sopra di ogni legame sociale. E come se tutta la libertà (perduta in gran parte delle questioni sostanziali) fosse oggi rifluita nella questione del si o del no a un temporaneo lasciapassare.

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Emiliani: “Lombardi, una passione irrefrenabile”

Riccardo Lombardi, una passione irrefrenabile
di Vittorio Emiliani (20 settembre 2004)

La moglie Ena aveva un bel supplicare chi accompagnava Riccardo nei giri elettorali. Fatelo parlare poco, altrimenti gli torna il male ai polmoni. Nel 1930 Lombardi era stato arrestato dalla polizia fascista e scientificamente picchiato con sacchetti di sabbia bagnata ledendogli per sempre un polmone e spedendolo in sanatorio. Ma quando lui si trovava di fronte come capitò una sera al Sociale di Stradella una platea gremita, di giovani soprattutto, disegnava quei suoi affreschi planetari parlando anche una o due ore. Senza che nessuno si schiodasse dalla sedia. Tutti affascinati da quell’oratore alto, magro, un po’ curvo, che parlava con voce forte, sempre a braccio, citando a memoria dati e cifre. L’ingegner Lombardi era così. Irrefrenabile nella passione politica. Nella voglia di comunicare agli altri, ai più giovani soprattutto, passione, libertà di mente, ragionamento politico. E gli astanti avvertivano che dietro quel volto impossibile da immaginare senza occhiali, in quella testa incassata fra le spalle ossute, c’era il più totale disinteresse personale, una mancanza di cinismo persino disarmante.

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Penna: “IL MIO RICORDO DI FAUSTO VIGEVANI”

IL MIO RICORDO DI FAUSTO VIGEVANI

di Renzo Penna – 10 marzo 2021

Chi per primo mi ha parlato di Fausto Vigevani è stato, nei primissimi anni ’80, Guglielmo Cavalli, Segretario responsabile della Camera del Lavoro di Alessandria, socialista, la persona che più si è adoperata per favorire il mio impegno, a tempo pieno, nel sindacato.

Cavalli di Vigevani apprezzava, in particolare, le sue declinazioni del tema dell’unità: l’unità interna alla CGIL, quella dei soggetti presenti nel mondo del lavoro, l’unità sindacale e quella della sinistra. Fausto, quando nel novembre ’81 entra a far parte della segreteria Confederale, ha alle spalle otto anni nella categoria dei chimici, di cui gli ultimi quattro da Segretario generale.

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