Tra accordi giusti o sbagliati, sarebbe meglio farne di efficaci 

Il “Protocollo sul welfare” l’occasione mancata. Liberazione 30 agosto ’07

di Sergio Ferrari*, Paolo Leon**, Roberto Romano*** 

La politica e il governo italiano sono chiamati ad un impegno complicato: tentare di suggerire una linea di politica economica generale tesa a rimuovere i vincoli di ordine sociale, economico e di struttura per allineare il Paese all’Europa. È un impegno gravoso, reso ancora più difficile dal caos mediatico sullo stato di salute dell’economia nazionale; per non parlare della difficoltà che affligge un pezzo consistente della società. Il governo ha messo in campo delle importanti misure finanziarie, in particolare nel contrasto all’evasione fiscale, ma sul piano delle politiche di struttura, di lombardiana memoria, non rileviamo lo stesso livello diattenzione e di analisi. Indiscutibilmente il “protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibile” indica i nodi che “vincolano” il Paese, ma le misure indicate non sembrano coerenti con i problemi di struttura che l’Italia deve affrontare.
Spesso i ritardi del Paese sono attribuiti ai cosiddetti vincoli “parassitari” della società italiana (antitrust, sindacato, ambiente, privacy, tasse, gare pubbliche, ecc.), ma un’attenta analisi “del paziente” suggerisce delle riflessioni significativamente diverse.
Innanzi tutto occorre scegliere il luogo di osservazione per “fotografare” il Paese. Se l’Europa è il nostro naturale punto di riferimento, è attraverso unaattenta valutazione-comparazione con la stessa che si misura il gap dell’Italia.
La crescita del Pil, cioè un indicatore sintetico della capacità di reddito, mostra una forte divergenza nella crescita del Pil dell’Italia rispetto all’Europa per un meno 8,4 punti (1996-2006), nonostante degli investimenti fissi lordi in linea con la media europea. Sostanzialmente gli investimenti delle imprese italiane non hanno determinato la crescita di reddito che era lecito attendersi, fino a determinare unasovracapitalizzazione delle stesse se consideriamo la dimensione media.
Relativamente alla specializzazione produttiva, il sistema delle imprese nazionale non solo diverge dalla specializzazione europea, ma nemmeno sul cosiddetto made in Italy riesce a misurarsi con l’Europa.

La differenza nella crescita della produzione industriale tra l’Italia e l’Europa (1996-2006) è pari a meno 21,5%, interessando tutte le categorie della destinazione della produzione: meno 16,7% nei beni di consumo; meno 32,6% nei beni intermedi; meno 41,2% nei beni strumentali. Da un lato si”consolida” la specializzazione nei beni di consumo, comunque in misura significativamente più bassa della media europea, dall’altra gli investimenti fanno il paio con la bilancia commerciale che nei settori ad alta tecnologia è strutturalmente in passivo. Sostanzialmente gli investimenti delle imprese italiane si traducono in importazioni, a tutto vantaggio dei beni strumentali e intermedi realizzati in paesi diversi dall’Italia. Non solo “avvantaggiamo” le economie che producono beni e servizi ad alto valore aggiunto, con dei tassi di produttività e di crescita molto più alti dei beni a basso valore aggiunto, ma rinunciamo a creare lavoro buono e ben remunerato. Senza un mutamento di struttura è difficile agganciare l’Europa. Non a caso i più attenti analisti economici cominciano a parlare di meridionalizzazione del Paese rispetto all’Europa.
Gli effetti, e sottolineiamo la dizione “effetti”, sono quelli di uno stato sociale in sofferenza che non riesce a rispondere al crescente malessere del mondo del lavoro, oltre ad una dinamica salariale, purtroppo, in linea con la specializzazione produttiva. Se produciamo beni e servizi a basso valore aggiunto i salari non possono che essere più contenuti, indipendentemente dalla capacità contrattuali del sindacato.
Sostanzialmente il Paese rinuncia a misurarsi con il mercato internazionale, cioè “arricchisce” i paesi da cui importiamo i beni che hanno una produttività e valore aggiunto superiore ai beni di consumo. Lo stesso tasso di attività lavorativo dell’Italia in qualche modo manifesta la diversa capacità di “struttura” del sistema economico. L’Italia ha un tasso di attività lavorativo pari ad una media di meno 6,9 punti percentuali, che fa il paio con il minore utilizzo degli impianti dovuto alle diseconomie di scala del sistema produttivo. Non si tratta di una maggiore o minore rigidità dell’offerta di lavoro dell’Italia, piuttosto dell'”assenza” di domanda di lavoro nei comparti relativi ai beni intermedi e strumentali, che sono realizzati al di fuori dei confini nazionali. Non deve allora sorprendere il riposizionamento del reddito da lavoro sul complesso del sistema economico che passa dal 43,7% del Pil del 1993 al 40,7% del 2004, nonostante il numero dei lavoratori dipendenti sia cresciuto di 1,3 milioni.
Gli effetti sulla previdenza dovuti dalla mancata crescita della produttività, del Pil e del tasso di occupazione, unitamente alla difficoltà di avere un reddito da lavoro disallineato dalla media europea, condizionano il tasso di sostituzione. Non si tratta di valutare positivamente o meno l’allungamento della vita lavorativa, che dovrebbe essere sempre libera, piuttosto l’inadeguatezza del tasso di sostituzione per i giovani che oggi cominciano a lavorare.
Le misure delineate nel “protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibile”, in particolare quelle che interessano la competitività, intervengono sostanzialmente sul costo del lavoro:
l’abolizione della contribuzione aggiuntiva agli straordinari e ladetassazione dei premi di risultato aiutano la competitività; riduzione del costo del lavoro legata alla contrattazione di II° livello; incentivi all’occupazione.
La stessa “frammentazione” dei modelli contrattuali, indipendentemente dalla rimodulazione del tempo determinato, dello staff leasing e del lavoro a chiamata, in qualche modo “compartecipano” alladespecializzazione della domanda di lavoro e per questa via ritardano quel cambio “generazionale” delle maestranze necessario per “avviare” la trasformazione del tessuto produttivo.
I problemi dell’adeguamento di “struttura” del sistema Paese, avrebbero suggerito da un lato un’azione di incremento delle risorse destinate allo stato sociale (universale), dall’altro una altrettanto innovativa azione di sviluppo di attori e di culture capaci di operare nell’innovazione tecnologica e sociale, con particolare attenzione ai beni strumentali e intermedi.
Relativamente al “protocollo”, se lo si dovesse considerare il riferimento complessivo della politica economica e sociale del Paese, sarebbe più corretto parlare dell’ennesima occasione mancata per “riprogettare” il Paese.


*già Vice direttore Enea, **professore ordinario di Economia Pubblica presso l’Università di Roma Tre, ***economista Cgil Lombardia

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