Giacomo Brodolini: il ministro che sfidò la morte

 

 

 

 

 

A meno che non si possa far ricorso a guerre, rivoluzioni e altri eventi grandiosi o catastrofici, è difficilissimo portare sullo schermo (o sulle pagine di un romanzo) la vita di un uomo politico, che consiste per la maggior parte di riunioni, telefonate, spostamenti, e ancora riunioni in cui gli stessi discorsi vengono tessuti e ritessuti all’infinito. Nemmeno l’oratoria può arrivare in soccorso come una volta: non siamo più ai tempi di Tucidide, e nelle democrazie moderne il divario tra le parole e le loro conseguenze concrete è sempre più sfuggente ed opinabile. È necessario trovare degli schemi narrativi efficaci, vale a dire delle situazioni, limitate nel tempo e nello spazio, in cui, per così dire, tutti i nodi vengono al pettine. Bisogna insomma rintracciare e rappresentare quei particolari momenti di intensità che sono capaci di rivelare il senso profondo di un’intera vita pubblica. Sono riusciti egregiamente in questa impresa Giancarlo Governi e Marco Perisse, autori di un trattamento cinematografico intitolato «Non ho tempo», e dedicato a Giacomo Brodolini, dirigente sindacale, parlamentare socialista e ministro del lavoro, nato a Recanati nel 1920 e morto in una clinica di Zurigo a soli 49 anni, l’11 luglio del 1969. Spero proprio che il film (prodotto da Gianpaolo Sodano) vada in porto nel migliore dei modi: come cercherò di spiegare racconta una storia davvero interessante, e non solo per i suoi ovvi risvolti politici e sociali.

Con gli operai

Nei libri di storia e nelle enciclopedie Brodolini è il ministro che concepì (con la collaborazione fondamentale del giurista Gino Giugni) e impose alla sua stessa maggioranza di governo lo Statuto dei Lavoratori, finalmente convertito in legge, la famosa legge 300, nel maggio del 1970. Viene spesso ricordato anche il capodanno del 1968 passato assieme agli operai della Apollon in sciopero, in un tendone eretto a via Veneto: un fatto che all’epoca destò scandalo, così come la sua solidarietà ai braccianti siciliani di Avola, che lottavano contro il caporalato e le famigerate gabbie salariali. E non può essere dimenticata la sua lucidissima, intransigente protesta, quando era ai vertici della Cgil, contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, in netto contrasto con la filosofia che vedeva nei sindacati una semplice «cinghia di trasmissione» degli orientamenti e delle decisioni dei partiti. Di lui si può dire che il suo slogan più celebre («Da una parte sola. Dalla parte dei lavoratori») fu tutt’altro che uno slogan, ma un destino, una questione di vita e di morte.

Il ruolo voluto

Tra le tante fotografie che si trovano facilmente in internet, mi piace soprattutto una che lo ritrae a Recanati, nell’immediato dopoguerra, in compagnia di Joyce Lussu, in occasione di un comizio elettorale, con l’eterna (e fatale) sigaretta in bocca: una specie di Jean Gabin sindacale, non bello ma sicuramente affascinante. Ne ho anche un ricordo privato, che fatalmente si mischia alle notizie pubbliche: Giacomo Brodolini era mio zio, e in famiglia su quell’uomo testardo e proteso all’avvenire circolavano molte leggende. Ma leggendo il lavoro di Governi e Perisse, la storia di zio Giacomo mi è apparsa in una luce totalmente diversa, e talmente commovente che voglio provare anche io a raccontarla per quello che è stata: una sfida alla morte, un appuntamento con il Fato che, al di là dei suoi significati storici e politici, ha un sapore antico, che non esito a definire eroico. Se dovessi indicare un epicentro, o meglio un fulcro di tutta la vicenda, sceglierei lo studio di un medico, a Roma, nell’autunno del 1968. Uno di fronte all’altro, stanno il paziente, che è Giacomo Brodolini, da pochi mesi eletto senatore nelle file del PSU, e il medico, di cui non conosco il nome, e che ha pessime notizie: le peggiori che si possano dare a un paziente. Brodolini ha un tumore ai polmoni, con metastasi arrivate alla gola. La sentenza è inappellabile: gli rimangono pochi mesi di vita. È una scena terribile, che si ripete ogni giorno, ogni ora in ogni angolo del mondo: ma questo non toglie nulla alla sua unicità, perché ogni essere umano reagisce a modo suo di fronte agli eventi supremi.

Immagino il giovane senatore (a luglio aveva compiuto quarantotto anni) che, uscito dallo studio del medico, vaga stordito per le strade di Roma, forse già addobbata per le feste di quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Sicuramente pensò a quanto poco fosse il tempo che gli restava: mesi, settimane ? Ma assieme a quel pensiero, deve pure essercene stato un altro, che non smentiva il primo, ma gli dava un altro senso: era ancora vivo, come tutta la gente intorno a lui, e nessuno dei suoi simili avrebbe potuto prevedere con certezza quanto tempo gli restasse. Bisogna anche sapere che erano giorni molto intensi e agitati, nel mondo politico: si lavorava alla formazione di un governo di centrosinistra, il cui presidente sarebbe stato Mariano Rumor. Ai socialisti spettavano alcuni ministeri importanti, e uno di questi sarebbe facilmente andato a Brodolini. Ma lui, in quelle ore terribili, aveva fatto la sua scelta, e la impose ai compagni di partito, a partire dal segretario socialista, Francesco De Martino. Volle un ruolo che, almeno sulla carta, era meno importante di altri che gli venivano offerti: e il 12 dicembre del 1968 divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale. Era la posizione che gli avrebbe consentito, nel poco tempo che gli rimaneva, di portare a termine il compito
che si era assunto fin da giovanissimo, quando arrivò a Roma a dirigere il sindacato dei lavoratori edili. Ed era l’occasione, più unica che rara, di conferire un senso a un’intera vita. Ogni giorno che passava, a quel punto, era prezioso.
Sono queste le condizioni drammatiche in cui fu concepito, scritto e infine convertito in legge lo Statuto dei Lavoratori.

L’ultimo gesto

Oggi possiamo affermare che lo Statuto dei Lavoratori mise l’Italia all’avanguardia della vita civile e sociale in Europa e nel mondo. Ma in quei sei mesi che per Brodolini furono un terribile conto alla rovescia, nemmeno gli alleati di governo, nemmeno i comunisti si erano resi pienamente conto dell’importanza della posta in gioco, che era quella di tradurre in una legge, con tutti i suoi articoli limpidamente espressi, lo splendido articolo 1 della nostra Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica «fondata sul lavoro».
Ma cosa significa, in pratica? I princìpi sono sacrosanti, ma vanno riempiti di contenuti effettivi: nel caso specifico, di diritti, imperniati sulla dignità dei lavoratori. In quest’ultima battaglia trascorsero gli ultimi sei mesi della vita di Giacomo Brodolini. Morì l’11 luglio del 1969, in una clinica di Zurigo dove si era ricoverato per tentare un ultimo intervento chirurgico. Una fotografia lo ritrae all’ingresso della clinica, con qualche leggero bagaglio sulla spalla e ancora una sigaretta che pende dalla bocca.

L’ultimo gesto che fece fu firmare lo Statuto. Quando penso alla storia di mio zio mi viene sempre in mente il tempo: l’uso che ne facciamo, la quantità che pensiamo di avere a disposizione. Ho ormai superato di molto l’età raggiunta da Brodolini, ma ancora continuo a perderlo, a rimandare i compiti importanti che pure mi sono assegnato. Non me ne faccio nemmeno una colpa: ognuno vive come sa vivere, e non può diventare un altro. Ma l’idea di quei sei mesi finali e della marcia a tappe forzate che condusse allo Statuto dei Lavoratori mi sembra un simbolo così luminoso dell’esistenza umana che vorrei che tutti lo conoscessero, nella sua grandiosa semplicità. Si dice sempre che la politica e i fatti privati dovrebbero essere due sfere il più possibile distinte, e forse in
generale è vero, ma questo mi sembra un caso assolutamente virtuoso di coincidenza tra le condizioni personali e la vita pubblica. Tante cose su Giacomo Brodolini le ho apprese da sua moglie, Vera, che gli è sopravvissuta a lungo curando la sua memoria.

Era un uomo colto, fiero di essere un concittadino e un omonimo di Giacomo Leopardi. Amava la pittura italiana moderna, e i libri rari. Mia zia mi ha regato un cimelio che conservo sulla mia scrivania, usandolo come fermacarte. È una pesante medaglia di bronzo, in bello stile modernista, che gli fu donata da un sindacato di metalmeccanici americani, da quello che capisco una specie di FIOM d’oltreoceano. Sul retro c’è scritto: con le mani costruiamo automobili, aerei e strumenti agricoli, e con il cuore costruiamo un futuro migliore. I tempi sono talmente cambiati che non so immaginare cosa avrebbe pensato oggi Giacomo Brodolini di tante cose che accadono, e attribuire opinioni ai morti mi è sempre sembrato un gioco macabro e insensato. Ma di una cosa sono sicuro: l’unione dell’abilità delle mani e della lungimiranza del cuore è un’immagine del bene che va a tutti i costi preservata e tramandata.

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Tronti: “Stato sociale e pieno impiego tra costituzione ed economia”

Stato sociale e pieno impiego tra costituzione ed economia

di Leonello Tronti

Sintesi

L’articolo tratta in modo sintetico l’evoluzione del concetto di stato sociale, e il suo legame con la crescita economica e la piena occupazione, lungo un percorso complesso che dura oltre un secolo, dal lavoro di Adolf Wagner (1878) alle proposte di James Meade (1989, 1995). La panoramica si concentra sui legami teorici dei primi esperimenti dello stato sociale con il fondamento dell’economia del benessere (Pigou, 1920), l’istituzione del concetto di capitale umano (Knight, 1944; Schultz, 1961) e la sistematizzazione del disegno dello stato sociale offerta da Beveridge (1942). Negli stessi anni, l’obiettivo della piena occupazione è affermato come realizzabile e opportuno (Keynes, 1936; Beveridge, 1944; Roosevelt, 1945), mentre la Costituzione italiana (1948) ne propone un importante avanzamento, affermando la piena occupazione come libertà sostanziale. Con la fine degli accordi di Bretton Woods (1971) e gli shock petroliferi (1973, 1979) la stagflazione si diffonde alle economie sviluppate, e sia lo stato sociale che la piena occupazione subiscono una battuta d’arresto. La legge di Wagner trova un’espressione più evoluta nella curva di Laffer (1974), mentre la politica monetaria diventa restrittiva e la piena occupazione deve cedere il passo al Nairu (Modigliani e Papademos, 1975; Tobin, 1980). È questo il clima in cui Meade propone un nuovo e vitale legame tra lo stato sociale e la piena occupazione: una proposta in cui l’azionariato dei lavoratori si combina con le “nazionalizzazioni alla rovescia” (topsy-turvy), e il dividendo sociale con il credito pubblico (anziché il debito), in una prospettiva di graduale dissolvimento dell’imposizione fiscale. Una proposta decisamente fuori dagli schemi, ma su cui vale la pena riflettere  a fondo.

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Salario minimo e lavoro povero

Di Leonello Tronti – 27 novembre 2023 (eguaglianzaeliberta.it)

Dal 2011 la perdita di potere d’acquisto per l’insieme delle retribuzioni è stata dell’8,3%, caso unico nell’eurozona. Tra il 2005 e il 2021 i lavoratori poveri sono cresciuti dall’8,7 all’11,6% degli occupati, mentre le famiglie in povertà assoluta sono passate dal 3,3 al 9,4% della popolazione; quasi 5 milioni sono i lavoratori a termine o in part-time involontario. Nel frattempo l’andamento dell’economia non è affatto migliorato. Le mobilitazioni sindacali di questi giorni hanno ragioni da vendere ed è bene che la politica se ne renda finalmente conto.

Perché tante imprese, il governo e il Cnel sono contrari all’introduzione in Italia di un salario minimo? Davvero non c’è in Italia un problema di bassi salari? E davvero la remunerazione dei lavoratori non ha nulla a che fare con la crescita asfittica dell’economia?

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In memoria di Salvatore Biasco

In memoria di Salvatore Biasco

Pubblicato da keynesblog il 13 novembre 2023

Ad un anno dalla scomparsa di Salvatore Biasco, economista allievo di Paolo Sylos Labini, Maurice Dobb, Nicholas Kaldor e Hyman Minsky, la rivista Moneta e Credito ha pubblicato uno speciale in memoriam per ricordare il suo lavoro.

Come sottolineato da D’Ippoliti e Roncaglia nell’introduzione “I molteplici contributi di Biasco hanno spaziato dall’economia internazionale alla finanza, passando per l’impegno politico in prima persona. Il lavoro di Biasco ha sempre sottolineato il ruolo centrale della politica economica ma anche la sua natura endogena. In contrasto con le teorie dominanti che attribuiscono le fluttuazioni economiche e le crisi a fattori esterni, Biasco considerava problematica l’idea di un equilibrio stabile di mercato. Il lavoro di Biasco ha gettato luce sull’importante impatto delle variabili finanziarie su quelle reali, ad esempio con articoli sull’endogenità dei cicli valutari e sull’importanza dei flussi lordi di capitali nel sistema monetario internazionale.”

Sui cicli valutari rimandiamo in particolare al contributo di Daniela Palma, pubblicando di seguito l’abstract:

Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”

Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
Link all’articolo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/article/view/18283

L’intero numero è liberamente consultabile all’indirizzo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/issue/view/1663

 

Giudice: “LOMBARDI PRECURSORE DELL’ECO-SOCIALISMO”

Di Giuseppe Giuduce, 13 settembre 2023
Non so se il termine ecosocialismo sia corretto o meno. Talvolta viene utilizzato come un’implicita critica al socialismo tourt-court. Quando invece concerne l’attualizzazione della ragion d’essere del socialismo , come progetto di emancipazione sociale delle classi subalterne basato su una critica strutturale al capitalismo odierno. C’è infatti un ecologismo acritico che si bada bene di contestare le radici dei gravissimi problemi ambientali che mettono in pericolo la sopravvivenza della specie umana. le radici stanno nel meccanismo di sviluppo e crescita del capitalismo, del suo modo di produrre e consumare. che da un lato generano enormi ingiustizie e disuguaglianze , nonché un super-sfruttamento del lavoro, dall’altro infligge ferite mortali all’ecosistema. Oggi il conflitto con il capitalismo unisce in modo sistemico questione sociale e questione ambientale. E il capitalismo odierno è un sistema globale. Capitalisti sono gli USA, capitalista è la Cina (dove ci sono più di 500 miliardari in dollari), capitalisti sono la Francia, la Germania , la GB: capitalista è l’India. Sono capitalismi che hanno le loro peculiarità ma perseguono gli stessi obiettivi.
IL conflitto contro il capitalismo non può che essere un conflitto globale che prospetti un progetto di società alternativo. A tale proposito propongo diversi passi di un libro-intervista che Riccardo Lombardi rilasciò allo storico socialista Carlo Vallauri nel lontanissimo 1976 e che forse esprime la migliore sintesi del suo pensiero (faccio notare che il libro è stato ristampato nel 2009 con introduzione di Fausto Bertinotti ). In tale passo Lombardi, per primo , nella sinistra, contesta lo sviluppismo, discetta sui limiti fisici e naturali della crescita, legandoli strettamente alla critica profonda al capitalismo. Espongo i passi:
Quando si parla di sacrifici bisogna guardare un po’ più lontano, e bisogna pensare che noi ci avviamo rapidamente ad una situazione mondiale in cui tutte le classi dovranno rivedere i loro modi di vita poiché non è consentito – ed ogni giorno se ne avverte di più l’impossibilità – che, alla lunga, si possa pensare di lasciare tre quarti del mondo affamati ed un quarto in condizioni di super consumo…
Una società capitalista … si distingue da una socialista…per la diversità della ricchezza. Più ricca perché diversamente ricca. …Pensare che l’Europa capitalista possa inseguire un modello di sviluppo di crescenti consumi in modo da… eguagliare gli Stati Uniti d’America, è un non senso, perché uno sviluppo di questo genere non può essere fisicamente sopportato dal mondo…
Non dobbiamo dimenticare che…le risorse energetiche, le materie prime…avranno costi di estrazione sempre maggiori, quindi piu cari. Si porrà perciò un problema di permanente difficoltà. Penso che non si possa continuare in un modello di sviluppo che è fatto di sprechi organizzati. Si fabbricano beni di consumo deliberatamente deperibili – a parte quel bene di consumo, per definizione per definizione obsoleto fin dalla nascita, che è l’armamento – perché l’interesse produttivo è rivolto a costruire con un massimo spreco di materie prime, a costruire beni facilmente deperibili e quindi sostituibili, per alimentare continuamente il mercato…
Il modello neo capitalista non funziona se non con un rinnovamento incessante e tumultuoso dei consumi e, quindi, con uno spreco immenso di risorse e di materie prime. Se l’Europa dovesse inseguire questo modello…saremmo freschi!
Questo non è fisicamente sopportabile, non è politicamente sopportabile dal resto del mondo, che ne pagherebbe il costo, e non è sopportabile dall’indisponibilità di risorse a prezzi sufficienti per poter alimentare questo spreco continuato. Qui bisogna prepararsi a tutto un modello diverso di consumi.”….Che fare?
“…come indirizzo generale, i mutamenti dovrebbero consistere, intanto, nel rendere la produzione italiana meno dipendente, meno indirizzata verso gli scambi con l’estero…Poi una maggiore domanda pubblica interna e soprattutto una domanda per servizi sociali…
L’altro indirizzo è quello del risparmio delle materie prime che implica il ricorso – si può dire quasi rivoluzionario, in quanto in contraddizione con la logica del sistema, – alle fabbricazioni di beni meno deperibili di quelli deliberatamente deperibili che fanno adesso…dalle automobili, alle lampade elettriche, alle calze di nylon…Certo costerebbero di più ma con minor spreco di materie prime, il costo d’acquisto maggiore sarebbe compensato dal più lungo ammortamento…C’è anche una questione di civiltà, quella di risparmiare lavoro utile sprecato nella futilità e nella obsolescenza programmatica…
Credo che soltanto un governo socialista possa resistere alle pressioni perché le cose non mutino, in quanto probabilmente, anzi certamente, il sistema produttivo dilapidatorio consente un mantenimento del meccanismo dei profitti molto più potente di quanto non consenta un sistema di risparmi di risorse.”
Questo nel 1976!!! In parte le problematiche sollevate da Lombardi, sono poi riprese da Giorgio Ruffolo. Nel suo libro più denso “la qualità sociale”. Anche se Ruffolo ragiona nei termini di un nuovo compromesso più avanzato con il capitalismo e Lombardi invece per il superamento del capitalismo stesso. Egli dà un grande contributo per immaginare un modello economico compatibile con gli equilibri ambientali. Del resto Giorgio Ruffolo è stato per 5 anni ministro dell’ambiente dal 1987 al 1992, in quota PSI. Un ministero che Ruffolo trasformò completamente, dandogli sostanza e forza politica. Ruffolo non amava i teorici della decrescita felice (alla Serge Latouche, a sua volta ispirato da Ivan Illich). Il limite dei teorici della decrescita è simmetrico e speculare a quello degli sviluppisti. Essi ragionano solo in termini quantitativi e non qualitativi. Una critica che lo stesso Lombardi avrebbe sottoscritto. Egli infatti pensava che si sarebbe dovuto passare dalla produzione di beni ad alta intensità di profitto, ad un’altra ad alta intensità di utilità …una volta disse che accanto alla caduta tendenziale del tasso di profitto, il capitalismo produceva una caduta dell’utilità marginale delle merci. C’è poco da aggiungere, sulla grande lungimiranza di Lombardi. Del resto la battaglia contro le ingiustizie, e le disuguaglianze del “capitalismo reale” si unisce ad una politica di piano per una vera transizione ecologica dell’economia, nelle “socialdemocrazie di sinistra” di Corbyn e Melenchon.

 

PEPPE GIUDICE

PENNA: SANITA’ PUBBLICA: UNA SITUAZIONE DRAMMATICA

SANITA’ PUBBLICA: UNA SITUAZIONE DRAMMATICA

Pubblicato sul numero 101 della rivista “dalla parte del torto“, di Parma

Dall’anno della riforma, il 1978, il diritto alla salute e lo stato del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale non sono mai stati cosi a rischio. Nel Documento di economia e finanza (Def) il governo sta programmando la riduzione della spesa sanitaria che nel 2024, rispetto all’anno in corso, si ridurrà del 2,4% e che, in rapporto al Pil, a partire dal 2025, scenderà al 6,2%, rappresentando il valore più basso degli ultimi decenni. Considerando che già oggi la spesa per la salute in Italia è ben al di sotto della media europea e lontanissima da paesi come la Francia e la Germania, la situazione che emerge non può che essere definita drammatica. Questa condizione è pienamente confermata dall’ultimo rapporto di “Cittadinanzattiva”, sia per quanto riguarda i tempi di attesa per visite, screening e interventi che per la condizione deficitaria del personale (medici, tecnici e infermieri), da cui, in particolare, dipende la generale condizione critica dei pronto soccorso. Per non parlare della pressoché totale assenza dell’assistenza domiciliare e dell’insufficiente numero dei consultori. Sul fronte del personale la CGIL sostiene che: “nel Def non c’è assolutamente nulla, né per i rinnovi dei contratti, né per un indispensabile piano straordinario di assunzioni e tantomeno per il superamento del blocco della spesa del personale”.[1]

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Rossanda: “Il compagno Lombardi”

Dalla pubblicazione  “Volti di un secolo” il ricordo di Riccardo Lombardi  scritto, nel settembre ’84,  da Rossana Rossanda.
«Non vorrei vivere molto in un mondo dal quale se ne fossero andati i miei amici», ebbe a dire una volta Simone de Beauvoir. E mi viene in mente sentendo della fine di Riccardo Lombardi. Non soltanto perché è triste la perdita di un uomo molto caro e molto rispettato, non soltanto perché è un altro segmento di storia che se ne va, ma perché lentamente se ne sta andando, con compagni come lui, forse l’intelligibilità della nostra stessa esistenza.
Le generazioni politiche sono altra cosa dall’età: ero poco piú d’una ragazzetta quando nel 1944 a Milano conobbi l’ingegner Lombardi, già fondatore d’un partito e suo rappresentante in quel Cln dell’Alta Italia che la gente del Nord considererà sempre il solo vero.

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I giovani e la Resistenza

intervento di Renzo Penna in occasione dell’incontro pubblico “I giovani e la Resistenza – Storia e Musica, verso i 75 anni della Costituzione italiana” promosso da CGIL, ANPI, Laboratorio Civico e Istituto di Istruzione Superiore Umberto Eco, il 20/05/2023 ad Alessandria

Buon pomeriggio a tutte e a tutti.

In un pomeriggio nel quale stiamo per assistere al concerto del liceo musicale, diretto dal professor Enrico Pesce, e all’esibizione del corpo di ballo del liceo coreutico sotto la direzione della professoressa Michela Tartaglia… mi è stato assegnato un compito non semplice: quello di parlare di giovani e di Resistenza in un tempo che sarà necessariamente contenuto e riguarderà solo alcuni  aspetti.

Care ragazze e cari ragazzi,

1) Il primo: la Resistenza ha riguardato e coinvolto in prevalenza i giovani.

I partigiani erano molto giovani. Quando, l’8 settembre del 1943, viene proclamato, dal maresciallo Badoglio, l’armistizio con gli anglo-americani, la loro età media è di 24,7 anni. 22.600 sono i giovanissimi, con una età compresa tra i 17 e i 19 anni; 24 mila sono quelli tra i 20 e i 23 anni, mentre i più grandi, in 14 mila, hanno tra i 24 e i 30 anni. In particolare la renitenza di massa alla leva del bando del ’43 della RSI o a quello tristemente noto di Graziani del ’44 che prometteva la pena di morte “mediante la fucilazione nel petto” per chi non aderiva, e riguardava le classi del 1923, ‘24 e ’25, ha fatto si che in molti, scegliendo la strada della lotta in montagna, hanno contribuito ad ingrossare le file del movimento partigiano, animati da un sentimento, anche prepolitico, di ribellione esistenziale nei confronti del regime.

Nella nostra regione, il Piemonte, oltre il 70% dei combattenti registrati alla fine della guerra aveva, o avrebbe avuto, nel caso dei caduti, un’età al di sotto dei trent’anni; il 60 % non aveva più di venticinque anni; un quarto dei casi al massimo venti.[1]

Per fare solo un esempio il nostro Pasquale Cinefra, il partigiano “Ivan”, presidente dell’Anpi provinciale, prima e Onorario, poi, nel ’43, aveva 17 anni.

Se alla fine del ’43 i partigiani erano poche decine di migliaia, nell’estate del 1944 sono diventati circa ottantamila per raggiungere il numero di duecentomila effettivi nella primavera ’45. Nella Resistenza hanno combattuto persone di ogni origine sociale e provenienza geografica e si è registrata una forte presenza femminile con circa 35 mila partigiane.

Tutti i resistenti affrontarono i maggiori rischi legati alla loro condizione di irregolari rispetto a quelli presenti in una guerra combattuta tra eserciti regolari e si registrarono circa 29 mila morti, mentre altri ventimila partigiani rimasero mutilati o invalidi.[2]

La forza del movimento partigiano si è fondata nella pluralità di posizioni che hanno rappresentato la sua principale ricchezza. Un fenomeno articolato ed eterogeneo, animato da singoli individui e forze politiche mosse da intendimenti ideologici differenti, ma tenuto insieme da un medesimo convincimento antifascista. Proprio questa è stata l’eccezionalità della Resistenza italiana, rispetto alle altre esperienze di lotta armata attive in alcuni Paesi europei. Gli italiani che scelsero di combattere la Resistenza o di sostenerla psicologicamente, logisticamente, materialmente, a rischio della loro stessa vita, seppero trovare un minimo comune denominatore collettivo e conservarlo il tempo necessario per condurre in porto quella lotta.

2) Il secondo aspetto della Resistenza che voglio ricordare e che, soprattutto in questa sede, non posso mancare di sottolineare, come troppo spesso avviene; riguarda il ruolo avuto dagli scioperi, prima quelli del marzo ’43, quando gli operai delle fabbriche affrontarono la repressione fascista per rivendicare pace, lavoro e salari più giusti e, l’anno seguente, gli scioperi più politici del marzo’44 contro la dittatura e per la democrazia e la libertà, quando sfidarono le SS nonostante i pericoli della deportazione nei lager nazisti dai quali a migliaia non tornarono. Un aspetto sottostimato quello degli scioperi della classe operaia delle industrie del nord, in particolare delle tre regioni: Piemonte. Lombardia e Liguria, sia per la dimensione che è stata di massa – circa mezzo milione di scioperanti – che per il ruolo avuto contro la dittatura e, con la messa a rischio delle produzioni belliche, contro lo sforzo militare della guerra.

Un ruolo riconosciuto a livello internazionale dove ha suscitato, da parte degli Alleati, sia entusiasmo che preoccupazione – Churchill il 25 aprile ’45 parlò di “bolscevismo rampante”[3] – un ruolo che ha pesato in sede di Assemblea costituente, quando, all’articolo 1, si è deciso di fondare sul lavoro la Repubblica democratica italiana. Rappresentando in questo una caratteristica unica tra le Costituzioni moderne. Ed è stato Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, dopo la proclamazione della Costituzione, ad evidenziare il riconoscimento che in essa aveva avuto il lavoro.

Possiamo quindi sostenere che ha fatto parte della Resistenza anche il poderoso movimento di protesta di un grande soggetto collettivo: la classe operaia settentrionale. Il cui protagonismo ha spinto i costituzionalisti a immaginare la persona come titolare non solo dei diritti civili e politici, ma anche sociali e a interpretare il lavoro come condizione necessaria per l’esercizio della cittadinanza.

E’ stato questo carattere popolare della Resistenza che ha permesso all’Italia di dar vita ad un’Assemblea Costituente potendosi dare autonomamente una nuova Carta fondamentale che rimane ad oggi il momento più alto della nostra storia unitaria. Evitando al nostro Paese lo stesso destino del Giappone, a cui gli americani hanno imposto la carta costituzionale, o del caso tedesco, dove si è assistito alla fine della sovranità nazionale e dell’unità del Paese.

I valori di base dell’antifascismo e dell’impegno a battersi per la libertà della propria patria, umiliata e ferita, permisero così al movimento resistenziale non soltanto di svolgere una funzione difensiva e di supporto dell’azione militare degli Alleati, ma anche propulsiva per costruire un nuovo Stato, darsi rinnovate istituzioni democratiche e forgiare, nella durezza del combattimento, ma con doti di saggezza e di mediazione, una nuova classe dirigente.

3) Il terzo aspetto: Il rapporto tra Resistenza e Costituzione

Ho voluto più volte segnalare lo stretto rapporto che è esistito tra Resistenza e Costituzione anche perché, in un Rapporto di ricerca su “Fascismo, Resistenza, Costituzione”, promosso dall’assessorato alla Cultura e Istruzione della Provincia di Alessandria e dall’ISRAL nel 1995, attraverso un dettagliato questionario curato dal professor Giuseppe Rinaldi che ha coinvolto 1161 giovani studenti delle diverse scuole, medie e superiori, il dato che più mi ha sorpreso tra quelli raccolti ed esaminati è che solo il 38,5% dei ragazzi era stato in grado di collegare la Resistenza con la Costituzione della Repubblica. Il rapporto completo, rielaborato da Rinaldi nel 2015, lo potete trovare sul sito dell’associazione “Città Futura”.

Vediamo adesso le date, tra loro molto ravvicinate, di quei passaggi fondamentali per la nostra democrazia:

– il 25 aprile 1945 con la fine della guerra e la Liberazione dal nazi-fascismo si completa il passaggio, iniziato il 25 luglio ’43 con l’arresto di Mussolini, dal fascismo alla democrazia;

– il 2-3 giugno 1946 con il referendum istituzionale l’Italia, a maggioranza, sceglie la Repubblica e abbandona la monarchia. Per la prima volta nella storia le donne votano e, al pari degli uomini, eleggono l’Assemblea Costituente;

– il 22 dicembre 1947 l’Assemblea Costituente approva la Costituzione che entra in vigore il primo gennaio 1948, e, il prossimo gennaio, compirà 75 anni.

A questo punto, care ragazze e cari ragazzi,

Chi oggi, anche cariche di rilievo, sia del Governo che delle Istituzioni, per ragioni di reticenza o, peggio, per un intento revisionista volesse considerare e definire la nostra Costituzione, scaturita in quel contesto e in quelle condizioni, come a-fascista (non fascista), e non antifascista, e intendesse, come si intende, chiamare la festa del 25 aprile genericamente come della libertà e non della Liberazione dal nazi-fascismo, commetterebbe non solo un falso storico, ma una offesa e una mancanza di rispetto a quelle decine di migliaia di italiani, moltissimi i giovani, che la Resistenza hanno fatto, rischiando la vita, e a quelle centinaia di migliaia di operai, molti di loro anch’essi giovani, che hanno scioperato contro la guerra, la dittatura e i nazisti, rischiando la deportazione.

Ecco il perché dell’importanza della memoria e la necessità, ancora oggi, di stringersi attorno alla nostra Costituzione perché, come ha ricordato di recente il presidente Mattarella,l’antifascismo è la nostra costituzione”, il prodotto della Resistenza e della volontà antifascista dei padri costituenti.

4) Le preoccupazioni per la Costituzione

Abbiamo ricordato che la Costituzione italiana raggiungerà, nel nuovo anno, i 75 anni dalla sua proclamazione. A tale proposito l’Anpi condivide le forti preoccupazioni sul futuro della Carta espresse dal Professor Gustavo Zagrebelsky nel suo ultimo volume: “Tempi difficili per la Costituzione”.

Preoccupano soprattutto i disegni di modifica in atto o preannunciati dal Governo, tentativi più o meno scoperti di rivedere l’intero impianto costituzionale. In primo luogo il disegno della cosiddetta autonomia differenziata rivendicata da alcune Regioni del nord, le più ricche, che rischia di dividere ulteriormente il Paese e penalizzare dal punto di vista economico e sociale il mezzogiorno. E i pericoli insiti nella proposta del presidenzialismo, con l’elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica, voluta dall’attuale presidente del Consiglio. Proposta che, da subito, mette in discussione l’istituzione che in questi ultimi decenni ha dimostrato di meglio funzionare, quella del Presidente della Repubblica, e prospetta la spaccatura del corpo elettorale in due fronti contrapposti: chi difende i valori costituzionali fondativi e sostiene le forme di una democrazia partecipativa e chi intende semplificare le forme di decisione dell’esecutivo affidandosi al mito dell’uomo (o della donna) forte e solo al comando, mentre il popolo obbedisce.

Un’esperienza tragica, questa seconda, che il nostro Paese ha già vissuto e sarebbe bene non ripetesse.

5) In ogni caso, care ragazzi e cari ragazzi,

quando si parla di Costituzione sarebbe bene evitare sempre la retorica, non fermarsi all’elencazione degli articoli e alla declamazione dei principi, ma analizzare lo stato della loro reale applicazione, ragionare sulle cause degli eventuali impedimenti e dei ritardi e mettere in conto l’obiettivo di un maggiore e personale impegno. Anche perché la situazione non risulta particolarmente confortante.

Dopo gli anni ’60 e ’70 che avevano visto – anche per la mobilitazione di studenti e lavoratori – la realizzazione di significative riforme situate all’interno di un sistema di welfare inclusivo e universalistico, capaci di affermare e coniugare i diritti civili e politici con i diritti sociali, contribuendo alla forte riduzione delle diseguaglianze, gli ultimi trent’anni, con il prevalere delle politiche neoliberiste, con al centro il dogma del mercato “capace di autoregolarsi” e i processi di globalizzazione, hanno visto, da noi come nel resto di Europa, mettere progressivamente in discussione e regredire i diritti e le componenti dello Stato sociale. Come conseguenza l’impalcatuta della Costituzione, favorevole alla solidarietà, all’eguaglianza, all’emancipazione dei lavoratori e al valore del lavoro, ne è risultata scossa e lesionata.

Una condizione i cui riflessi riscontriamo tutti i giorni e che penalizzano, soprattutto, i giovani e, in generale, donne.

Facciamo qualche esempio:

a) Il lavoro, quello su cui è fondata la Costituzione (art. 1 e 4) è stato reso precario, provvisorio, privato dei diritti e delle protezioni, mentre le retribuzioni, scandalosamente insufficienti, stanno rendendo poveri anche una parte non secondaria di lavoratori (art. 36) E il 77% dei contratti a termine e precari riguarda i giovani, mentre nell’area OCSE è solo il 20%. Nelle maggiori città, poi, il problema della casa, gli sfratti, l’esosità degli affitti che, come hanno messo in luce le recenti proteste degli studenti, stanno precludendo l’università a troppi ragazzi (art.34).

b) Il sistema sanitario pubblico, quello universalistico della riforma del 1978, si è rivelato impreparato e fragile nella pandemia e carente nelle strutture. Se i tagli delle risorse dovessero continuare la prospettiva certa è di una sanità pubblica dequalificata per chi non ha altre possibilità e una privata per i ricchi (art. 32). Il tutto mentre cresce la concentrazione della ricchezza e aumentano le persone povere e in difficoltà, segno di una società ingiusta e diseguale.

Un presente e un futuro carico di problemi per le nuove generazione, non a caso le più sensibili e attente all’ambiente e ai cambiamenti climatici in atto che rischiano, tra troppe interessate resistenze, di far scivolare il mondo verso la catastrofe ecologica, e alle quali nel nostro Paese toccherà un compito importante: quello di salvare i valori della Resistenza e della democrazia. Superando le vuote discussioni e sapendo anche ribellarsi e dire dei no ai dogmi del modello competitivo che oggi viene loro imposto, indignandosi di fronte alla violazione e alla messa in discussione dei diritti e delle libertà che la Costituzione con puntualità prevede.

Un altro buon modo per trasformare la liturgia in qualcosa di meno retorico può anche essere quello di conoscere meglio la nostra associazione, l’Anpi, di parteciparvi e, magari, iscriversi. Quest’anno la festa nazionale dell’Anpi si svolge a Bologna, dall’1 al 5 di giugno e la giornata del 5 sarà interamente

6) Care ragazze e cari ragazzi, non voglio dispensare consigli,

Ma una cosa che a me è risultata utile per discernere tra fascismo, antifascismo, resistenza e Costituzione è stata sicuramente la lettura, I testi sono molti e certo arricchiscono la materia ma, devo dirvi che quelli che sono risultati per me decisivi nel comprendere cosa era successo e farmene una ragione definitiva sono stati quelli fondamentali. In particolare le prime testimonianze di Primo Levi e Leonardo De Benedetti e il loro rapporto sul campo di Auschwitz, “Così fu Auschwitz” presentato al governo dell’Unione Sovietica su richiesta del comando russo che aveva liberato il campo, tra il ‘45 e il ‘46. E, sempre di Primo Levi, l’indispensabile “Se questo è un uomo”. A questi due mi sento di aggiungere un testo molto più recente, ma di grande importanza: il memoriale della Resistenza italiana “Noi Partigiani” curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi con oltre 400 interviste filmate di partigiani.

E, da ultimo, vi consegno una personale esperienza che in un momento difficile a me è risultata utile e siccome problemi, difficoltà, ostacoli, momenti di crisi nel nostro vivere convulso non mancano ecco, se vi capita, in quei momenti, salite, come mi è capitato di fare, a Capanne di Marcarolo, andate in un pellegrinaggio laico alla Benedicta.

Ma non fatelo nei giorni ufficiali delle manifestazioni, c’è troppo confusione. Scegliete una bella giornata, in primavera, in autunno, andateci con un amico, con il ragazzo, la ragazza e anche da soli.

Fermatevi tra i ruderi del monastero che i nazisti, per dispregio, hanno distrutto. E scendete a piedi verso i cippi che ricordano i caduti, nella conca dove sono stati fucilati 147 partigiani e leggete sul marmo dei monumenti i nomi di quei tanti incolpevoli ragazzi che non volevano andare in guerra, ma vivere lo loro vita.

Sarà un modo per riconoscere il loro sacrificio che ha permesso a noi, ai vostri genitori e nonni quasi 80 anni di democrazia e pace. Valori che, come questo momento dimostra, non sono conquistati per sempre, ma vanno continuamente difesi.

Un modo semplice per dire loro grazie.

A me è servito… salite anche voi, alla Benedicta.

Alessandria, 20 maggio 2023

Comunità San Benedetto al Porto, Via Verona 116

  1. Davide Tabor: Giovani partigiani e legami intergenerazionali. QSC, Isral n.53, 2013 – Edizioni Falsopiano
  2. Miguel Gotor: Il valore morale della Resistenza Italiana. Articolo 33, 24 aprile 2022
  3. E. Montali, M. Gambilonghi: Gli scioperi del ‘43/’44 La resistenza operaia e la Costituzione fondata sul lavoro. Roma, Fondazione Di Vittorio, marzo 2023. Si potrebbe dire che le preoccupazioni di Churchill hanno anticipato il rapporto della Commissione Trilaterale del 1975 e quello, meno raffinato, della banca d’affari JP Morgan, entrambi critici nei confronti della Costituzione antifascista del nostro Paese.

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150 ore, allo studio e alla lotta

150 ore, allo studio e alla lotta

di Ilaria Romeo – 20 aprile 2023

Una trattativa durata sei mesi

Il 19 aprile del 1973, dopo una trattativa durata sei mesi, viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici che, tra le altre e importanti cose (inquadramento unico, orario, ferie, apprendistato, diritto allo studio per i lavoratori studenti), riconosce il diritto alla fruizione di un massimo di 150 ore di permessi retribuiti, con il fine di favorire la crescita culturale dei lavoratori, una loro migliore partecipazione alla vita sociale e, per chi ne fosse sprovvisto, il conseguimento del titolo di studio di scuola media inferiore (l’utilizzo del monte ore totale può essere scaglionato su più anni – di norma tre – ma anche concentrato in un anno). Per avervi diritto ciascun operaio deve completare le ore conquistate sul lavoro con almeno altrettante prese sul suo tempo libero portando il monte ore dedicate allo studio a un minimo di 300.

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1973: La F.L.M. e il Contratto delle “150 Ore”

1973: La F.L.M. e il Contratto delle “150 Ore” – di Renzo Penna, 29 marzo 2023

Dimensioni: 13,9 cm x 10,0 cm

Martedì 3 aprile 1973, mezzo secolo fa, il quotidiano “La Stampa” dedica le prime due pagine, pressoché interamente, ai contenuti dell’accordo per il Contratto dei lavoratori metalmeccanici privati, siglato nella notte presso il ministero del Lavoro, “al termine di una maratona durata quasi ininterrottamente più di sessanta ore”.[1] L’intesa, favorita dalla mediazione del ministro del Lavoro Coppo, interessa un milione e 300 mila lavoratori e 8.000 aziende. Poche settimane prima, il 16 marzo, una bozza di accordo era stata raggiunta con l’Intersind-Asap per i 300 mila dipendenti delle aziende a partecipazione statale. Bozza esaminata e approvata dall’assemblea dei delegati di fabbrica F.L.M. riunita a Firenze il 17 e 18 marzo. Sempre sulla prima pagina del giornale di Torino e della Fiat, quasi a giustificare lo spazio dato alla notizia, un articolo di Mario Salvatorelli informa che l’industria metalmeccanica ha un fatturato pari al 33% di quello complessivo delle industrie manifatturiere e contribuisce, da sola, con il 46 per cento “a tutte le nostre esportazioni”.[2] Mentre, in generale, l’industria rappresenta il 40 per cento del reddito nazionale e occupa il 43 per cento della popolazione attiva (8 milioni e 36 mila unità su un totale di 18 milioni e 331 mila).

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Associazione LABOUR R. Lombardi – "Per una società di liberi e eguali"