Salario minimo e lavoro povero

Di Leonello Tronti – 27 novembre 2023 (eguaglianzaeliberta.it)

Dal 2011 la perdita di potere d’acquisto per l’insieme delle retribuzioni è stata dell’8,3%, caso unico nell’eurozona. Tra il 2005 e il 2021 i lavoratori poveri sono cresciuti dall’8,7 all’11,6% degli occupati, mentre le famiglie in povertà assoluta sono passate dal 3,3 al 9,4% della popolazione; quasi 5 milioni sono i lavoratori a termine o in part-time involontario. Nel frattempo l’andamento dell’economia non è affatto migliorato. Le mobilitazioni sindacali di questi giorni hanno ragioni da vendere ed è bene che la politica se ne renda finalmente conto.

Perché tante imprese, il governo e il Cnel sono contrari all’introduzione in Italia di un salario minimo? Davvero non c’è in Italia un problema di bassi salari? E davvero la remunerazione dei lavoratori non ha nulla a che fare con la crescita asfittica dell’economia?

Per tentare una risposta conviene partire dai numeri. Secondo l’audizione al Parlamento dell’Istat sul salario minimo (12 luglio 2023), che utilizza dati del 2019 ancora privi degli effetti della pandemia, i lavoratori dipendenti del settore privato extra agricolo che avevano lavorato almeno un’ora nel corso dell’anno, erano 15,3 milioni, per un totale di 19,7 milioni di rapporti di lavoro (un lavoratore può avere infatti più rapporti, in contemporanea o in sequenza). I rapporti con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi erano quasi un quinto (il 18,2%, circa 3,6 milioni), coinvolgevano circa 3 milioni di lavoratori e si concentravano tra gli apprendisti (53,4%) e gli operai (23,3%), nei settori delle altre attività di servizi (59,6%), nel noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (32,9%), nelle attività artistiche, sportive di intrattenimento e divertimento (28%), nei servizi di alloggio e ristorazione (23,2%). Una presenza di rapporti a bassa retribuzione più elevata della media si osservava tra le donne (20,7%), i giovani sotto i 30 anni (29,2%) e coloro che lavorano al Sud (28,5%) o nelle Isole (22,7%).

L’Istat ha quindi offerto al Parlamento una stima dell’effetto dell’innalzamento della retribuzione oraria minima moltiplicando il valore soglia (9 euro) per il numero di ore retribuite per ciascuno dei 3,6 milioni di rapporti di lavoro povero del 2019 e calcolando la differenza rispetto alle retribuzioni effettivamente percepite.

Va poi notato che oltre alle ore effettivamente lavorate, sia ordinarie sia straordinarie, le ore retribuite comprendono anche le ore non lavorate ma retribuite dal datore di lavoro (ferie annuali, giorni festivi, malattia a carico del datore, ecc.). L’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro comporterebbe dunque un incremento della retribuzione annuale per 3,6 milioni di rapporti (se si escludono quelli di apprendistato si scende a poco più di 3,1 milioni, dei quali 2,8 milioni con qualifica operaio). L’incremento medio annuale sarebbe pari a circa 804 euro pro-rapporto, con un incremento complessivo del monte salari stimato in oltre 2,8 miliardi di euro. L’adeguamento alla soglia di 9 euro determinerebbe un incremento della retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 14,6% per quelli interessati dall’intervento.

Gli incrementi percentuali più significativi si avrebbero nei settori delle altre attività di servizi (+8,9% sul totale e +20,2% tra gli interessati) e nelle attività di noleggio, agenzie viaggio, servizi di supporto alle imprese (+2,8% e +14,3%); per gli apprendisti (+8% e +21,8%), i giovani sotto i 30 anni (+3% e +18%), i lavoratori nel Sud (+2% e +16,7%) e nelle Isole (+1,5% e +15,1%).

Lo spostamento di 2,8 miliardi dai profitti ai salari inciderebbe in misura impercettibile sull’aggregato dei primi ma si trasferirebbe per intero ai consumi delle famiglie e, quindi, in misura modesta alle importazioni, con il risultato di sostenere, oltre alla qualità della vita delle famiglie di più di tre milioni di lavoratori, la domanda interna netta e le imprese che operano nel mercato dei beni al consumo.

La risposta che ha dato il CNEL, sollecitato dalla Presidente del Consiglio, alla raccolta di firme per una legge che introduca in Italia un salario minimo di 9 euro l’ora, avviata dai maggiori partiti di opposizione, è stata, come previsto, negativa, ma non per questo meno sbagliata. Vediamo perché.

È indubbiamente più che comprensibile insistere sulla necessità di rafforzare la contrattazione collettiva perché è innegabile che in Italia il sistema delle relazioni industriali viva da tempo una fase di evidente indebolimento, a cui il Paese deve porre rimedio con urgenza. Il sintomo più doloroso ne è la crescita della povertà.

I dati Istat sull’andamento del potere d’acquisto della retribuzione lorda media mostrano che, dopo la caduta di 6,5 punti percentuali nel triennio 2011-2013 (crisi del debito sovrano), si è verificata una parziale ripresa di 1,8 punti nel quinquennio 2014-2019, a cui sono seguiti un’ulteriore caduta di quasi 4 punti nel 2020 (pandemia), un rimbalzo di 3,4 punti nel 2021 e poi, nel 2022, gli effetti della guerra in Ucraina (-3,1 punti). Nel complesso, la perdita di potere d’acquisto dei salari è tanto consistente (-8,3 per cento) quanto unica nell’Eurozona, e offre un primo inquadramento all’aumento della povertà. I lavoratori poveri tra il 2005 e il 2021 sono cresciuti, secondo Eurostat, dall’8,7 all’11,6% degli occupati, mentre, secondo l’Istat, le persone appartenenti a famiglie in condizione di povertà assoluta sono cresciute dal 3,3 al 9,4% della popolazione.

L’andamento della retribuzione media reale costituisce un elemento informativo fondamentale, ma tuttavia solo di prima approssimazione, perché sin dal 2000 le ore lavorate registrano in Italia una caduta continua e pressoché indipendente dal ciclo economico, il cui effetto sul reddito dei lavoratori si somma a quello della riduzione della retribuzione reale. Tra il 2000 e il 2022, le ore lavorate in un anno da un dipendente hanno registrato in media un calo del 7,9%, equivalente ad un taglio di 133 ore l’anno. In altri termini, la perdita di potere d’acquisto della retribuzione media è dovuta per meno di un terzo (30,3%) alla riduzione della retribuzione reale per ora lavorata, mentre per due terzi è causata dalla caduta delle ore lavorate. E quest’ultima non è tanto dovuta ad una riduzione degli orari di lavoro a tempo pieno fissati dalla contrattazione collettiva (cresciuti invece complessivamente di circa 30 ore l’anno), quanto alla progressiva diffusione dei rapporti di lavoro flessibili, saltuari o precari, introdotti nell’ordinamento italiano dalle numerose riforme susseguitesi da ormai più di un quarto di secolo, in parallelo con lo spostamento della struttura produttiva verso le piccole e le microimprese. Forse la struttura dei rapporti di lavoro si è fatta più flessibile ed “economicamente conveniente”, ma non per questo l’economia ha mostrato una maggiore capacità di sviluppo.

A questo proposito, senza addentrarci negli effetti su salari, orari, diseguaglianze, accumulazione del capitale umano, volatilità dell’occupazione e povertà legati alle numerose e svariate forme di lavoro flessibile, saltuario e precario, ci si può limitare a notare che l’Istat segnala che quasi 5 milioni di occupati (il 21% del totale) sono lavoratori vulnerabili: dipendenti a termine o in part-time involontario; e, tra questi, 802 mila sono quelli doppiamente vulnerabili, rispetto tanto alla durata dell’impiego quanto all’intensità di lavoro.

Oltre alla crescita dei rapporti di lavoro vulnerabili, va poi segnalato che nel corso del tempo il modello con cui il 23 luglio 1993 Carlo Azeglio Ciampi, in accordo con i principali attori delle relazioni industriali, aveva stabilito le regole della contrattazione collettiva in vista dell’entrata dell’Italia nell’Eurozona, è stato col tempo gravemente menomato a evidente sfavore della crescita salariale. Tralasciando altri aspetti pur rilevanti, lo sviluppo dei minimi fissati dalla contrattazione nazionale (primo livello), che avrebbe dovuto muoversi con l’inflazione programmata congiuntamente da governo, imprese e sindacati, nel 2009 è stato affidato ad una semplice previsione tecnica (attualmente effettuata dall’Istat) e depurato dall’aumento dei beni energetici importati, di grande rilievo nell’ultimo biennio; mentre la diffusione del salario di risultato (secondo livello), deputato alla crescita del potere d’acquisto e delegato alla contrattazione aziendale o territoriale, è rimasta confinata ad una platea di lavoratori significativamente inferiore al 30 per cento del totale. In altre parole, se certamente più del 70 per cento dei lavoratori dipendenti è privo dagli anni ’90 del secolo scorso della possibilità di incrementare il potere d’acquisto del proprio salario attraverso la contrattazione collettiva, dal 2009 anche la stessa tenuta nel tempo del potere d’acquisto delle retribuzioni fissate a livello centrale dai contratti nazionali è messa in dubbio dal fatto che l’indice dei prezzi al consumo di riferimento (l’Ipca, o indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo) è depurato dall’andamento del prezzo dei beni energetici importati.

Ora, in una situazione di alta inflazione dovuta in misura prevalente proprio agli aumenti di prezzo dei beni energetici importati (petrolio e gas naturale), gli effetti della depurazione sono vistosi e spingono l’urto dell’inflazione a colpire pesantemente i redditi da lavoro. Volendo esemplificare, se nel 2021 l’indice Ipca totale è aumentato dell’1,9% e quello dell’insieme dei beni energetici è cresciuto del 14,3% (sette volte e mezzo l’indice complessivo), il valore dell’indice depurato dall’Istat è stato pari allo 0,8%, con una perdita di 1,1 punti percentuali dell’adeguamento del potere d’acquisto delle retribuzioni di base. La depurazione, pertanto, ha più che dimezzato il valore dell’indice che avrebbe dovuto salvaguardare dall’inflazione le retribuzioni pattuite dai contratti nazionali. E ancor più nel 2022, se l’Ipca totale è cresciuto dell’8,7%, il prezzo dei beni energetici è volato al 51,3%, così che la previsione Istat dell’indice di rivalutazione per lo scorso anno (4,7%) prospetta un mancato recupero di potere d’acquisto delle retribuzioni di primo livello di ben 4 punti percentuali, che vanno a sommarsi alla perdita del 2021 scaricando sui salari e sul potere d’acquisto delle famiglie il peso dell’inflazione.

Peraltro, l’inflazione colpisce in misura anche più violenta i disoccupati, i «semioccupati» (che non riescono a lavorare nemmeno sette mesi l’anno), i part-time involontari e i lavoratori (dal 2019 più della metà dei dipendenti) che non riescono a rinnovare i contratti scaduti. Questi, in crescita sin dalla crisi finanziaria del 2008, da anni oscillano al di sopra del 50%, con punte dell’80% e una durata dell’attesa del rinnovo in aumento da uno a tre anni. Di conseguenza, le famiglie in povertà assoluta, che nel 2005 erano il 3,6% del totale, nel 2021 erano più che raddoppiate (7,5%), mentre gli individui in povertà assoluta, che nel 2006 erano il 2,9% del totale, nonostante il reddito di cittadinanza nel 2021 erano più che triplicati (9,4%). In questa situazione, i dati del 2022 non potranno che mostrare un ulteriore, pesante peggioramento delle troppe persone in condizioni di disagio economico e sociale. Va peraltro notato che l’aumento della povertà non è causato da una condizione di recessione dell’economia, che tra il 2009 e il 2019 ha continuato a crescere, seppure a un ritmo modestissimo e nettamente inferiore a quello degli altri Paesi euro; ma trova origine in un aumento della disuguaglianza economica e in una distribuzione della ricchezza più sfavorevole nei confronti del lavoro e dei ceti più svantaggiati alimentati dal malfunzionamento della contrattazione collettiva.

Nell’insieme, dunque, non può stupire che, anche senza tener conto del blocco dei rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici dal 2010 al 2017, per più del 70% dei lavoratori italiani (e di conseguenza per la loro media) il potere d’acquisto delle retribuzioni si sia dimostrato dal 1993 ad oggi “rigido verso l’alto” ben più che “verso il basso”. Peraltro, nella moltitudine del lavoro povero, ai lavoratori privi di contrattazione di risultato vanno sommati: quelli con contratto nazionale scaduto (ad agosto 2023, il 54 per cento, con un’attesa media di 2 anni e 4 mesi, ma dal 2015, in media il 53 per cento, con un’attesa di 3 anni); i lavoratori del sommerso (secondo la stima Istat del 2021, 2,1 milioni di dipendenti, pari al 10,4% del totale); la schiera dei dipendenti caratterizzati da rapporti di lavoro flessibile e precario, quasi sempre esclusi dalla contrattazione decentrata anche quando presente e, in taluni casi (contratti a chiamata, voucher ecc.), anche da quella nazionale; nonché i lavoratori con contratti di prossimità ex art. 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148; e, ovviamente, i dipendenti coperti da contratti nazionali di lavoro ‘pirata’, ispirati all’obiettivo del dumping salariale e, pertanto, con salari di primo livello inferiori a quelli degli accordi più rappresentativi.

Di fronte a questa situazione, non è difficile capire come la cittadella dei lavoratori che operano in imprese medio-grandi, tutelati da contratti nazionali firmati da associazioni sindacali e datoriali rappresentative, e da contratti aziendali o territoriali capaci di accrescerne il potere d’acquisto, non possa che ospitare una ristretta minoranza del lavoro italiano, per la quale una stima del 30 per cento è quanto meno molto generosa.

Prima ancora di chiedersi se una coartazione della contrattazione salariale di questa profondità sia compatibile con la Costituzione – in particolare con gli articoli 39 (efficacia erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative), 36 (giusto salario) e 46 (collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese), illuminati dal secondo comma dell’articolo 3 (rimozione degli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) – varrebbe forse la pena di chiarire che essa è profondamente dannosa, non solo per la tenuta sociale del Paese, ma per la stessa buona salute dell’economia. Secondo le statistiche dell’ONU, l’Italia ha raggiunto una quota del monte delle retribuzioni sul Pil pari al 56,5 per cento, contro il 60,9 per cento della Spagna, il 61,3 della Francia, il 63,4 della Germania. Se il reddito fosse distribuito tra le imprese e i lavoratori in modo più equo, in accordo con un modello di sviluppo fondato in misura ben maggiore sui salari e sulla crescita della domanda interna al netto delle importazioni, anziché su un avanzo commerciale affidato a salari reali calanti e a rapporti di lavoro senza futuro, l’economia crescerebbe senz’altro di più.

L’illusione che la compressione dei salari a favore dei profitti sostenga la crescita dell’economia si scontra frontalmente con l’evidenza dell’abnorme ritardo che l’Italia ha accumulato nei confronti della media dell’Eurozona. Tra il 1995 e il 2021, l’Italia è complessivamente cresciuta 29,2 punti percentuali meno della media dei paesi dell’euro, di cui è peraltro il terzo per dimensione economica. In altri termini, per ben 26 anni è stata prigioniera di una sorta di oscura condanna a crescere ogni anno un punto percentuale meno dell’Eurozona, incatenata a quella che si può chiamare “la legge del meno uno”! Per liberarsene, l’economia ha urgente bisogno di un mercato interno vivace, di consumi crescenti, tali da consentire alle imprese che vi operano di prosperare.

Ciò detto, è comunque evidente che una norma sul salario minimo è indispensabile ma non basta a risolverla. E tuttavia all’opposto, credere, come sottolinea la risoluzione del CNEL, che le parti sociali siano in grado di risolvere il multiforme problema del lavoro povero, senza la concreta sollecitazione di un’innovazione politica forte quale quella proveniente da una norma che fissi il limite al disotto del quale la remunerazione del lavoro è anticostituzionale, è pia illusione o, peggio, provocazione politica: contro la maggioranza dei lavoratori rappresentati dal sindacato confederale e contro la crescente platea del lavoro povero. Il mercato del lavoro italiano ha bisogno di operare all’interno di un quadro valoriale e comportamentale, prima ancora che normativo, di attuazione dei principi costituzionali, al cui interno non c’è alcuna contraddizione tra capisaldi quali la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, il giusto salario o la validità erga omnes dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni più rappresentative.

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