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Brancaccio: “Il vero volto del capitalismo”
Recensione di Daniele Nalbone del libro di Emiliano Brancaccio “Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” – Piemme, 2022
Con il suo ultimo libro, “Democrazia sotto assedio”, attraverso 50 brevi lezioni di politica economica, Emiliano Brancaccio mostra il vero volto del capitalismo di oggi, destinato a sopprimere la democrazia perché somiglia sempre più al vecchio feudalesimo
“La spaventosa concentrazione del potere economico nelle mani di una ristretta oligarchia plasma a suo immagine l’intero sistema dei rapporti in cui viviamo”. Questa frase, contenuta nell’introduzione e ripetuta – in diverse forme, come base o risultato di diverse analisi – un po’ in tutto il libro, è il cuore dell’ultimo lavoro dell’economista Emiliano Brancaccio, Una piccola enciclopedia della politica economica di oggi sotto forma di “50 brevi lezioni” che gettano luce sulle tendenze di fondo dell’epoca che stiamo vivendo, e subendo.
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Daniela Palma: “La Ricerca dimenticata”
di Daniela Palma: “La lunga crisi dell’economia italiana e la Ricerca dimenticata”
Tutt’altro che nuova alle attenzioni degli osservatori esteri, l’Italia è tornata recentemente a suscitare interesse per la sua positiva capacità di reazione alla crisi pandemica. Impossibile non ricordare gli elogi dispensati sul finire del 2021 dal settimanale “The Economist”, che l’ha consacrata “Paese dell’anno” non solo in ragione dei maggiori miglioramenti conseguiti in termini di qualità del governo e di gestione della pandemia, ma anche per aver dato prova di un più rapido avvio di ripresa del Pil. Con l’avvento del nuovo anno, tuttavia, un’analisi del quadro economico dei 23 paesi più “ricchi” dell’area Ocse da parte del medesimo settimanale, comprendente oltre al Pil anche altri indicatori significativi sullo stato di salute dell’economia, ha mostrato come in realtà il nostro paese sia ancora ben lontano dal poter cantare vittoria. L’Economist sottolinea come la pandemia “abbia creato vincitori e vinti” e l’Italia ricada tra i “worst performers”, avendo recuperato solo parzialmente le perdite subite sul fronte del reddito (complessivo e riferito alle famiglie), in un contesto nel quale il tasso di disoccupazione è molto più alto della media Ocse (9,2% contro 5,7%). Rispetto ai “blocchi di partenza” dell’inizio pandemia il Pil italiano – prosegue l’Economist – registra uno scostamento del -1,3%, contro i più ridotti scarti di Germania e Francia (rispettivamente -1,1% e -0,1%); differenze per la verità non preoccupanti se non fosse che il dato di confronto del 2019 corrisponde per l’Italia a un valore del 4% inferiore al livello del Pil precedente l’arrivo della crisi finanziaria internazionale del 2008.
Aldilà di qualunque valutazione più o meno benevola, è dunque un fatto che l’economia italiana non ha ancora saldato i suoi conti con il passato. All’arrivo della crisi Covid l’Italia è l’unico paese dell’Eurozona (ad eccezione della Grecia) a non aver risalito completamente la china della trascorsa recessione. E andando a ritroso appare chiaramente come le sue difficoltà di crescita vengano da molto più lontano. Nel 2005 lo stesso Economist l’aveva presentata come “The real sick man of Europe” (Il vero malato d’Europa), zoppicante e ormai avviata sul sentiero del tramonto. Un’uscita che non doveva suonare inaspettata, visto che proprio allora iniziava ad animarsi fra gli economisti il dibattito sul “declino” del paese; questione tanto più discussa dopo il 2008 quanto più risultava evidente che i contraccolpi della crisi erano stati tra i più duri e che il terreno perso veniva riguadagnato molto più lentamente. Quella dell’Italia appariva sempre più una “crisi nella crisi” della quale veniva colta la natura essenzialmente strutturale, collegata soprattutto al persistere di una debole capacità di innovazione del suo sistema produttivo a causa della scarsa presenza di imprese nei settori tecnologicamente più avanzati. Questi ultimi divenuti sempre più cruciali per lo sviluppo mondiale via via che il rapido incremento delle conoscenze scientifiche innovava radicalmente gli assetti della produzione industriale grazie a un’attività di ricerca sempre più sistematica e condotta su larga scala.
Ciò che però sembra aver per lo più improntato l’industrializzazione italiana è l’idea che fosse percorribile la via di uno “sviluppo senza ricerca”, che è finita con il diventare la “bussola” alla quale sono state affidate le sorti dell’economia del paese. Emblematico in tal senso è stato il frequente ricorso alla metafora del “volo del calabrone”, una leggenda rivenduta spesso come “verità scientifica”, secondo la quale il tozzo insetto riuscirebbe a volare sfidando le leggi della fisica. Esattamente come l’Italia che, priva di risorse naturali e relativamente povera di industrie avanzate, contro ogni aspettativa avrebbe tessuto una storia fitta di successi, divenendo una delle maggiori economie mondiali. Nella realtà, tuttavia, e senza nulla togliere alla forza di un’ascesa che dalla seconda metà del secolo scorso ha sostenuto il decollo economico del paese, i sintomi di una fragilità del percorso di sviluppo intrapreso si sono fatti sempre più numerosi e frequenti. I limiti erano quelli di un’economia che, completata la prima fase della modernizzazione in coda ai paesi più industrializzati, non poteva sfruttare oltre la spinta propulsiva tipica del “paese inseguitore”, importando o adattando secondo modalità più o meno creative le tecnologie prodotte altrove e frutto di una continua e crescente attività di ricerca scientifica.
Non importa pertanto rilevare “solo” quanto a investimenti in ricerca (fermi ad appena 1,5% del Pil) e relativamente alla capacità di presidiare i mercati dei beni ad elevato contenuto tecnologico l’Italia si trovi oggi a gravitare verso la periferia dei maggiori paesi industrializzati e con ormai l’incombente presenza di quelli “di nuova generazione” (Cina in testa) che pure stanno divenendo protagonisti nello sviluppo di nuove tecnologie. E’ importante piuttosto capire fino in fondo cosa sia “andato storto”, capire come mai il divario tecnologico con il resto del mondo sviluppato non solo non si sia ridotto, ma abbia seguitato ad ampliarsi. E su questo versante è importante cogliere i tratti fondamentali della dinamica storica che ha caratterizzato la spesa in ricerca in rapporto al processo di industrializzazione. Così facendo, si osserva infatti che il paese non aveva fin dal principio rinunciato a progettare un “salto di qualità” del suo sviluppo, ma si trovava impegnato a promuovere un forte aumento dell’investimento in ricerca con grande attenzione per quella di base (indispensabile ad alimentare la produzione di nuove conoscenze), prefigurando un’espansione dell’industria nei settori chiave delle tecnologie di frontiera. Ma, già dalla prima metà degli anni Sessanta, il fallimento di un’illuminata “programmazione economica”, che sarebbe dovuta diventare fulcro di politiche di intervento volte ad incidere sulla struttura del sistema produttivo, lasciava che emergessero i primi deragliamenti di una “corsa al benessere” prorompente e che necessitava al più presto di un altro registro. Aumenti dei salari che superavano quelli della produttività, generavano incrementi significativi dei costi unitari del lavoro e comprimevano i profitti, con effetti negativi sugli investimenti. In assenza di miglioramenti della produttività derivanti dallo sviluppo di settori avanzati, la via breve alla competitività non poteva che essere quella di calmierare le retribuzioni, riorganizzando l’occupazione anche attraverso operazioni di decentramento produttivo e di precarizzazione della forza lavoro e, non ultimo, facendo ricorso alla svalutazione del cambio. Un meccanismo in seguito solo parzialmente corretto mettendo in campo una capacità di innovazione del tutto inedita che faceva perno sulle conoscenze “non formalizzate” di “distretti industriali” incardinati in un fitto tessuto territoriale di piccole-medie imprese, e destinati a trainare per molto tempo il comparto manifatturiero, ma che sempre meno sarebbero stati attrezzati a fronteggiare gli esiti degli ulteriori avanzamenti tecnologici connessi alla rivoluzione dell’elettronica e dell’informatica.
L’Italia che si affaccia agli anni Novanta, che si confronta con uno scenario di piena globalizzazione produttiva attraversato dai veloci ritmi del cambiamento tecnologico, e con mercati nei quali cresce vertiginosamente il peso delle produzioni high-tech, da più di un ventennio ha già di fatto realizzato una sorta di “fuga dalla ricerca”, segnata da un sempre minor protagonismo delle imprese (operanti in prevalenza in settori tradizionali) e da una ritirata del settore pubblico che si è tradotta anche in minori finanziamenti per la ricerca di base. Nel frattempo il Pil cresceva già a tassi inferiori a quelli dei principali paesi industriali, collocandosi su una traiettoria declinante. La crisi valutaria subentrata nel 1992 e la necessità di ristrutturare le finanze pubbliche per predisporre il paese all’entrata nell’euro, completavano il quadro. Le spese in ricerca (tanto sul fronte delle imprese quanto su quello dello Stato) non sono esenti da ripercussioni e si contraggono drammaticamente, raggiungendo in quel decennio i loro minimi storici. Tale arretramento, di per sé negativo, risulta addirittura letale non appena se ne considerino gli effetti a lungo termine: una debole capacità del sistema industriale non solo di produrre innovazione, ma anche di utilizzarla, rendendo sempre meno rilevante la spesa pubblica in ricerca (che viene ulteriormente ridotta) e l’offerta di “capitale umano” altamente qualificato (che tende via via a diminuire o a infoltire le fila dei cosiddetti “cervelli in fuga”). Un circolo vizioso che ancora oggi sta pregiudicando la possibilità di dare il giusto impulso agli investimenti in ricerca (a cominciare da quelli pubblici) e alla nascita di filiere produttive a più elevata intensità tecnologica, facendo sì che il paese continui a giocare (infruttuosamente) la propria competitività sulla riduzione del costo del lavoro, con riflessi molto pesanti anche sulla la componente interna della domanda.
In una recente intervista, il Nobel per la fisica Giorgio Parisi ha sostenuto come il positivo apporto di finanziamenti provenienti dall’Europa attraverso il programma di rilancio post-Covid “Next Generation EU” debba essere certamente salutato con soddisfazione, ma debba soprattutto risuonare come stimolo affinché l’Italia torni realmente a destinare risorse più consistenti e stabili all’attività di ricerca, a cominciare da quella di base. Il richiamo di Parisi coglie effettivamente un punto nodale. La storia della “fuga dalla ricerca” dell’Italia è infatti una vicenda che si contraddistingue anche per l’ampia variabilità delle cifre destinate alla spesa in ricerca e per la residualità con cui spesso queste sono state contestualizzate nelle politiche di bilancio. Ciò significa che l’investimento in ricerca ha perso da tempo anche il suo valore strategico e che, nel momento in cui si riconosce la necessità di tornare a investire, è necessario farlo avendo presente che esso deve diventare un pilastro della politica economica, della quale una politica industriale finalizzata al potenziamento dei settori tecnologicamente avanzati – che nell’attività di ricerca hanno il loro fondamento – diventi parte integrante. Una prospettiva, questa, che troverebbe riscontro anche nell’ambito di un rinnovato contesto europeo nel quale si sta valutando la possibilità di valorizzare il ruolo di quegli investimenti pubblici giudicati più rilevanti per il loro impatto strutturale sullo sviluppo economico, con crescente considerazione per gli interventi orientati all’innovazione dei sistemi produttivi.
7 febbraio 2022
“Articolo 33”
Ferrari: “Innovazione tecnologica e Paolo Sylos Labini”
Quello che segue è il racconto di Sergio Ferrari sul suo rapporto con Paolo Sylos Labini e la discussione con lui avuta sull’innovazione tecnologica. L’intervento è stato pubblicato dall’Associazione dedicata a Sylos Labini (www.syloslabini.info) in occasione del centenario della nascita.
“Nel 1974 mi capitò, nel corso della mia attività all’ENEA, di essere incaricato di “mettere assieme” una serie di laboratori di natura scientifica completamente diversa – dalla chimica analitica, alla strumentazione elettronica, dai nuovi materiali al calcolo scientifico, alla robotica, ecc, ecc. Un totale di circa 800 persone, escluse quelle dedicate alla fusione nucleare, che inizialmente erano state inserite in quella operazione, ma che ben presto – e giustamente – vennero staccate e rese autonome. Non sto a spiegare le motivazioni di un tale provvedimento, certamente non da me auspicato. Fatto stà che sin dall’inizio la domanda su che cosa avrei dovuto fare mi si pose con grande evidenza ma anche senza un precedente o un qualche riferimento a cui ispirarmi.
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Paolo Leon: “i poteri ignoranti”
L’economista Paolo LEON oggi avrebbe compiuto 85 anni.
Socialista, estimatore di Riccardo Lombardi, collaboratore della CGIL, amico di Fausto Vigevani e dell’associazione “Labour”. La sua intelligenza e la sua autonomia sarebbero quanto mai necessari alla sinistra per affrontare gli attuali problemi economici e sociali dell’Italia e dell’Europa. Lo ricordiamo riportando le conclusioni del suo ultimo libro: “i poteri ignoranti”, Castelvecchi 2016: «Le ragioni economiche per le quali gli Stati e la politica non intervengono direttamente per aumentare la domanda effettiva dopo il crollo, la depressione e la deflazione, sono certamente di origine sociale e politica. Il meglio che si possa dire è che gli Stati non sono stupidi, ma sono ormai un potere ignorante che agisce sulla base della cultura di chi li governa, e questa è ormai resa ottusa dall’ideologia del libero mercato, che sostiene come qualsiasi intervento pubblico genera più costi che benefici – e questa convinzione accomuna gli imprenditori ai capitalisti, i sostenitori della “terza via” come i partiti conservatori e libertari. Allo stesso tempo, questa ideologia resiste agli urti della crisi, quando i costi superano largamente i benefici, perché la crescente concentrazione della ricchezza per i capitalisti e dei compensi per gli imprenditori giustifica continuamente il diritto dei pochi – e perciò il dovere alla povertà degli altri».
26 aprile 2020
L’appello di 103 economisti: “Ue e Bce, non è così che si supera la crisi”
La Banca centrale prima archivia Draghi, poi fa marcia indietro costretta dalla reazione dei mercati, ma intanto ha perso l’arma decisiva della credibilità. La Ue prende alcune misure ma non rinnega – anzi di fatto conferma – la logica economica che ci condanna a una crisi perenne. Cosa è necessario davvero. Da “MicroMega”.
Tra i firmatari: Daniela Palma, Leonello Tronti, Alessandro Roncaglia, Carlo Clericetti
“Neanche di fronte a un disastro l’attuale classe dirigente europea è disposta a prendere atto che le idee che hanno guidato finora la politica economica sono profondamente sbagliate. Questa classe dirigente pretende che tali idee interpretino il modo migliore di far funzionare i mercati, elevati a mitici giudici di ciò che è giusto e ciò che non lo è e di fatto sostituiti al processo democratico. Ma proprio la reazione dei mercati alle prime decisioni dei ministri finanziari e poi della Bce su come fronteggiare l’emergenza hanno sepolto sotto una valanga di vendite da panico la palese incomprensione della situazione da parte dei massimi dirigenti europei, costringendoli a frettolosi tentativi di riparazione.
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In memoria di Luciano Gallino: il finanzcapitalismo, l’euro e la moneta come bene pubblico
di Enrico Grazzini da “Micromega”, 8 novembre 2019
La quasi totalità degli intellettuali italiani ha sepolto nel silenzio la formidabile eredità scientifica, politica e morale di Luciano Gallino, scomparso l’otto novembre di quattro anni fa. Gallino è stato senza alcun dubbio lo scienziato sociale più profondo, coerente e critico della sinistra italiana: ma è rimasto inascoltato – anche presso la stessa sinistra politica (che non a caso in Italia è praticamente scomparsa) e sindacale (che non a caso è in gravissima e crescente difficoltà). Il problema è che i suoi messaggi, specialmente nell’ultimo periodo della sua vita, erano troppo intellettualmente e politicamente chiari e radicali per la cultura confusa, ambigua, sempre disponibile al compromesso che domina oggi in Italia in (quasi) tutti gli ambiti e in tutte le parti politiche. Le sue proposte sulla moneta, sull’euro, sull’eurozona e l’Unione Europea, sulle riforme monetarie e bancarie necessarie per uscire dalla crisi provocata dal finanzcapitalismo, erano e sono considerate troppo anticonvenzionali e innovative per essere accettate (o almeno discusse) dai timidi e paurosi intellettuali e politici italiani. Ho collaborato con lui e nell’ultimo periodo della sua vita: e posso dire che, nonostante la sua indiscussa autorevolezza, il maggiore studioso della sinistra era rimasto praticamente isolato.
Daniela Palma: “La Cina, il capitalismo di Stato e la crisi del Washington Consensus”
Di Daniela Palma (da Keynesblog) – “Chi avrebbe mai scommesso sulla capacità di tenuta delle ricette “neoliberiste” propugnate dal Washington Consensus a dieci anni dall’inizio della crisi economica più grave dopo quella del ’29, che tiene ancora nella morsa gran parte delle economie occidentali? Non molti, pensiamo, ma sta di fatto che la crisi è tuttora trattata come un accidente della storia e che se siamo ancora lontani dalla piena occupazione è perché – si dice – il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro da anni intrapreso non è del tutto sufficiente a consentire un adeguato libero gioco delle forze del mercato. E, stando sempre a questa narrazione, con l’emersione dei paesi di nuova industrializzazione e la pressione concorrenziale esercitata dai loro molto più bassi livelli salariali, sarebbero necessari interventi di liberalizzazione persino più incisivi. Ma questa narrazione è destinata ad essere messa sempre più in discussione quanto più si estenderà e si consoliderà lo spazio occupato dai nuovi protagonisti dello sviluppo mondiale lungo percorsi che con il Washington Consensus hanno molto poco a che fare, come già ampiamente dimostra la straordinaria ascesa economica e politica conseguita dalla Cina.
Tronti: “Dieci obiettivi contro la recessione”
Di Leonello Tronti – “Rispondo volentieri alla richiesta di Keynes Blog segnalando anzitutto la piattaforma unitaria per la legge di bilancio 2019 che CGIL, CISL e UIL hanno consegnato al Governo il 22 ottobre 2018, che mi sembra abbia sinora trovato ben poca disponibilità all’ascolto da parte della politica, come del resto ben poca pubblicità e ancor minore approfondimento sui mezzi di comunicazione di massa. La piattaforma è un documento molto utile e interessante, innovativo nel metodo e del tutto condivisibile. Tuttavia, non si può negare che essa susciti anche la sensazione di un eccesso di dettaglio e possa presentare quindi qualche difficoltà di comunicazione a un largo pubblico, che ne può indebolire la capacità di raccogliere un sostegno forte e combattivo da parte anzitutto dei lavoratori. Anche se questi hanno indubbiamente dimostrato con la manifestazione del 9 febbraio una rilevante e non prevedibile disponibilità alla mobilitazione. Come che sia, propongo qui un compendio personale e molto sintetico della piattaforma, che ne riprende alcuni elementi, li integra con altri farina del mio sacco e sintetizza il tutto in due obiettivi sociali irrinunciabili, tre assi fondamentali di politica industriale e cinque punti cardine di riforma delle politiche economiche europee.
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La macroeconomia e il voto italiano
Riproponiamo da vocidallestero.it la traduzione di un articolo apparso su INET Blog, di grande attualità per il nostro paese. Walter Paternesi Meloni e Antonella Stirati, rispettivamente assegnista di ricerca e professore ordinario di Economia politica presso il dipartimento di Economia dell’Università di Roma Tre, ci invitano a fare un passo indietro ed esaminare le cause macroeconomiche che hanno portato alla vittoria dell’attuale coalizione di governo, tenendo d’occhio anche le sfide che attendono i partiti di governo nei prossimi mesi – 6 agosto 2018