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Ferrari: “Programmare lo sviluppo”

Poiché in questi ultimi trimestri la variazione del nostro Pil non ha più il segno negativo e poiché questa variazione temporale del Pil nei trimestri più recenti sta superando i precedenti modesti andamenti, si è pensato di poter affermare che siamo usciti da quella crisi economica in atto, almeno nel nostro paese, da svariati decenni.

In un’economia come la nostra, compresa in un sistema di accordi quali quelli che danno luogo all’Unione europea, oltre che alle ovvie connessioni con l’economia internazionale, affermare che un segno positivo davanti al valore della variazione del Pil possa significare un andamento positivo di quella economia è, in maniere evidente, un’ipotesi che richiede di essere verificata e dimostrata. Su questa questione, peraltro, ci si è già soffermati varie volte[1]. C’è, infatti, la concreta possibilità che a quella forzatura ottimistica possa corrispondere una diagnosi errata e, quindi, quel che sarebbe più grave, anche una terapia errata, che, di conseguenza, dovrebbe essere rapidamente corretta. Dalla Figura 1 è del tutto evidente che a partire almeno dalla metà degli anni ’90, gli andamenti del nostro Pil pro capite sono nettamente e crescentemente inferiori a quello dei 19 paesi dell’Unione Europea. Confrontare gli andamenti del nostro Pil con l’andamento del Pil dei paesi nostri vicini rappresenta, dunque, la prima verifica di quella ipotesi ottimistica. Il fatto che questo divario esista e si conservi da svariati anni dovrebbe confermare, dunque, la necessità di una revisione critica di quelle affermazioni ottimistiche. A questo fine è necessario, anche per evitare considerazioni paraideologiche, cercare di individuare quando e cosa è capitato al nostro sistema socioeconomico che ne ha differenziato il comportamento rispetto a quello dei paesi nostri partner europei. Dalla Figura 1 si evidenzia l’esistenza sin dagli anni ’90 di un divario nell’andamento del Pil ma per cogliere una origine occorre risalire ad anni precedenti.

 

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Figura 1. Andamento del Pil pro-capite (Fonte: OECD).

 

Misurando, quindi, l’andamento delle variazioni percentuali del Pil dell’Italia e della UE19 (Figura 2) si rileva una discontinuità con origini nella seconda metà degli anni ’80 e con un progressivo ritardo nella crescita del Pil del nostro paese a partire da quegli anni.

 

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Figura 2. Variazione percentuale del PIL.

 

Se, dunque, gli anni del cambiamento nel comportamento economico del nostro paese rispetto a quello dei paesi nostri consimili appare ragionevolmente come quello indicato e cioè la seconda metà degli anni ’80, il fenomeno che si verifica in questi anni è rappresentato da un cambiamento in negativo della competitività del nostro sistema industriale; in particolare questo ritardo nella crescita del Pil italiano trova una conferma nell’andamento della competitività tecnologica misurata, ad esempio, in termini di percentuale di ricercatori sul totale degli addetti impegnati dalle imprese (Figura 3).

 

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Figura 3. Numero percentuale di ricercatori ogni mille addetti nel sistema delle imprese industriali (Dati: OECD).

 

Come si vede i dati indicano, partendo dai primi anni ’80, nel caso del nostro paese un andamento parallelo ma inferiore a quello degli altri paesi. Ma a partire dalla fine degli anni ’80, mentre gli altri paesi accentuano il loro impegno tecnologico, il sistema delle imprese italiane si ferma e, anzi, per una quindicina di anni riduce quell’impegno.

Lo scenario che emerge da queste prime considerazioni sembra corrispondere, da un lato all’esistenza di una politica industriale arretrata ormai da alcuni decenni e, dall’altro, alla scelta di una competitività di prezzo a fronte di una scelta di competitività tecnologica da parte dei paesi UE19. L’andamento negativo della bilancia commerciale nei prodotto ad alta tecnologia, contrariamente a quanto si verifica da parte dei paesi avanzati (Figura 4), conferma questa differente scelta di politica economica da parte delle nostre imprese.

 

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Figura 4. Saldi Bilancia Commerciale Prodotti HT ($) (Fonte: Osservatorio ENEA).

 

Questa questione della relazione tra lo sviluppo tecnologico e lo sviluppo economico-sociale viene trattata a livello politico sin dal 1945 quando Vannevar Bush, consigliere del presidente USA F. C. Roosevelt, delinea una stratigraphy di sviluppo post bellica basata sull’economia della conoscenza. Poiché, come ci ricorda Pietro Greco, la ricetta di Bush «è ancora applicabile»[2], rinviamo, per le questioni di merito, a quel lavoro, spostando l’attenzione su un interrogativo e cioè sul come mai nel nostro Paese quella ricetta non solo resta di fatto ignorata ma, anzi, viene praticata all’incontrario sino al punto di considerare la spesa pubblica in Ricerca un onere da ridurre con provvedimenti vari – dal turnover del personale, ai vincoli di bilancio nella sostituzione dei pensionati, ai blocchi contrattuali, alle riduzioni dei finanziamenti, ecc. – ma tutti convergenti verso questo obiettivo.

Ancora più significativo appare l’andamento della spesa delle imprese in R&S che, infatti, dalla metà degli anni ’80 abbandonano la progressione di questa spesa, contrariamente a quanto si verifica nei paesi avanzati. Tutto questo in coerenza con le politiche industriali perseguite che tendono, invece, ad incidere sul costo e sulla flessibilità del fattore lavoro. In definitiva mentre si persegue una politica di accentuazione della competitività del fattore lavoro, si subisce senza interventi correttivi una riduzione della competitività tecnologica.

Si aprono, a questo punto, una serie di questioni che verranno qui di seguito solo accennate poiché ognuna di queste meriterebbe un’analisi e una riflessione specifica, per essere poi ricondotte alla questione generale del ritardo di elaborazione in materia di politica economica e industriale, con tutto quel che ne consegue, da parte della sinistra. Un ritardo che nel caso dello sviluppo tecnologico rischia di emarginarla da ogni possibile ruolo politico, non essendo possibile affrontare le logiche negative dello sviluppo tecnologico con le politiche della conservazione; anche perché il conseguente ritardo si coniuga strettamente con quello sul versante dell’analisi sociale, con una visione del “proletario” come soggetto immutabile e conservatore, come se al di fuori di quella visione ci possa essere solo una concezione “capitalistica”, mentre è vero esattamente il contrario. Un ritardo che nel nostro paese assume delle dimensioni tali da concorrere, non a caso, alla sua collocazione sul fondo delle classifiche dei paesi sviluppati e ai margini della dinamica dello sviluppo. L’andamento del numero degli addetti alla ricerca nel settore industriale (Figura 1) riassume questa nostra situazione in termini tali da rendere evidente le difficoltà se non, ormai, l’impossibilità di un recupero economico basato sulla capacità del sistema produttivo privato e, quindi, senza un forte e specifico intervento del livello pubblico. Nel momento che per cause internazionali – moltiplicazione dei prezzi petroliferi e avvio di una nuova rivoluzione tecnologica – si determina la necessità di una scelta in materia di utilizzo delle conoscenze scientifiche ai fini dello sviluppo, il nostro paese, come si è visto, compie una scelta differente, di conservazione della struttura produttiva preesistente.

Nel nostro caso il divario, sulla bilancia commerciale in materia di prodotti ad alta tecnologia, si pensa di compensarlo con lo strumento della svalutazione della lira, sino al momento che anche questo viene a mancare a seguito dell’avvento dell’unione monetaria europea e, quindi, accentuando, dai primi anni 2000 in poi, il nostro divario di sviluppo.

Occorre segnalare che solo in anni più recenti sono, finalmente, incominciate ad apparire analisi e riflessioni, anche autorevoli, nelle quali la considerazione verso gli effetti della globalizzazione e del progresso tecnologico assumono un ruolo centrale nell’analisi della crisi del nostro Paese.

Ad esempio Fabrizio Onida in una Nota del 13 settembre 2012 rivolta al Rapporto coordinato per conto del Governo da Francesco Giavazzi, si domanda, forse con una certe retorica, se «al di là dell’entità dei (pochi) incentivi disponibili per le imprese, vogliamo seriamente ripensare a qualche progetto tecnologico trasversale che valorizzi taluni nostri vantaggi competitivi già esistenti (es. meccatronica e robotica, bio-scienze, nuovi materiali), cofinanziato dal settore privato e guidato da personaggi di indiscussa competenze e indipendenza? Vogliamo rivedere in questa luce ruolo e missione operativa delle istituzioni pubbliche di ricerca, a cominciare da Cnr, Infn, Enea, Iit?» (http://Sole24Ore).

Scrive inoltre Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, in un intervento alla Fondazione Cini nel gennaio 2018 che «I benefici della globalizzazione e del progresso tecnologico… non sono stati distribuiti equamente né tra le famiglie all’interno di ogni paese… né tra i Paesi. L’Italia è tra quei paesi che sono stati colti impreparati dall’arrivo di questi fenomeni». Si tratta di un cambiamento di analisi fondamentale ma che non può cambiare gli effetti di un’impreparazione che, durata alcuni decenni, non è più eliminabile con qualche decreto più o meno elettorale o con qualche incentivo finanziario risultato, già in precedenti tentativi, privo di un qualche, anche minimo, effetto. Peraltro la politica ufficiale è ancora espressa da quella impreparazione culturale e da quegli interessi economici non in grado di impostare un positivo quanto necessario rapporto con le strutture della ricerca pubblica.

Ne sono la prova quelle trecento e passa pagine che, sottoscritte dal Ministro dello sviluppo e dal Ministro dell’ambiente a metà 2017, costituiscono un proposta di Nuova Strategia Energetica; una strategia che, per la verità, non si accorge nemmeno che il nostro paese sta incentivando l’acquisto all’estero degli impianti fotovoltaici con un conseguente maggior costo del kwh prodotto e con un onere sulla bilancia dei pagamenti che potrebbe invece, nel caso specifico, essere ridotto a zero e a vantaggio anche dello sviluppo qualitativo e quantitativo del fattore lavoro. E non si accorge nemmeno che la difesa dell’uso del metano dovrebbe, come minimo, tener presente i maggiori oneri ambientali in termini di effetto serra, connessi con le relative perdite di quel gas nei circuiti di trasmissione.

In definitiva continua a crescere l’accumulazione dei ritardi con effetti non rimediabili con le solite politiche degli incentivi dal momento che, ad esempio, non è così che si realizzano quelle nuove strutture capaci di affrontare la Programmazione dell’Innovazione, cioè la capacità di realizzare nuovi prodotti/processi scelti e valutati a tavolino sapendo che il cumulo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sarà tale da consentirne la realizzazione. Uno strumento che presuppone l’esistenza non solo di un Sistema Nazionale dell’Innovazione, ad oggi inesistente, ma anche di una capacità analitica e di studio in grado di articolare le valutazioni, le scelte e le partecipazioni. Un’operazione che metta in evidenza, tra l’altro, la questione del controllo sociale dello sviluppo tecnologico in base non solo a valutazioni d’interesse economico generale ma anche dei rischi di varia natura altrimenti difficilmente evitabili se quel potenziale innovativo viene lasciato libero di manifestarsi senza una valutazione e un controllo preventivo.

Non è certo questa l’occasione per percorrere questa storia plurisecolare, se non per evidenziare come la sinistra non abbia potuto incidere, se non raramente, sulle scelte produttive ma piuttosto si sia spesa per accrescere le condizioni economiche di quel proletariato, sino alle situazioni attuali che, insieme alla fruizione dello stato sociale – dall’istruzione alla pensione, alla sanità e alle conseguenti modificazioni della domanda – ne hanno avvicinato le condizioni a quelle del ceto medio.

Questo a sua volta è stato coinvolto nelle logiche dello sviluppo capitalistico e nella conservazione del saggio di profitto per cui, attualmente, le condizione economiche dei membri della classe operaia si confondono con molte di quelle degli appartenenti a questo ceto medio.

Per entrambi resta valida la condizione sociale subalterna per cui esiste un ceto capitalistico e imprenditoriale al quale viene assegnato il compito di “comandare” non solo sul piano della distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche nelle logiche stesse dell’ubbidire in termini “del se lavorare, del come lavorare e del cosa fare”, e un ceto subalterno dove il livello di subalternità sociale ed economica è il fattore unificante tra ceto medio e classe operaia.

Poiché nella realtà della situazione italiana il ricorso all’intervento pubblico non viene più contestato ma piuttosto s’intende gestirlo per evitare che le decisioni conseguenti modifichino i ruoli sociali degli attori (le nuovo bozze della Strategia Energetica Nazionale ne sono un esempio molto chiaro) è opportuno ricordare che il ritardo accumulato dal nostro paese è una conseguenza dei limiti culturali della nostra attuale classe dirigente per la quale le spiegazioni del ritardo competitivo del nostro paese sono da ricercare sempre e solo nei difetti dell’azione pubblica: tempi troppo lunghi, corruzione, scarsa competenza, costi eccessivi, sottogoverno, ecc. Non si tratta certo di negare l’esistenza di questi “malfunzionamenti”, quanto piuttosto di mettere ordine tra cause ed effetti.

A questo punto è opportuno assumere la plurisecolare visione dei valori dell’eguaglianza e della libertà come capisaldi di una visione di sinistra dal momento che, altrimenti, navigando senza storia e senza memoria, non solo si può mettere in discussione quei valori ma, ed è un aspetto essenziale, la loro esistenza, il loro sviluppo e la loro realizzazione. Se la sinistra non organizza queste funzioni e questi strumenti a livello pubblico, dovrà necessariamente perdere anche ogni influenza in materia di distribuzione delle ricchezza e, a maggior ragione, dei ruoli sociali.

L’azione di promozione di quei due capisaldi si è sviluppata, per motivi comprensibili, essenzialmente sulle condizioni economiche della classe operaia, piuttosto che quella relative all’articolazione dei ruoli sociali. Sulle condizioni economiche di “vendita” del lavoro si è concentrata l’azione della sinistra e del sindacato, trovando qualche margine anche nella logica del saggio di profitto per cui dovendo accrescerlo o anche solo conservarlo, il capitale doveva, alle volte, affrontare la crescita quantitativa ma anche qualitativa del cosiddetto proletariato.

Volendo concludere momentaneamente con una breve indicazione delle linee politiche da assumere inizialmente per intraprendere un percorso di ammodernamento politico, economico e sociale del nostro sistema produttivo, partendo dalla formazione per arrivare alla competitività internazionale e alle logiche della qualità dello sviluppo, è possibile indicare un primo elenco di iniziative e di decisioni politiche:

  1. Istituire una Segretariato presso la Presidenza del consiglio con il compito di coordinare la presenza del paese nelle sedi europee e in quelle internazionali connesse con la definizione/attuazione degli indirizzi strategici in materia di R.S.I; curare la definizione e il coordinamento della nostra partecipazione nei Progetti R.S.I. multidisciplinari;
  2. Assicurare una crescita del finanziamento a tutte le strutture pubbliche di ricerca con un aumento minino del 10% annuo per i prossimi cinque anni, assicurando comunque una quota di questi finanziamenti alle attività di ricerca fondamentali e libere. Creare uno strumento scientifico-finanziario in grado di valutare e assicurare le necessità finanziarie connesse con l’attuazione delle fasi finali dei processi innovativi e competitivi.
  3. In materia di formazione, dalla scuola materna a quella dell’obbligo, sino all’ottenimento della laurea, il Ministero della P.I. oltre a valutare le dotazioni necessarie sia in materia di insegnanti che di studenti, dovrà sviluppare tutte le iniziative tese a promuovere le logiche connesse con la natura pubblica di tale formazione.
  4. Rinnovare il quadro dirigente delle strutture pubbliche di R.S.I. in coerenza con i nuovi obiettivi posti a tali strutture e inserire la rappresentanza dei ricercatori nella gestione di tali organismi; definire le norme generali del rapporto di lavoro per tutti i dipendenti degli enti nazionali di ricerca e, da parte del Ministero della P.I., sentito il Segretariato, le relazioni contrattuali relative a tutto il personale delle scuola e dell’università
  5. Avviare la costruzione di una politica europea unitaria tra le forze di sinistra incominciando dalle relazioni sociali, dalla costruzione di una comune etica del lavoro e del capitale, dal controllo della politica finanziaria e dalla comune specificazione delle norme ambientali.

 

Note

[1] L’ultima è rappresentato da una breve nota: Sergio Ferrari, Dal declino economico alla riforma della Costituzione, ospitata nel sito de Associazione Paolo Sylos Labini, 8 novembre 2016.

[2] Pietro Greco, Per un programma di Governo dell’economia della conoscenza, Centro Studi Città della Scienza, Napoli, 11/12/2016.

Fassina: “Fermare l’offensiva tedesca della Commissione Europea”

Germania e UE Stefano FASSINA – 10 dicembre 2017. “La posizione del governo Gentiloni sul pacchetto di proposte di “riforma” dell’Unione europea e dell’eurozona, presentata nei giorni scorsi alla Commissione Juncker, è estremamente preoccupante per l’interesse nazionale dell’Italia declinato dalla parte del lavoro. Il nostro Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) considera “un passo avanti”: la possibilità di finanziamenti in cambio di riforme strutturali (i vecchi “contractual arrangements“); la trasformazione del Meccanismo Europeo di Stabilità in un Fondo Monetario Europeo; il Ministro del Tesoro dell’Unione europea, Vice Presidente della Commissione e Presidente di Ecofin e Eurogruppo. In realtà, il pacchetto è un passo avanti soltanto per gli interessi più forti legati all’export e alla grande finanza, nutriti dalla svalutazione del lavoro. Viene, infatti, consolidato l’impianto mercantilista dei Trattati e, per tentare di nasconderlo, incartato in un virtuale foglio intergovernativo. In sintesi, si rafforza l’ordine tedesco della UE e della zona euro. La domanda interna, quindi tre quarti della nostra economia reale fatta da micro e piccole imprese, commercio, artigianato, servizi professionali e connesso lavoro subordinato e autonomo, continua a essere sacrificata. Certo, ricordano gli esperti di cose europee, il “non-paper” presentato da Wolfgang Schauble all’ultimo Euro-gruppo conteneva proposte devastanti. Certo, non è scontato che il Fiscal Compact finisca nei Trattati: nell’interpretazione Italiana dell’ambigua formulazione della Commissione (“integrate the substance of the Treaty on Stability, Coordination and Governance into the Union legal framework, ….”) potrebbe finire in una direttiva europea accompagnato da una qualche dose di “flessibilità” sugli obiettivi di bilancio pubblico. Ma rimarrebbe comunque in vigore. Come rimarrebbe nella nostra Costituzione la formulazione liberista dell’Art 81 scritta nel 2012.

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Lettieri: “Il declino di una sinistra che chiude gli occhi”

Europa in crisiAntonio Lettieri (Eguaglianza & Libertà) 20/11(2017-  I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa

 1 – A metà  del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di promuovere un accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico della storia dei conflitti franco – tedeschi che avevano dominato la prima parte del secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’so congiunto del carbone della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.

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Roncaglia: “Breve storia del pensiero economico”

79408_Laudanna 1009.qxdKeynes blog 23 gennaio 2017 – In “Economisti che sbagliano- Le radici culturali della crisi” Alessandro Roncaglia affermava nel 2010 che la crisi economica che stiamo ancora vivendo non è comparabile (come si vorrebbe far credere) a un evento iscritto nell’ “ordine naturale delle cose”, ma il prodotto di valutazioni e di scelte di politica economica guidate da una precisa “visione del mondo” che – come sottolineava lo stesso Schumpeter – “costituisce l’ineliminabile retroterra preanalitico sul quale edificare le costruzioni teoriche”. Con la recente uscita di Breve storia del pensiero economico (Laterza, 2016) questo messaggio ne esce rafforzato: Roncaglia rilancia la riflessione sviluppata ne “La ricchezza delle idee” (2001) sul valore metodologico che sottende lo studio dell’economia politica e sull’impatto che le diverse “visioni del mondo” possono avere sul corso degli eventi economici. Riportiamo qui una presentazione del libro a cura dello stesso l’Autore presso l’Accademia nazionale dei Lincei.

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Ferrari: “Le variazioni del PIL e la specificità della nostra crisi”

variazioni-pilSergio Ferrari Le attese nei mesi scorsi per conoscere le variazioni trimestrali del Pil nazionale avevano certamente dei buoni motivi, visto la condizione molto critica del nostro sviluppo; una condizione per la verità non esclusiva per il nostro paese dal momento che si parlava di una crisi strutturale internazionale. Il dibattito acceso intorno allo zero della nostra crescita era, tuttavia, il segno di un nervosismo acuto, anche perché non erano comunque questi i dati che avrebbero potuto o meno motivare l’esistenza di una nostra uscita dalla crisi. Questa osservazione vale anche per i dati presentati ai primi di settembre dall’Istat, al quale va riconosciuto una tenuta professionale rispetto alle sollecitazioni immaginabili.

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Mazzucato: “La Finanza ha le mani strette al collo della politica”

mondo-finanziarioMariana Mazzucato – Molte delle nostre politiche fiscali sono pressoché inutili, e le società multinazionali ne approfittano. Ma queste società fanno anche di più: lavorano per indebolire i nostri sistemi fiscali. Apple ha cominciato negli Stati Uniti a mettere i singoli stati federali in competizione l’uno contro l’altro. Nel 2006 la società basata a Cupertino, in California, ha fondato una sussidiaria di investimento in Nevada per non pagare tasse sulle sue plusvalenze finanziarie. La stessa strategia che ora sta mettendo in campo nel resto del mondo. Dopo la decisione dell’Unione europea contro l’Irlanda, Apple ha minacciato di ritirare i suoi investimenti dal Paese, verso altri Stati che offrano garanzie migliori dal punto di vista fiscale.

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Penna: “RIDARE PRIORITA’ AL LAVORO E ALLA DEMOCRAZIA ECONOMICA”

carta diritti CgilRenzo Penna: “RIDARE PRIORITA’ AL LAVORO E ALLA DEMOCRAZIA ECONOMICA” – Dallo scoppio della crisi nel 2008 il termine ‘finanziarizzazione’ è stato tra i più utilizzati per spiegarne le ragioni e individuarne le cause. La definizione che ne ha dato Luciano Gallino – uno dei maggiori studiosi della materia – è che rappresenti un gigantesco progetto per generare denaro mediante denaro riducendo al minimo la produzione di merce. Il capitalismo che in origine si è sviluppato da una base essenzialmente industriale, negli ultimi decenni del novecento ha gradualmente abbandonato la strada del valore d’uso delle merci per divenire, soprattutto, un produttore di rendite. Soluzione che il sistema ha adottato per far fronte alle difficoltà emerse nell’economia reale dei paesi sviluppati e dovute, in particolare, alla forte riduzione di occasioni di investimento redditizio nella maggior parte dei comparti dell’industria e dei servizi.

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Ferrari: “Da Keynes alla beatitudine economica”

di Sergio Ferrari (da www.cittadellascienza.it)

4 marzo 2016

Sergio Ferrari
Sergio Ferrari

Tra le varie domande che le incertezze economiche esistenti sollevano a livello internazionale, la più frequente – anche se non sempre espressa compiutamente – sembra essere quella che riguarda i tempi e i modi del superamento delle cause della crisi da tempo in atto.
Una crisi che ha evidenti connotati economici, ma non minori sono i segnali negativi in materia sociale, ambientale e delle relazioni internazionali. Continua la lettura di Ferrari: “Da Keynes alla beatitudine economica”

Mazzucato: “Quello di cui la politica non si rende conto”

stato innovatore“PUBBLICO E PRIVATO UNITI NELLA LOTTA” di Mariana Mazzucato da “la Repubblica” del 2 gennaio 2016 – “Le fasi in cui si sostiene il ruolo dello Stato nello sviluppo economico sono sempre seguite da un attacco contro il suo intervento nel buon funzionamento dei mercati. È stato così per tutto il XX secolo. Ed è stato così anche dopo la recentissima crisi finanziaria e recessione economica a livello globale: dopo un breve periodo, subito dopo lo scoppio della crisi, in cui tutti concordavano che lo Stato aveva un ruolo chiave da giocare per il salvataggio delle banche e lo stimolo della crescita attraverso lo stimolo economico, hanno rapidamente preso il sopravvento quelli che vedevano con allarme l’aumento del debito pubblico (considerato erroneamente come causa della crisi quando invece ne è l’effetto, per via dei minori introiti fiscali, dei salvataggi sempre più onerosi, eccetera). L’austerità è tornata quindi a essere il piatto del giorno, mentre qualunque misura seria di politica economica e industriale è diventata tabù. Continua la lettura di Mazzucato: “Quello di cui la politica non si rende conto”

Paolo Leon: “il realismo politico di Riccardo Lombardi”

disegno LombardiGiovedì 3 dicembre, nel corso della presentazione, promossa dall’Associazione LABOUR a Roma, del libro di Luca Bufarale “Riccardo Lombardi – La giovinezza politica (1919-1949)”, è stato presentato il contributo dell’economista Paolo Leon dedicato al realismo politico di Lombardi. Di seguito il testo del suo intervento.   “Molti hanno pensato che Lombardi raffigurasse gli elementi della civiltà come utopie: l’ambiente, i diritti civili, il lavoro e il non lavoro, il ruolo dello Stato, la pace, l’economia – per citarne solo alcuni. Non si trattava di utopia, sia perché alcune parti o sezioni di quelle cose erano in corso di realizzazione durante gli anni migliori del centro-sinistra (dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, alla sanità, all’istruzione, all’università di massa, al sistema pensionistico, alla disoccupazione, allo sviluppo del Mezzogiorno, alla ricerca) sia perché Lombardi voleva che allungassimo lo sguardo alle conseguenze delle riforme realizzate all’epoca: ci si sarebbe accorti di quanto lontano era il traguardo – socialismo o barbarie, riprendendo un motto francese, lasciava intendere che non c’è mai nulla d’irrevocabile e che dunque la lotta non è mai finita, quando si tratta dei diritti sociali e delle libertà personali: ce ne accorgiamo oggi, quando sicurezza e libertà entrano in conflitto.

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