Il programma del PD tutto incentrato sulla crescita sottovaluta l’urgenza e la necessità di uno sviluppo compatibile con l’ambiente

di Renzo Penna, Assessore all’Ambiente-Provincia di Alessandria

Il programma di governo del Partito Democratico individua nella crescita dell’economia lo snodo da cui far discendere le soluzioni per i diversi problemi del paese.

Il termine “crescita”, riproposto in tutti i passaggi fondamentali del documento, risulta però inevitabilmente connesso ad una modalità dello sviluppo dell’economia basata sulla “quantità” dei prodotti e delle produzioni e non, come sarebbe necessario, sulla loro “qualità”.

Che non si tratti di una questione terminologica, risulta del tutto evidente nel programma allorquando si cita, ed è l’unica volta, lo “sviluppo sostenibile” riferito ad aspetti settoriali e non, come dovrebbe essere, alla modalità generale dello sviluppo del paese.

Un indirizzo politico-programmatico tutto incentrato sulla crescita che ha come parametro di riferimento e di misurazione quello rozzo del prodotto interno lordo (Pil) è datato e poco adatto per un paese – come l’Italia – che ha certo bisogno di sviluppo, ma non può che operare in tutti i campi per la sua sostenibilità, puntando sulla ricerca, l’innovazione, l’eccellenza, la qualità e la compatibilità dei processi produttivi e delle produzioni.

Su questi temi Giorgio Ruffolo, nel 1994, ha pubblicato per Laterza un delizioso libretto intitolato “Lo sviluppo dei limiti. Dove si tratta della crescita insensata”.
Nell’ultima di copertina si può leggere che “Sviluppare limiti alla crescita significa promuovere nuove forme di sviluppo senza limiti… La biforcazione di fronte alla quale ci troviamo ci pone non il dilemma tra crescere e non crescere, ma quello tra due tipi di sviluppo. Lo sviluppo della potenza – che chiamiamo crescita – e lo sviluppo della coscienza. E’ questo che vorremmo chiamare, più propriamente, sviluppo”.

A quattordici anni da quello scritto, mentre le conseguenze della crescita insensata” ci costringono, già oggi, a fare i conti con le emergenze indotte dai cambiamenti del clima, è troppo chiedere agli estensori del programma del Partito Democratico un cambio culturale in materia di ambiente e indirizzi capaci di fare della sostenibilità uno degli assi strategici della propria cultura di governo?

Il concetto di “sviluppo sostenibile” fu introdotto per la prima volta in maniera ufficiale dall’ONU nel 1987 con la diffusione del “rapporto Brundtland” dal titolo “Il futuro di tutti noi”. La filosofia del rapporto è nell’impegno a perseguire lo sviluppo sostenibile, assicurando cioè il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quello delle generazioni future. Era così ufficializzata la relazione tra sviluppo e ambiente considerati come due fattori inscindibili nelle politiche di piano di qualunque strategia volta al progresso dell’umanità.

In questa ottica, nel 1992, le Nazioni Unite hanno organizzato il summit della Terra a Rio de Janeiro chiamato “Ambiente e sviluppo” e, dieci anni più tardi, la terza conferenza tenuta a Johannesburg (2002) che ha avuto come titolo “Lo sviluppo sostenibile”. Tra questi due appuntamenti vi è stata la definizione del documento programmatico di “Agenda 21”, che analizza i principali temi di uno sviluppo sostenibile a livello complessivo, e l’approvazione del Protocollo di Kyoto (1997) sull’impegno dei Paesi firmatari a ridurre le emissioni climalteranti.

Incentrato tutto sulla crescita il programma del PD finisce per assegnare all’“Ambientalismo del fare” – così si chiama il capitolo dedicato all’ambiente – un ruolo in subordine e non adeguato all’interesse, all’influenza e alla preoccupazione che i temi ambientali stanno in generale assumendo nei principali aspetti della vita sociale ed economica.

Ed alcune sue parti, come la gestione dei rifiuti, per l’attualità che rivestono, risultano non adeguate negli indirizzi. Non porsi in concreto l’obiettivo della riduzione e dire della raccolta differenziata che va “comunque incrementata” senza indicare nei due terzi(65%) la percentuale da raggiungere, così come non valorizzare – per le minori emissioni, il risparmio energetico e l’occupazione che genera – il recupero dei materiali, appare impreciso se non reticente.

Altre mancanze potrebbero essere segnalate, ma derivano tutte dal difetto originale: quello che fa della crescita il solo motore dello sviluppo. Un difetto che alimenta il dubbio che i numerosi e capaci ambientalisti “del si” presenti nel Partito Democratico poco abbiano influito nella stesura del programma. Potranno ancora farlo?

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