Penna: “LA SANITA’ PUBBLICA: UN INVESTIMENTO, NON UN COSTO”

di Renzo Penna, 7 novembre 2020

Con l’impetuosa e, nelle dimensioni, imprevista ripresa del contagio sono numerosi i commentatori che, nel denunciare i ritardi, chiedono per quale ragione nei mesi estivi il Governo e, aggiungo, le Regioni non abbiano adottato tutti i provvedimenti necessari a mettere il Sistema Sanitario nelle condizioni di affrontare con minore affanno le conseguenze della pandemia.

L’impressione, però, è che molti trascurino ciò che è successo negli ultimi vent’anni, quando la Sanità pubblica nazionale è stata oggetto di un sistematico smantellamento perseguito con radicali tagli negli investimenti e nella progressiva riduzione del personale, sia medico che infermieristico. E a parlare sono i numeri: in Italia il rapporto tra spesa sanitaria e Prodotto interno lordo (Pil) è al 6,6%, tra i più bassi d’Europa. Tre punti meno di Germania (9,6%) e Francia (9,5%) e molto meno di Svezia (9,1), Olanda (8,2%) e Regno Unito (7,6). Solo Spagna e Grecia hanno una spesa inferiore alla nostra (rispettivamente 6.3% e 5,1%), insieme a diversi Paesi dell’Est. Persino nazioni come la Svizzera, con un sistema sanitario che in prevalenza si basa sul finanziamento privato, spendono per la sanità pubblica parecchio più di noi (7,7%).[1]

La riduzione degli investimenti per infrastrutture e macchinari ha, ad esempio, portato negli ospedali ad una forte obsolescenza tecnologica degli strumenti (dagli ecografi alle tac, dai laboratori di analisi ai robot) e delle attrezzature che, per guasti, bassa qualità diagnostica e lunghi tempi di analisi, rappresenta una delle ragioni dell’allungamento delle liste di attesa per gli interventi e le visite.[2]

In analogia con il taglio delle risorse per investimenti abbiamo assistito ad una diminuzione di quasi il 7% dei dipendenti sanitari, oltre 46 mila persone. Ha iniziato nei primi anni 2000 il Governo Berlusconi-Tremonti, è proseguito quello di Monti con un’ulteriore stretta sulle assunzioni e, con alti e bassi, si è, sulla stessa linea, continuato sino al primo esecutivo di Conte. La riduzione, in particolare, ha interessato 8 mila medici e ben 13 mila infermieri. Nonostante che la presenza di questi ultimi sia già decisamente inferiore al resto d’Europa, sia in rapporto alla popolazione (5,6% infermieri ogni mille abitanti, contro 12,9% della Germania e 10,2 della Francia) e sia rispetto ai medici (abbiamo solo 1,4 infermieri ogni medico, contro circa i 3 di Francia e Germania).

Le conseguenze dell’Austerity 

E tutto questo per tenere fede alle politiche di austerity della UE e alla decisione  profondamente sbagliata, anche sotto il profilo economico, di inserire (2012) il pareggio di bilancio in Costituzione. Iniziativa, ricordo, del governo Monti, ma votata da tutte le forze politiche.

Un indirizzo favorito da una deriva culturale e ideologica neoliberista volta a considerare la spesa per la salute non un investimento, ma un costo da tagliare, da contenere, da ridimensionare e l’indebolimento della sanità pubblica utile e necessario a sviluppare quella privata. Secondo l’assunto che tutto ciò che è privato è bello ed efficiente, mentre il pubblico viene  considerato disadorno, inadeguato e corrotto. In questo modo ci siamo trovati e ci troviamo, con l’Italia bloccata, a fare i conti con il dimezzamento dei posti letto per le emergenze e la terapia intensiva, i pronto soccorso e le Asl in affanno e con il sostanziale rinvio delle cure per quasi tutte le patologie non legate al Covid.

In generale le forze politiche e i governi hanno grandemente sottovalutato le esigenze dettate dai nuovi scenari globali connessi alla compromissione e allo sfruttamento delle risorse naturali che hanno finito con il favorire il cambiamento climatico e la diffusione di virus ed epidemie globali. Peraltro annunciate e ormai facenti parte dell’attuale modello di vita, non dell’imponderabile. Di conseguenza le pur significative risorse stanziate dall’attuale governo e le programmate assunzioni possono, e solo per l’anno in corso, attenuare i disagi e le carenze; auspicando che la dura lezione che il Coronavirus sta impartendo ai governi di tutta Europa serva a riconoscere gli errori commessi.

Risulta, infatti, del tutto evidente che per riportare la Sanità pubblica italiana in condizioni di ottimale efficacia ed efficienza servirà stanziare ingenti investimenti in risorse umane, strutture e servizi territoriali, almeno per i prossimi dieci anni. L’epidemia da Coronavirus ha drammaticamente messo alla luce i limiti e le carenze del Servizio sanitario italiano, quello che, mentre si provvedeva a ridimensionare e depotenziare, continuava ad essere decantato come “il migliore servizio sanitario del mondo”, e, nel contempo, ci sta facendo comprendere di quanto sia essenziale il valore della salute per una collettività. Un diritto fondamentale indispensabile per consentire alle persone di studiare e lavorare in sicurezza. Come bene riconosce l’articolo 32 della nostra Costituzione.

Ricostruire la Sanità pubblica

La difficile esperienza che stiamo vivendo, per tornare utile, deve fornire le indicazioni per ricostruire la sanità pubblica, correggendo gli errori e le degenerazioni di questi ultimi 10-15 anni, riscoprendo la vera missione del  SSN: “tutelare la salute pubblica dei cittadini, il diritto alla salute, non alla cura.”[3]

Per ottenere questo occorre, però, avere il coraggio politico di mettere in discussione la concezione “aziendale” della sanità, introdotta nel 1995 con il DGR[4], il sistema che stabilisce un prezzo, una tariffa per le prestazioni sanitarie che le regioni rimborsano agli ospedali. Una modalità che ha penalizzato la medicina del territorio e i dipartimenti di prevenzione i quali, permettendo di anticipare e curare la malattia fanno, a medio termine, risparmiare il sistema e, soprattutto, evitano nelle fasi pandemiche che vada in crisi e collassi il servizio. Come è successo in Lombardia. Ma la prevenzione nell’attuale sistema non “rende” e gli ospedali, anche quelli pubblici, per reggere economicamente devono realizzare un certo numero di “prestazioni”, di interventi chirurgici.

Quando adesso tutti invocano la necessità di rafforzare la medicina del territorio, la rete dei distretti, potenziare l’assistenza domiciliare, valorizzare il ruolo e ampliare i compiti dei medici di base, investire in risorse umane, strutture, servizi più vicini alla cittadinanza, occorrerà che, analogamente, gli ospedali pubblici tornino ad essere valutati e compensati in base alle vere esigenze epidemiologiche del territorio. Riassegnando alla prevenzione un ruolo di guida e di indirizzo. E occorrerà fare presto visto il numero di dipendenti che il SSN ha perso dal 2010 per pensionamento o emigrazione e con un personale sanitario con una età media che supera i 50 anni. Nei prossimi dieci anni si prevede mancheranno 22 mila medici di medicina generale, nonché 48 mila medici del Servizio sanitario. Di infermieri, con il blocco del turnover e delle assunzioni, ne servono attualmente 53 mila e non è facile trovarli, visto che gli stipendi, per un lavoro come il loro pesante e di responsabilità, sono i più bassi d’Europa.

Superare le Rsa

Un discorso a parte meritano, poi, le Residenze sanitarie assistenziali, in questi mesi falcidiate dal contagio del virus. Qui, prima di denunciare le carenze organizzative o le decisioni improvvide delle regioni che hanno favorito il contagio, è necessario discutere se ha senso esistano strutture che ospitano centinaia di persone non autosufficienti in ambienti che non possono offrire una vita degna. La tragica esperienza delle morti nelle Rsa devono portare tutti a ragionare su come superare le attuali strutture come soluzione ordinaria alla fragilità delle persone.

Non è una questione di spesa pubblica in quanto è dimostrato che l’assistenza a domicilio costa meno e garantisce una qualità di vita di gran lunga migliore. E’, principalmente, una questione culturale, perché dobbiamo imparare a rispettare anche chi non è più produttivo. Ma è anche una questione di forti interessi economici privati: attorno alle Rsa girano affari di decine di miliardi di euro, un settore a basso rischio per chi investe e con rendimenti medi elevati.[5]

Un comparto non da potenziare, ma da riconvertire verso convivenze, condomini protetti, comunità alloggio, domiciliarità.[6] Provvedendo ad un sostegno economico adeguato alle famiglie di chi assiste a casa una persona non autosufficiente. Anche in questo campo le previsioni sconsigliano di perdere tempo: l’Italia è il paese europeo che sta invecchiando di più e più velocemente, secondo l’Istat nei prossimi 40 anni ci saranno quattro over sessantacinquenni ogni due cittadini in età da lavoro.[7]

Renzo Penna

Alessandria, 7 novembre 2020  

[1] Rosy Battaglia: intervista a Nerina Dirindin, 11 marzo 2020, da “Valori.it”

[2] Gloria Riva: “L’Espresso” del 31 maggio 2020

[3] Riccardo Iacona:”La riforma del Servizio sanitario nazionale dopo il Covid”, da“Mai più eroi in corsia”. Piemme, ‘20

[4] DGR: “Diagnosis related groups”, raggruppamenti omogenei di diagnosi

[5] Nerina Dirindin: “Come tutelare la salute di tutti”, da volerelaluna.it, 27 aprile 2020

[6] Enzo Bianchi: “Chiudiamo le Rsa, ma per sempre”, da “Repubblica”, 20 ottobre 2020.

[7] Vedi nota 2

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