Penna: Qualche ragione per l’insuccesso di “Liberi e Uguali”

grasso-leu_-prendiamo-atto-del-cattivo-risultato_videostill_1Renzo Penna – 14 aprile 2018

Alle recenti elezioni politiche del 4 marzo il risultato di “Liberi e Uguali” non può che essere definito deludente. Appena 6 mila voti in più di quanto raccolto dalla sola SEL (Sinistra Ecologia e Libertà) nel 2013, quando Vendola e Bersani si accordarono per “Italia Bene Comune”. Da allora,  però, molte cose sono cambiate e va riconosciuto che la nascita di “Sinistra Italiana” non è stata pari alle attese. Invece di ampliare le adesioni e i consensi ha subito distacchi nei gruppi parlamentari e manifestato incertezze programmatiche e ambiguità nella leadership. Anche per questo le attese per i risultati di “LeU” erano più contenute tra i militanti di “SI” rispetto a quelle presenti in “Mdp-Articolo 1”, dove ci si era spinti a ipotizzare le due cifre. La buona riuscita dell’assemblea del 2 dicembre a Roma e l’investitura di Pietro Grasso a leader della formazione avevano alimentato un certo ottimismo. Che l’andamento della campagna elettorale – con l’oscuramento dei media, l’accusa agli “scissionisti” e la riproposizione del voto utile da parte del PD, unite alle polemiche sulla definizione delle candidature e le poco brillanti prestazioni televisive di Grasso – si era già incaricata di ridimensionare.

Ma le ragioni del voto deludente di “Liberi e Uguali” non sono certo solo queste, ne principalmente queste, così come quelle di tutta la sinistra o, meglio, del centro-sinistra, se si vuole comprendere il vero e proprio tracollo del PdR, il Partito Democratico di Renzi. Le cause vanno ricercate altrove, la crisi della sinistra ha ragioni più profonde, lontane e i cittadini hanno, con il voto, cercato risposte in ambiti diversi ai loro irrisolti e pressanti problemi quotidiani: la ricerca di un lavoro e un reddito bastante ad arrivare con dignità alla fine del mese.

Sono da ricercate all’inizio degli anni ottanta quando il modello produttivista, che aveva retto dalla fine del secondo conflitto mondiale, è entrato in crisi: i produttori non riuscivano più a comprare tutte le merci che producevano e il capitale non trovava più un’adeguata valorizzazione. Per superare quella crisi è stata inventata la soluzione finanziaria e le teorie liberiste hanno imposto e assegnato assoluta priorità al mercato, il quale avrebbe dovuto autoregolarsi, e al privato, da preferire sempre al pubblico. Da li la finanziarizzazione dell’economia – il “finanzcapitalismo”, per dirla con Luciano Gallino – che ha prodotto una redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, con una concentrazione della ricchezza mai vista in precedenza e il conseguente aumento esponenziale delle diseguaglianze. Sul piano sociale ha favorito il ridimensionamento dello stato sociale (sanità, pensioni, tagli agli Enti locali per assistenza, abitazioni, scuole, sicurezza), causato l’aumento del numero di poveri assoluti e relativi e, nel lavoro, la crescita della precarietà e la riduzione dei diritti (Art. 18 e 13 dello Statuto dei lavoratori) e delle tutele (possibilità di licenziare senza giusta causa e giustificato motivo, licenziamenti collettivi, riduzione della Cassa integrazione). Soprattutto per i giovani la precarietà è diventata strutturale attraverso la Gig economy, l’economia dei “lavoretti”, le finte partite Iva senza diritti, tutele e salario povero, che se non sarà per tempo regolamentata prepara il futuro di una società senza welfare. Una condizione che per troppo tempo il sindacato non ha compreso e che tutt’ora fatica a rappresentare. Sul piano economico-produttivo, in particolare in Italia, l’assenza di una politica industriale e frettolose privatizzazioni hanno portato alla svendita o allo smantellamento di un sistema di partecipazioni pubbliche in settori strategici e al taglio delle risorse per la ricerca e l’innovazione. Un modello, quello speculativo finanziario, che a fine 2007 è precipitato in una crisi catastrofica, nelle dimensioni, superiore a quella del ’29. E, nel nostro Paese, tutt’altro che superata visto il tasso di disoccupazione quasi doppio rispetto all’inizio e quella giovanile costantemente sopra il 30%.

Negli stessi anni ottanta si è, in tutta evidenza, manifestata l’altra faccia della crisi dell’attuale modello di sviluppo che si basa sul presupposto di una crescita infinita e la fiducia illimitata nei confronti della tecnologia: la crisi ecologica ed ambientale. Mentre, con risorse naturali finite, l’idea di una crescita senza limiti è del tutto illogica e già oggi avremmo bisogno, per sostenere i nostri consumi, dei beni di un secondo pianeta. E i cambiamenti climatici indotti dall’uomo rappresentano l’incognita maggiore per le future generazioni. Una duplice crisi le cui radici di fondo le classi dirigenti in Europa, se consideriamo l’insufficienza delle ricette messe in campo,  hanno dimostrato di non comprendere e non saper gestire in modo adeguato.

Le dottrine neoliberali, negli ultimi decenni, hanno conquistato le menti e i cuori non solo delle forze di destra, ma, in Europa e da noi, hanno influenzato gran parte di quelle di sinistra che hanno finito per assecondarne l’azione. Diventate afone e sostanzialmente subalterne nei confronti dello strapotere della finanza e del diffondersi della sua ideologia sui media, nelle università e nei parlamenti. L’azienda più importante a Bruxelles è, non casualmente, la lobby finanziaria, dove si stima che la netta maggioranza delle migliaia di lobbisti presenti abbia a che fare con la finanza e condizioni le leggi che il parlamento approva.[1]

Le teorie di Anthony Giddens sull’esistenza di una “terza via” mediana tra liberismo e sinistra radicale, interpretata e fatta propria da Clinton e Blair, si è rivelata, nei fatti, un sostegno alla prima con un pò più di compassione nei confronti dei poveri e dei bisognosi. Una sorta di Thatcherismo dal volto umano, che tradiva l’ideale socialista di lottare sempre contro le diseguaglianze provvedendo in maniera collettiva, universale e pubblica alle necessità di chi è in difficoltà. L’adesione a questa teoria da parte dei partiti socialisti e socialdemocratici europei quando, sul finire del secolo scorso, erano al governo delle nazioni più importanti, e le riforme economiche da questi adottate – ad iniziare dalla Germania –  per limitare la democrazia sociale, tagliare i diritti dei lavoratori e contenere le retribuzioni, sono alla base della loro attuale verticale perdita di consensi. Un indirizzo politico che in Inghilterra Jeremy Corbyn ha, in minoranza, lungamente combattuto nel New Labour di Tony Blair.  In Italia i Democratici di Sinistra, al posto di costruire l’identità e il programma di una forza politica socialista e di sinistra europea per gli anni 2000, capace di interpretare e governare la necessaria trasformazione del modello sociale e gli straordinari cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, si decidevano alla nascita del Partito democratico. Una formazione senza storia e senza memoria nata, oltretutto, in ritardo da una politica sbagliata: quella del compromesso storico. La composizione a freddo di due correnti ormai esaurite e asfittiche, come sostiene Massimo Cacciari[2], che non potevano costruire una nuova identità e alla quale Veltroni, peggiorando la situazione, ha voluto aggiungere un altro limite, quello dell’autosufficienza. Una formazione, per nascondere le sue debolezze, sempre alla disperata ricerca di un leader e, infine, approdata a Matteo Renzi. Il quale, non avendo nulla in comune con le culture originarie del PD, ha dichiarato la sua estraneità alla sinistra in uno dei suoi primi interventi: la recensione alla nuova edizione di Destra e Sinistra di Norberto Bobbio, dove si sosteneva che la distinzione più aderente alla nuova realtà era conservazione/innovazione, non più destra e sinistra.[3] E dove, in maniera esplicita, si annunciava il cambio della natura del partito.

Tutto questo, si domanderà qualcuno, cosa c’entra con il poco esaltante risultato di “Liberi e Uguali” alle ultime elezioni? A mio avviso molto. L’elettore di sinistra, da tempo insoddisfatto delle politiche del Partito Democratico, ha ritenuto poco credibili le affermazioni e i programmi della formazione di Grasso, troppo simile e, in qualche modo, ancora dipendente dalle prospettive del Partito Democratico. Pronti, una parte degli aderenti, al rientro nella “ditta” una volta messo da parte Renzi. Poco attendibili anche per una presa di distanza tardiva quando la deriva moderata e insieme populista del PD era da tempo conclamata; così come la svalorizzazione del lavoro e la messa in discussione del ruolo e della funzione del sindacato. L’elettore, di fronte alla durezza della situazioni economica e sociale, ha dato la sua adesione a formazioni politiche che prospettavano soluzioni più nette e radicali. Mentre i dirigenti di “LeU” hanno, in più occasioni, dato l’impressione di considerare sempre la radicalità delle posizioni un’espressione di irresponsabilità, non essendo però in grado di fornire delle credibili risposte alle richieste dei cittadini. Scontando una distanza dalle sofferenze, le paure e i problemi che nella crisi vivono molte persone e, soprattutto, quelle più giovani. Che, se nel centro sud hanno riversato il loro voto nei confronti del M5S, al nord hanno pesantemente premiato la Lega di Salvini. Tra i due l’esito, a mio giudizio, più carico di preoccupazioni.

Da qui la necessità, non di tornare indietro, ma di ripartire. Con una nuova formazione, un nuovo partito di sinistra, autonomo che costruisce la sua identità programmatica ponendo al centro il lavoro, quello di oggi e di domani, lotta con determinazione per affermare l’eguaglianza nella società, tutela l’ambiente e il territorio, e non rinuncia, nelle forme oggi possibili, all’obbiettivo della piena occupazione. E torna a discutere e a ragionare di Europa di una Unione costruita su trattati che assegnano le priorità al mercato, ad una concorrenza senza regole e mettono all’ultimo posto le condizioni del lavoro e delle persone. Una Ue che non funziona, in parte ci penalizza e rischia di esplodere. Ma questa è solo la premessa di un tema che merita una diversa e più impegnata riflessione.

Alessandria, 14 aprile 2018         

[1] La crisi del modello produttivistico. Intervista a Luciano Gallino. QSC n.54 del 2013. Isral, Edizioni Falsopiano.

[2] “La Traversata del deserto” di Massimo Cacciari dal n.15 de “L’Espresso”, 8 aprile 2018

[3] Nadia Urbinati: “La democrazia del sorteggio”, da “La Repubblica” del 10 aprile 2018

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