Mazzucato: “La Finanza ha le mani strette al collo della politica”

mondo-finanziarioMariana Mazzucato – Molte delle nostre politiche fiscali sono pressoché inutili, e le società multinazionali ne approfittano. Ma queste società fanno anche di più: lavorano per indebolire i nostri sistemi fiscali. Apple ha cominciato negli Stati Uniti a mettere i singoli stati federali in competizione l’uno contro l’altro. Nel 2006 la società basata a Cupertino, in California, ha fondato una sussidiaria di investimento in Nevada per non pagare tasse sulle sue plusvalenze finanziarie. La stessa strategia che ora sta mettendo in campo nel resto del mondo. Dopo la decisione dell’Unione europea contro l’Irlanda, Apple ha minacciato di ritirare i suoi investimenti dal Paese, verso altri Stati che offrano garanzie migliori dal punto di vista fiscale.

Questo ha stimolato una concorrenza al ribasso tra governi il cui effetto è penalizzare l’innovazione e creare nuova disuguaglianza, anziché ridurla. Le politiche fiscali infatti non dovrebbero puntare a preservare i profitti delle società, ma a incoraggiare gli investimenti privati, che sono la parte più volatile del prodotto interno lordo. L’evidenza mostra che il modo giusto con cui uno Stato può stimolarli è investendo in prima persona sui settori più innovativi, a maggiore rischio e più alta intensità di capitale. Questo può attrarre su quelle tecnologie gli operatori privati, aumentando la loro percezione di opportunità. Gli incentivi indiretti, come quelli fiscali, sono efficaci solo se si accompagnano a simili politiche di spesa pubblica. Negli Stati Uniti Obama ci è riuscito con il suo programma per l’economia verde. Si parla spesso dell’insuccesso di Solyndra, la società dell’energia alternativa che ha dichiarato bancarotta dopo aver ricevuto 535 milioni di dollari in fondi governativi. Ma lo stesso pacchetto ha sostenuto anche Tesla, che è un grande successo, e per decenni il governo ha finanziato il fracking prima che arrivassero i privati.

Molte delle tecnologie alla base dei prodotti che fanno la fortuna di Apple e Google, come di quelli di tante altre società tecnologiche e farmaceutiche, sono state sviluppate all’origine grazie a programmi di investimento pubblici. Ma ora le multinazionali stanno usando il loro potere per avere trattamenti fiscali più favorevoli, abbassando il gettito fiscale degli Stati e costringendoli così a tagliare la spesa pubblica. Nel lungo periodo questo riduce la quantità di fondi pubblici per l’innovazione, mettendo a rischio le future Apple. Nonostante gran parte del valore della società di Cupertino sia stato creato dai suoi centri di ricerca della California, negli ultimi dieci anni il deficit dello Stato è aumentato e il suo sistema scolastico, che era di eccellenza, negli ultimi venti anni ha perso qualità.

Dove vengono creati i profitti delle imprese? Non ci sarà mai una risposta precisa a questa domanda. Ma se la tassa sulle imprese è una tassa sul reddito è ragionevole collocare le imposte lì dove il valore viene generato. Nel caso di Apple, non ci sono dubbi che crei la maggior parte del suo valore negli Stati Uniti. Questi schemi di rimescolamento fiscale a livello globale non sono certo una sua peculiarità, altre società tecnologiche come Google, Oracle e Amazon li mettono in atto. Una strategia simile permette a Google di beneficiare di incentivi fiscali garantiti dagli stessi Paesi di Apple. E queste aziende fanno costante pressione sui politici per ottenere una tax holiday, una finestra di esenzione dalle tasse che garantisca loro di rimpatriare i miliardi di dollari di liquidità parcheggiati nei paradisi fiscali. Non c’è nessuna garanzia che quei soldi verrebbero impiegati per investimenti, tanto più che Apple e altre grandi società stanno spendendo cifre crescenti in programmi di riacquisto di azioni proprie, per spingerne il valore in Borsa, in stock option o per le retribuzioni dei dirigenti.

Le multinazionali si proclamano creatrici di benessere e occupazione, ma il loro modo di fare impresa in realtà è parassitario e quindi mette a rischio l’innovazione futura che dipende dai fondi pubblici. Lo stesso schema ora lo stanno riproponendo a livello internazionale. L’errore dell’Irlanda è stato accoglierle a braccia aperte, una strategia poco lungimirante perché con la stessa facilità con cui sono arrivate, le multinazionali possono andare verso Paesi che offrono loro qualcosa di più.

La retroattività della decisione europea sull’Irlanda è un po’ irrituale, ma è un messaggio forte che certe pratiche fiscali non sono più accettabili, un messaggio che dovrebbe essere mandato anche alle altre multinazionali. D’altra parte però la Ue non è stata in grado finora di varare serie politiche per l’innovazione, puntando su settori strategici e avendo anche il coraggio di finanziare come committente, al pari di quanto fanno gli Stati Uniti o la Cina, le singole società più avanzate. Solo così un ecosistema simile a quello della Silicon Valley potrà nascere da questa parte dell’Atlantico. Peccato che programmi virtuosi di questo tipo nell’Unione siano addirittura vietati come aiuti di Stato.

Allo stesso tempo l’Europa non è riuscita a sbarrare le scappatoie fiscali sfruttate dalle multinazionali, che possono essere contrastate solo agendo a livello sovranazionale. Ecco il vero grande fallimento dell’Unione. È inutile avere grandi ambizioni di crescita se poi non si riesce neppure a disegnare un sistema fiscale che premi la visione di lungo periodo, l’unica in grado di generare investimenti e innovazione, e penalizzi quella finanziaria di breve periodo. Tutte le politiche sui patent box, gli sgravi sui redditi che derivano da proprietà intellettuale, sono un esempio di questa distorsione negativa e sono frutto del lavoro di lobby di società come Google, Apple e Glaxo Smith Kline. Hanno poco senso perché i brevetti godono di per sé di un regime di esclusiva per molti anni, quello che dovrebbe essere ricompensato non è il profitto che se ne trae, ma la ricerca che li ha prodotti. La diffusione di questi strumenti testimonia che il mondo della finanza ha ancora le mani strette al collo della politica. E che la grande industria, sempre più finanziarizzata, riesce a dettare molte delle nostre politiche economiche.

da “la Repubblica” del 3 settembre 2016

 

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