Il compagno Sergio Vannozzi ci ha segnalato il resoconto di questo incontro-dibattito promosso dall’Associazione “Labour“, condotto da Fausto Vigevani nel corso dell’anno 2000 e titolato:
Cambia l’Italia. Cambia il sindacato
Si tratta di un Forum con i sindacalisti Pier Paolo Baretta, Mauro Beschi, Antonio Panzeri. Paolo Pirani, coordinato da Fausto Vigevani. Un dibattito di sicuro interesse che volentieri pubblichiamo.
Il ruolo del sindacato, la sua unità, la centralità delle questioni sociali che oggi si delineano in scenari diversi da quelli tradizionali, contrattuali, il sistema politico di bipolarismo imperfetto, con tutte le sue pericolose contraddizioni, la globalizzazione dell’economia e la trasformazione in atto nei settori produttivi tradizionali: sono i temi più importanti con i quali le Confederazioni devono oggi misurarsi e sui quali va impostata un’azione che guardi in primo luogo alla dimensione europea per metà in essere e per metà ancora da conquistare sul piano sociale ed economico. Ma sono questioni che investono anche la politica, perché riguardano la qualità della democrazia presente e futura in Italia e in Europa. L’unità sindacale, la concertazione e la politica dei redditi, il ruolo europeo del sindacato sono grandi politiche che riguardano tutti e non solo il sindacato, ma che la sinistra politica sembra ignorare. Fausto Vigevani ne ha parlato con alcuni sindacalisti: Pubblichiamo il resoconto del Forum svoltosi nell’estate del 2.000 a Roma, al quale hanno partecipato Pier Paolo Baretta, segretario confederale della Cisl, Mauro Beschi, segretario nazionale Funzione Pubblica della Cgil, Antonio Panzeri, segretario generale della Camera del lavoro di Milano, Paolo Pirani, segretario confederale della Uil.
Vigevani: Una prima riflessione va fatta su un elemento di novità offerto da Confindustria. La scelta di D’Amato Presidente è indubbiamente una svolta. Quanto potrà condizionare i rapporti fra le parti sociali e come i sindacati affronteranno il confronto?
Beschi: In Italia si sta chiaramente delineando una questione sindacale che riguarda non solo il ruolo del sindacato come rappresentanza di interessi, ma anche la sua funzione in una società complessa che esige il riconoscimento dell’importanza delle associazioni tra cui quelle sindacali. Nel processo di trasformazione politica in atto, la questione sindacale diventa così essa stessa una grande questione di democrazia. La fase di supplenza del sindacato si sta concludendo. C’è un giusto recupero della politica che rischia però di sottovalutare l’importanza della rappresentanza sociale nel nuovo divenire del paese. Secondariamente, si tende a configurare – non solo da destra – l’azione e il ruolo del movimento sindacale come un ostacolo allo sviluppo. Su queste due questioni si è inserita la variabile Confindustria, col cambio del suo gruppo dirigente che rappresenta un tentativo di affrontare questioni complesse come la competitività, l’internazionalizzazione, la trasformazione dell’apparato produttivo, nel modo apparentemente più semplice: recuperare competitività attraverso la riduzione dei costi. Sarebbe perciò opportuno che attraverso un dibattito che coinvolga anche la sfera politica si chiariscano alcune questioni che hanno in se una certa ambiguità, come quella della flessibilità che il sindacato ha affrontato e risolto, in molti casi, con accordi e soluzioni adeguate ai problemi del paese. Dietro la forte insistenza su questo tema c’è la tendenza a indebolire il sindacato per determinare una trasformazione considerata necessaria. E in questa situazione complicata e caotica il terrorismo si inserisce cercando elementi di drammatizzazione.
Panzeri: Io penso che la scelta di D’Amato corrisponda all’esigenza di buona parte del mondo dell’industria di mettere in discussione le vecchie regole che riguardano non solo il 1 sistema di concertazione ma anche quello contrattuale che è derivato dall’accordo del 23 di luglio del ’93. La scelta, senza ritorno, per l’Europa, con il passaggio dai cambi fissi all’euro, ha non solo imposto oggettivamente al sistema economico dei singoli paesi il rispetto delle cosiddette com patibilità, ma ha impedito il ricorso alla svalutazione per reggere sul mercato internazionale. Molte imprese sono arrivate così ad un bivio e per affrontare la concorrenza internazionale tendono a pigiare il tasto della compressione dei costi, specialmente quelli del lavoro. Il sindacato ritiene invece che per stare sui mercati internazionali si debba pigiare soprattutto il tasto della qualità e dell’innovazione. La compressione dei costi può portare anche a parziali risultati nel breve periodo ma rischia di essere scarsamente lungimirante. Tutto questo, ovviamente, ha ripercussioni sul nostro sistema di relazioni industriali. Se Confindustria sceglie la via della compressione dei costi è impensabile che il sistema contrattuale ereditato dal 1993, fondato sui due livelli, possa essere riconfermato. Alcune imprese ritengono indispensabile avere un solo livello di contrattazione centrale, altre invece un solo livello decentrato, ma non si capisce bene se circoscritto alla singola azienda o al territorio. Sta di fatto però che con la nuova fase di Confindustria si tenderà a rimettere in discussione l’accordo del 23 luglio riconfermato con i patti di Natale. Un accordo che ha permesso il mantenimento di una politica dei redditi, essenziale nei momenti di maggiore sforzo per il raggiungimento dell’obiettivo europeo. Purtuttavia, credo sia utile riflettere sui punti di forza e i punti di debolezza di un’ipotesi come quella avanzata da Confindustria. I punti di debolezza stanno nel fatto che, attraverso la destrutturazione del sistema contrattuale tout-court, sarà impossibile attuare politiche di con certazione e creare un sistema di relazioni sindacali moderno, che risponda ai bisogni anche dello stesso sistema delle imprese. I punti di forza riguardano invece le profonde trasforma zioni relative a due particolari aggregati. Il primo è di natura merceologica: non è più pensabile avere settori in cui ci sono quattro o cinque contratti, ma è indispensabile avviare un processo di accorpamento contrattuale per grandi aggregati. La vecchia intuizione della Cgil, che aveva proposto ad esempio il contratto dell’industria, potrebbe dischiudere una via percorribile. Il secondo aggregato decisivo è di natura territoriale: di fronte ai grandi processi di globalizzazione e al processo di unità europea, i confini nazionali diventeranno molto più labili e peseranno molto di più le cosiddette aree sistema, ovvero le aree territoriali che competeranno a livello più generale. Il sistema contrattuale italiano deve misurarsi con queste nuove trasformazioni. E pensare a una contrattazione su basi anche territoriali, non è più una bestemmia.
Vigevani: Vorrei fare due osservazioni. La prima si collega a quanto ha appena detto Panzeri riguardo agli accorpamenti contrattuali, ma in parte può collegarsi anche alla dimensione europea. Panzeri ha rievocato la vecchia idea della Cgil del contratto dell’industria. Mi chiedo però se di fronte al crescendo di forme di integrazione in cui l’Unione Europea tende a regolare la fiscalità e ad esigere conti pubblici in regola coi parametri di Maastricht, non sia l’Europa la dimensione del primo livello, quella che sostituisce la dimensione nazionale. La seconda è una osservazione politica. Ho la sensazione che il cambio di presidenza in Confindustria abbia segnato anche una presa di distanza dal governo e dalla maggioranza e una propensione verso il Polo. Siete d’accordo?
Beschi: Il padronato italiano tenta indubbiamente di utilizzare la discussione sulla riforma della contrattazione anche per recuperare spazi di potere e ridisegnare i rapporti di forza nel paese. Resta tuttavia il fatto che il problema della riforma si intreccia con la questione 2 europea. Su scala continentale forse è praticabile un’iniziativa sindacale che tenda a equiparare diritti e normative. Ancora per qualche tempo però il problema della regolazione salariale non può che competere ai singoli stati, tanto più che con l’allargamento dell’UE non è prevedibile una politica salariale omogenea per paesi con dimensioni sociali ed economiche così diverse. C’è poi il problema di come collegare il salario alla produttività. Le soluzioni sono molteplici. Ma bisogna discuterne senza prevenzioni ideologiche. Sono sconcertato dall’ultima uscita di Fazio su questi problemi, perché la realtà italiana mette in evidenza una contrattazione che ha ben presente il rapporto che esiste tra produttività creata e retribuzione. Sul versante invece più politico, penso che siamo di fronte a un’iniziativa del Polo che ha avuto successo e che tende a rappresentare la propria offerta politica come un messaggio di libertà. Molti imprenditori, soprattutto nelle medie e piccole aziende, sono assolutamente affascinati da questa possibilità di recupero. In settori come il tessile, ad esempio, le rappresentanze istituzionali oggi sono governate dalle piccole e piccolissime imprese. I grandi gruppi tendono a fare un po’ le cose da sé e a lasciare la rappresentanza politica a Federtessile, o a Federmeccanica. Sono convinto che la trasformazione di queste funzioni in politica sindacale da parte di Confindustria non è così semplice. La stessa vittoria di D’Amato rappresenta un accrescimento del ruolo di quest’area imprenditoriale, ma nello stesso tempo lui deve fare un compromesso anche con gli altri e ricostruire quindi un equilibrio.
Baretta: Confindustria ha segnato sicuramente una svolta con la nuova presidenza. Però io non do un giudizio positivo sulla gestione Fossa, che non è stata certamente progressista. Che poi abbia flirtato per qualche periodo coi governi di centrosinistra mi è parso più un bisogno di ruolo che una scelta di campo. Storicamente le opzioni politiche di Confindustria sono legate alla rappresentanza di interessi e probabilmente quello che è venuto modificandosi adesso è il quadro di riferimento generale. Ma al di là della sua grossolanità e talvolta della sua arroganza, D’Amato pone il problema, che sbaglieremmo a sottovalutare, della competitività del sistema e della riscrittura delle regole complessive. Possiamo non condividerne le ricette, ma è un problema vero. E la nostra risposta dovrebbe essere molto più coraggiosa sui contenuti. Noi possiamo contrastare le spinte ultraliberiste del mercato sovranazionale presenti anche nel nostro paese, con la forza di idee che trovano un consenso collettivo. Com’è avvenuto, nell’ultimo decennio, con la lotta all’inflazione e poi con l’ingresso in Europa. Attorno a queste parole d’ordine, interessi particolari discordanti venivano ricondotti a un disegno unificante. Oggi manca una parola d’ordine di altrettanto richiamo e il rischio è che gli interessi di parte tornino a prevalere, con una netta predominanza di quelli confindustriali. Io penso che la nuova parola d’ordine sia lo sviluppo del sistema Europa e del sistema Italia dentro l’Europa. La controffensiva culturale può ripartire da qui perché gli interessi particolari, anche di Confindustria, devono stare all’interno dello sviluppo di questo sistema, che è non solo economico, ma sociale, ecc. Quanto alla nuova scelta politica di Confindusiria, questa probabilmente non fa che assecondare la tendenza prevalente di opinione verso il Polo, data peraltro per scontata anche dai sondaggisti del centro sinistra. Venendo al merito della riforma della contrattazione, non ho dubbi che il sistema contrattuale rischia obiettivamente di fare acqua. La trasformazione in atto è molto forte. Bisogna trovare un punto d’equilibrio. La mia opinione, condivisa anche dalla Cisl, è che i contratti nazionali vanno ripensati e rifatti anche in termini di allargamento. Per esempio, al settore dei servizi, non solo dell’industria. Penso alla liberalizzazione e alla privatizzazione del le municipalizzate che è appena agli inizi e sarà una rivoluzione. Allora la scelta di contratti nazionali volti a stabilire la tutela dei minimi serve a stabilire una regola generale contro la 3 tendenza diffusa a procedere per deroghe. Garantite le regole minime di riferimento, possiamo allora immaginare una contrattazione aziendale molto più spinta. Quando un contratto nazionale, come quello dei metalmeccanici, copre il 75 per cento complessivo del salario, non è attestato sui minimi ed è chiaro che diventa garanzia e peso allo stesso tempo. Quindi contratti nazionali minimi, contrattazione aziendale molto spinta legata alla produttività, ma non solo. Abbiamo infine a che fare col problema ulteriore della modifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. E evidente che le aziende tendono ad aprirsi e a chiudersi come fisarmoniche a seconda della musica che suonano i mercati. Tutto questo mi porta a concludere che bisogna rifare l’accordo del 23 luglio non perché non ha funzionato, ma per esaurito scopo sociale.
Pirani: A mio avviso la scelta di Confindustria va ricondotta non tanto a una scelta di campo consapevole quanto all’emergere nel paese di un blocco sociale omogeneo che vede al centro la piccola e media borghesia. In fondo, anche la stessa emarginazione delle grandi famiglie nella scelta del presidente di Confindustria, è il segno di questo cambiamento. Non che queste non contino più. Ma in qualche misura si è determinato nel paese un blocco sociale diverso, che rifiuta le regole e ha paura dell’Europa. Questo blocco sociale trova oggi una risposta politica nel Polo. Una delle novità della presidenza D’Amato è il passaggio da una concezione di Confindusiria che si faceva carico dell’interesse nazionale, attraverso un patto sociale con le Confederazioni sindacali, ad una visione più ristretta dei propri interessi particolari, funzionale al blocco sociale che si è determinato e al tipo di ideologia che lo anima. Per parte nostra credo che esista un problema di politica salariale che è stata finora funzionale alla scelta della politica dei redditi entro la cornice dell’accordo del 23 luglio. Ma oggi il ragionamento va fatto in uno scenario più vasto, quello dell’Europa. E in Europa i sistemi contrattuali sono basati perlopiù su un solo livello. Purtroppo, però, in Italia, il cosiddetto accordo di Natale ha evitato ogni innovazione contrattuale e tutti hanno convenuto che era meglio tener fermo il sistema che aveva dato una serie di risultati positivi. Il rifiuto da parte di Confindustria di generalizzare il secondo livello, impedisce un’operazione che in prospettiva dovremmo concludere. La possibilità di un contratto territoriale è legata alle dinamiche di produttività e di redditività. Il contratto nazionale, relativamente alle tutele salariali, può essere anche minimo, ma successivo alla contrattazione integrativa, laddove questa dovesse andare a coprire situazioni rimaste scoperte. In molte realtà settentrionali, come quella del Nord-Est, gran parte del salario è corrisposta al di fuori di ogni sistema contrattuale, perché c’è una condizione del mercato del lavoro tale da consentire questi fenomeni. Recuperare un nostro ruolo di autorità salariale credo che sia assolutamente positivo anche per la tonicità dell’organizzazione sindacale. Vi è poi da rivedere proprio la merceologia dei contratti concepiti in un’epoca molto diversa. I confini contrattuali tra categoria e categoria stanno cambiando e occorre pertanto rivedere anche i confini dei contratti nazionali.
Panzeri: Se dovessi, anche in maniera astratta, ridisegnare una struttura contrattuale, la immaginerei con un livello europeo, un livello nazionale per grandi aggregati merceologici e un livello decentrato, aziendale o territoriale. Se ci dovessimo soffermare solo agli aspetti relativi ai contratti nazionali di lavoro potrei dire che ormai questi vengono rinnovati con una sorta di scambio: si recupera l’inflazione dando in cambio le deroghe sul mercato del lavoro. Tutti i contratti nazionali vanno in quella direzione. Dobbiamo però dare risposte a due domande. La prima è se riteniamo ancora valido perseguire l’obiettivo della politica dei redditi, perché se 4 la risposta è affermativa significa che dobbiamo agire soprattutto sul versante della contrattazione aziendale territoriale, che dobbiamo potenziare. Se invece la risposta è – sen tendo ad esempio quello che diceva Pirani – in parte negativa, perché è presente in questo paese una questione salariale, allora porre il problema di una questione salariale in assenza di una politica dei redditi vincolante comporta due oggettive conseguenze. La prima è uno strappo, inevitabile, della struttura contrattuale. La seconda, è la necessità di stabilire a quale livello, aziendale o nazionale aprire una questione salariale. Il che comporta, di fatto, una revisione della struttura contrattuale. Venendo a Confindustria, non mi sento di dire che se D’Amato è più vicino al Polo ciò significa, di converso, che se vinceva Callieri era più vicino al centro sinistra. Come abbiamo detto all’inizio, il sistema delle imprese italiane vuole raggiungere una serie di obiettivi, fra cui una maggiore libertà da vincoli economici, legislativi o sindacali. Su questo si è cementato un blocco sociale che non consiste solo nell’alleanza fra gli imprenditori del Nord-Est e quelli napoletani. C’è anche un blocco sociale che ha comportamenti di natura politica ed elettorale, come il Nord insegna. Mentre la sinistra ha balbettato su questi problemi, o ha fatto proclami ai quali non sono seguite azioni concrete, la Destra, grazie anche alla posizione più facile di chi sta all’opposizione anziché al governo, riesce a interpretare meglio questi sentimenti diffusi nel sistema delle imprese. Non mi interessa fare un processo alle intenzioni: se D’Amato si è spostato a destra o meno. D’Amato interpreta i sentimenti più diffusi del sistema delle imprese che vuole quelle cose, e su questo poggia una proposta politica che corrisponde a quelle aspettative e a quei bisogni.
Vigevani: Veniamo ora alla questione dell’unità, che io pongo come un bisogno della poli tica, al di là degli schieramenti. Pochi mesi fa Pietro Larizza parlava di unità del sindacato e il suo successore, Angeletti, all’atto della sua nomina, si è espresso più o meno negli stessi termini dicendo che in assenza dell’unità, si cerchi almeno di conservare l’unità d’azione. Non voglio interferire nelle dinamiche interne della Uil. Ma ribadisco che la politica ha bisogno di un sindacato unito perché i sistemi politici tendono a darsi prerogative tanto più forti quanto meno la società è organizzata nella rappresentanza degli interessi. Io penso che la politica perda colpi e alla democrazia siano sottratti progressivamente ruolo e potere. Da anni è in corso un processo di finanziarizzazione che gli Stati nazionali non riescono a controllare: una preoccupazione che ha lambito persino un gigante come gli Stati Uniti.
Pirani: Non credo che possa affermarsi un’idea di concertazione e un modello riformista della nostra società se non vi è un forte soggetto sindacale unitario. Va decisamente scongiurata la tentazione, che riaffiora nel nostro paese, di creare un bipolarismo imperfetto attraverso due sindacati, uno di schieramento, ed uno contrapposto che si alternano a seconda di chi è al governo e all’opposizione. Oggi, tuttavia, non possiamo eludere un confronto di idee tra le organizzazioni sindacali. Il problema è di creare una cornice entro cui le idee sviluppano, affinché il confronto sia pro ficuo. Credo sia utile riproporre un patto di unità d’azione tra Cgil, Cisl e Uil, e stabilire regole comuni per gestire i consensi, ma anche il conflitto e il rapporto con i lavoratori. Dovremmo però affrontare e risolvere il problema della rappresentanza, che potrebbe trovare un quadro legislativo valido al di là degli interlocutori e delle volontà delle controparti o delle vicende politiche. Il terreno dell’unità sindacale, comunque, non va smarrito. Non condivido pertanto alcune posizioni estreme, emerse anche nella Uil, di rinuncia all’idea dell’importanza strategica del rapporto unitario. Ma anche nella Cisl c’è chi pensa a un sindacato di schieramento, allineato 5 con il Polo, provocando per contraccolpo le reazioni di una parte della Cgil, che è tentata così di “far da sola”, come ha detto Sabattini. Quest’idea del sindacato di schieramento è esattamente l’opposto di quel che occorre, ovvero un sindacato riformista, ancorato all’idea della concertazione e della partecipazione, che come tale richiede delle regole comuni e sicuramente un patto di unità nazionale. Che poi ciò sfoci in una vera e propria unità sindacale, questo resta ancora un auspicio.
Panzeri: Io dubito che la politica avverta il bisogno di unità sindacale. In generale, c’è ovviamente un bisogno strumentale del centrosinistra di avere un sindacato unito e un bisogno altrettanto strumentale del centro destra di averne uno diviso. Di unità sindacale, più che la politica ne ha bisogno il paese. Ma al di là delle retoriche e degli appelli, le divisioni sono concrete e non dobbiamo fare gli struzzi. Non condivido, perché è una contraddizione in ter mini, l’idea della Cisl di un’unità competitiva. L’unità o c’è o non c’è. Vedo invece una divisione oggettiva di cui non voglio attribuire la colpa a nessuno, nemmeno alla Cisl, perché probabilmente ci sono responsabilità anche della Cgil da questo punto di vista, che riguardano il rapporto complessivo delle confederazioni sindacali con la politica. Per quanto riguarda la Cgil, è assolutamente impensabile che si possa utilizzarla per ricostruire l’identità della sinistra. Così come non si può pensare di utilizzare la Cisl per dare smalto ad un centro politico che è in sofferenza. Poi ci sono divisioni concrete nel merito, riguardo ai temi dell’azionariato, delle pensioni, della democrazia economica, della flessibilità. Su quest’ultimo tema c’è molta divisione fra i sindacati. Ma io penso che vada affrontato senza reticenze. E mi preoccupo che quando se ne deve discutere in settori particolari come la pubblica amministrazione s’incontrano molte resistenze. Laddove invece quando si tratta di scaricare la flessibilità sulle giovani generazioni che devono entrare nel processo produttivo, tutto diventa più semplice. Per contribuire tutti a sciogliere le ambiguità dobbiamo necessariamente avviare un chiari mento strategico fra di noi mettendo all’ordine del giorno i temi che ci uniscono e quelli che ci dividono, tentando però di definirli, e di darci delle regole per impostare la discussione. La ricerca di convergenze è indispensabile perché non si può immaginare una lotta per il rinnovamento delle strutture economicosociali dell’Italia senza che il sindacato abbia un ruolo positivo e attivo in questo processo.
Baretta: Non mi sembra che la politica si sia accorta che avrebbe bisogno dell’unità sindacale. Comincio dal centro sinistra. La Cisl ha fatto uno strappo alla sua storia con Prodi e l’Ulivo, convinta che si dovesse combattere una battaglia strategica, non di schieramento partitico, ma in funzione di modelli sociali di riferimento. E lo ha fatto tirando per i capelli tutta l’organizzazione. Contemporaneamente, però, abbiamo detto anche che ci voleva l’unità sindacale perché altrimenti entravamo in una logica di schieramento. Il fatto che la Cisl sia corteggiata dal centrosinistra e dal Polo dovrebbe preoccupare, perché evidentemente nella sinistra e nel centro destra prevale più l’idea del sindacato di schieramento. Non sono convinto che la sinistra voglia un sindacato unito e la destra un sindacato diviso: la mia esperienza è che ciascuna delle due parti vuole un proprio sindacato di riferimento. Il fatto che la Cisl abbia detto inizialmente sì all’unità sindacale, assistendo poi alla progressiva crisi del centro sinistra e raccogliendo infine un no esplicito alla realizzazione dell’unità, ha avuto delle conseguenze tanto sulla validità strategica, quanto sull’attualità storica del progetto di unità sindacale. Quando la Cgil ha giocato la carta dell’unità a sinistra in modo così deciso, questo ha provocato sbandamenti nella Cisl. La convergenza fra Cofferati e Larizza al congresso di Torino ci ha messo in una situazione di oggettiva difficoltà. Beschi ricordava che il centro destra è stato capace di cogliere di più 6 alcune istanze sociali, in parte di retroguardia e in parte nuove. Ma lo stesso vale anche per il centrosinistra. Questo gioco complesso ha messo in luce non già un centro indistinto bensì il fatto che una parte della società non era ricollocabile in automatico e non aveva nemmeno più una rappresentanza politica. Molta di quella parte sociale sta tra i nostri iscritti e militanti. Molte persone che noi rappresentiamo oggi non hanno un riferimento politico: può la Cisl riempire questo buco? La risposta è no, ma il buco resta. E quando il blocco di sinistra si chiude in se stesso, la tentazione di trovare riferimenti o sponde diventa quasi irresistibile. Ma può la nostra autonomia, che vogliamo conservare fino in fondo, tagliarci fuori da tutti i giochi del quadro politico, da tutti i riferimenti, da tutte le sedi di interlocuzione vera? Noi non possiamo che essere collocati nella logica dell’innovazione, perché il sindacato non può che essere riformista. Ma se vogliamo stare con chi innova, ci accorgiamo che la nostra interlocuzione con la politica è dialettica e plurale.
Beschi: Una politica che vuoi tenere insieme sviluppo e coesione sociale non può che aver bisogno di un sindacato unitario. Non riesco a convincermi che un sindacato che si è diviso su tante questioni, la visione del mondo, i problemi internazionali, le questioni di democrazia, oggi si divida sull’azionariato o sul modello contrattuale. L’unità serve soprattutto al sindacato e ai lavoratori. Di fronte a cambiamenti epocali come la globalizzazione, le privatizzazioni e quant’altro, i lavoratori hanno ben chiaro che la sfida di Confindustria e del cambiamento in atto, si può reggere soltanto se c’è un sindacato unitario. Quando i lavoratori parlano del sindacato non si riferiscono specificamente alla Cgil, o alla Cisl e alla Uil, perché in questi anni, grazie anche a noi, hanno introiettato un sentimento che interpreta il sindacato come un elemento unitario di difesa e di tutela. Da una ricerca condotta in Lombardia è emerso che ci sono numerosissimi iscritti alla Cgil che politicamente sono schierati con il Polo, ma socialmente continuano a farsi rappresentare dal sindacato. È un paradosso che mette in evidenza anche una specificità nostra, di cui dobbiamo assumerci tutta la responsabilità.
Panzeri: Continuo a credere che la trasformazione del sistema politico in corso ,se non viene affrontata con un ragionamento che mette in valore l’unità, porterà tutti – Cgil, Cisl e Uil – in un pericoloso cono nel quale il rischio concreto è che ci sia una caduta di autonomia che spingerà inevitabilmente il sindacato ad assecondare passivamente i processi di trasformazione di questo sistema. Siamo di fronte a un sistema di relazioni industriali, intessuto negli ultimi trent’anni, che non regge senza un’unità del sindacato, perché questo è stato il centro con cui lo si è costruito. Gli accordi separati avranno anche una forte valenza politica, ma hanno una scarsissima efficacia pratica. Allora bisogna cambiare eventualmente le relazioni industriali. Sulla questione delle regole, continuo a credere che non siano indispensabili in una fase in cui l’unità avanza, perché è il processo di unificazione che le detta. Ma in una fase di grande frantumazione dobbiamo riuscire a regolare i conflitti che si determinano nell’azione sindacale attraverso meccanismi che diano garanzie di soluzione, per dare efficacia alle scelte che facciamo. Mi rendo conto che le difficoltà sono enormi, però io continuo a ritenere che siccome l’unità è per noi un valore e una necessità bisogna creare rapidamente sedi di discussione adeguate.
Vigevani: Vorrei ora raccogliere una vostra opinione sulla dimensione europea del sindacato. E sul peso che i sindacati nazionali hanno in quel tanto che c’è di organizzato nel sindacalismo europeo. 7
Baretta: Spesso noi facciamo trattative sovranazionali senza saperlo. Tutta la vertenza Telecom, ad esempio, è stata una trattativa condotta su parametri sovranazionali: è quindi sempre più evidente, anche al delegato, che il riferimento è sovranazionale e l’Europa è il primo livello. Le regole del gioco si stanno spostando, tutta la politica industriale ormai sì decide a Bruxelles. Ma il sindacato europeo è ad un tempo fortissimo e debolissimo. È molto forte per il suo altissimo numero di iscritti. Ma i modelli sindacali sono molto diversi e dì questo si discute poco, perché si vanno a toccare i poteri consolidati. È un po’ come la questione dell’unità sindacale trasferita su una scala più ampia. Per esempio, il modello prevalente è quello dei sindacati di mestiere, d’impronta anglosassone con un unico livello di contrattazione, che privilegia il sindacato locale. La seconda osservazione è che il sindacato europeo risente molto degli scossoni che sta subendo l’Europa, nel senso che più presto si fa l’allargamento dell’UE, meglio è anche per noi perché la caduta del Muro ha provocato, tra tante cose, anche l’aumento delle iscrizioni in molti sindacati dell’Est che non partecipavano alla vita attiva del sindacato europeo. Quanto ai contenuti, su scala europea sarebbe utile discutere su un concetto di garanzie minime, per trovare un punto di equilibrio che salvaguardi anche il libero gioco della contrattazione sul piano nazionale. Ma quanto siamo disposti noi sindacati nazionali a cedere poteri per far crescere quello del sindacato europeo?
Beschi: Il problema decisivo dei modelli è quello che ha portato fino a qualche anno fa il sindacato europeo a occuparsi esclusivamente della tutela dei diritti sociali, lasciando a ciascun paese il terreno della contrattazione. Ma le cose stanno cambiando. L’ultimo congresso della Confederazione sindacale europea (Ces) ha affrontato il problema e cercato di risolvere alcune questioni importanti. Fondato prevalentemente sulle categorie, il sindacato nord-europeo sta cercando di tenere assieme elementi confederali e elementi di categoria e avverte sempre più l’esigenza di una graduale cessione di titolarità sugli elementi contrattuali. Per rafforzare questa tendenza, possiamo usare intanto gli strumenti che già esistono, come i Comitati aziendali europei, ovvero quelle strutture sovranazionali di rappresentanza che, pur piene di contraddizioni, possono servire a dare attuazione alle prime politiche contrattuali su scala continentale. Il secondo strumento, poco utilizzato, è il cosiddetto dialogo sociale tra imprenditori e sindacati per avviare un confronto tra le parti sulle esigenze di trasformazione dei vari settori. Anch’io considero decisivo per l’accelerazione di questo processo l’allargamento dell’Europa comunitaria, non soltanto per la definizione degli elementi minimi di tutela sociale, ma anche perché i sindacati, tradizionalmente deboli, dei paesi dell’Est che entreranno nella UE, pretenderanno risposte dall’Europa e quindi chiederanno che la Ces si rafforzi. Naturalmente è una risposta che arriva molto più in ritardo di quelle che hanno già dato i grandi poteri economici, finanziari e industriali. Panzeri: Dubito che l’allargamento possa significare automaticamente una maggiore presenza di un sindacato europeo e una definizione di uno standard minimo dei diritti su scala europea. Lo si è visto, ad esempio, con la riunificazione della Germania. C’è una ragione sindacale del perché c’è bisogno di più Europa, e l’abbiamo individuata nell’esigenza di una maggiore contrattazione, di una più estesa tutela dei diritti e della necessità di colmare enormi ritardi sul versante sociale e sindacale. Ma c’è anche una ragione politica. Dal ’92 in avanti, abbiamo avuto in Italia un consistente risanamento economico e finanziario con il governo Amato, che è stato propedeutico per un lancio in grande stile di una campagna per l’Europa che nel ’96 ha prodotto i suoi frutti. Quell’impeto è andato scemando e oggi stanno prevalendo i particolarismi, nel campo econo mico come in quello sociale e istituzionale. 8 Non vorrei che l’idea di un federalismo necessario e responsabile, eclissasse la dimensione europea, essenziale invece anche per far vivere il federalismo. L’auspicio è che il tema del l’Europa ridiventi strategico, in alternativa al provincialismo politico che sta dilagando.
Pirani: È stata ricordata l’esperienza dei Comitati aziendali europei che introducono un concetto di contrattazione sovranazionale da far crescere. Ed è stata richiamata l’esigenza di definire, sul piano legislativo, un insieme di regole a garanzia dei diritti minimi per il mondo del lavoro. Ma io credo che oltre a questo vi sia una questione politica più generale da affrontare, che riguarda il modello di Europa che si vuole costruire. Perché non è affatto detto che quella in cantiere necessita automaticamente di un grande ruolo dell’organizzazione sindacale. Se pensiamo invece ad un’Europa sociale, che vede, ad esempio, nella concertazione uno degli strumenti caratterizzanti anche il modello di società europea che vogliamo costruire allora sì che si pone il problema di una dimensione sindacale adeguata al compito e quindi anche di rifondare la Ces che oggi è un organismo burocratico, che avrà anche qualche decina di milioni di iscritti, ma ha un peso politico molto scarso. Dovremmo insomma lanciare una battaglia politica e culturale su scala europea trovando le alleanze e gli interlocutori, poiché i sindacati non sono tutti uguali. Credo dunque che occorra costruire non solo l’asse Germania – Francia come qualcuno pensa ma anche un asse sindacale su un’idea forte di Europa sociale in cui il sindacato abbia un suo ruolo e vedendo anche quali sono le sedi di questo confronto. E non c’è dubbio che una di queste sedi è quella politica vera e propria: il parlamento europeo, le istituzioni e le forze politiche europee. 9