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IL PARTITO DEL NON VOTO – E le ragioni del voto alla destra della working class 

IL PARTITO DEL NON VOTO – E le ragioni del voto alla destra della working class 

di Renzo Penna

Le recenti elezioni regionali hanno confermato la tendenza degli italiani a ridurre la partecipazione al voto. Nelle politiche si è passati dal 93,4% del 1976 al 63,9% delle ultime elezioni, settembre 2022, quando si è registrato un calo di 9 punti sulle precedenti del 2018. Il peggior crollo di partecipazione nella storia repubblicana e tra i dieci maggiori nella storia europea dal 1945 a oggi. Una tendenza all’astensionismo, non solo italiana, che riguarda, soprattutto, le persone meno abbienti e una parte significativa dei giovani.

Nel nostro Paese, secondo l’Istat, un cittadino su quattro vive a rischio di povertà o esclusione sociale. Cioè 14 milioni e 300 mila persone nel 2022 vivevano in una famiglia a grave rischio di povertà, senza un lavoro, con un reddito medio inferiore al 60% di quello mediano, ossia 11.155 euro, cioè meno di 930 euro mensili a famiglia. Mentre gli italiani in povertà assoluta sono 5,6 milioni. [1]

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Bufarale: “IL PRIMO CENTROSINISTRA E LA DIREZIONE DELL’ “Avanti!” DI LOMBARDI”

IL PRIMO CENTROSINISTRA E LA DIREZIONE DELL’ “Avanti!” DI RICCARDO LOMBARDI

Luca BUFARALE*

 

«Da oggi ognuno è più libero»

«Da oggi ognuno è più libero»: così l’«Avanti!» annuncia il 6 dicembre 1963 la costituzione del primo governo italiano che, dopo la rottura tra la Dc e le sinistre del 1947, vede la partecipazione dei socialisti. L’occhiello del quotidiano del Psi rincara la dose: «I lavoratori rappresentati nel governo del paese».[1] Un trionfalismo forse eccessivo – si potrebbe dire ex post – ma che ben rappresenta le speranze suscitate dal centro-sinistra presso settori consistenti dell’opinione pubblica. Libertà ed eguaglianza: due aspirazioni che, come rimarca il titolo, vengono viste come inscindibili dai partiti della sinistra, almeno in questa fase storica. Il centro-sinistra sembra venire incontro ad entrambe. Se, ad esempio, le proposte di elaborare uno statuto dei diritti dei lavoratori e di modificare i codici di pubblica sicurezza sembrano aprire nuovi spazi di libertà dopo il clima repressivo degli anni Cinquanta, i progetti di riforma che toccano l’energia elettrica, la scuola, i contratti di mezzadria nelle campagne, le società per azioni, l’energia elettrica e i suoli urbani edificabili appaiono diretti ad una gestione più democratica di alcune risorse fondamentali, a contrastare alcuni assetti monopolistici dell’economia e a garantire maggiori possibilità alle fasce sociali meno abbienti.

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Penna: “Il Governo consegna la Sanità ai privati”

IL GOVERNO CONSEGNA LA SANITA’ AI PRIVATI

di Renzo Penna

La campagna strisciante volta a privatizzare la sanità pubblica, a vantaggio di imprenditori e assicurazioni e a danno dei cittadini, è in atto da tempo e negli ultimi anni sta registrando una forte accelerazione. Un indirizzo, quello del privato, già esplicitamente previsto nel Libro Verde sul welfare del ministro Sacconi durante il IV governo di Silvio Berlusconi (2008-2011). Ma è stata,  in particolare, la legge di “riordino” del 1992[1] che, introducendo il concetto di aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (USL) trasformate in Aziende Sanitarie Locali (ASL), ha modificato nel profondo gli indirizzi della riforma del 1978 e prodotto una dequalificazione delle risorse umane con una conseguente caduta di qualità ed efficacia. È così venuta meno una visione complessiva del SSN. La salute veniva sostanzialmente considerata un costo da governare con un presidio di iper-managerialità, in grado di controllare, secondo una funzione di tipo gerarchico-specialistico, lo sviluppo del sistema. In questa prospettiva si è perso di vista l’elemento della territorializzazione della gestione della salute, vissuto come un appesantimento della struttura sociale. Le ricadute di tale  scelta le abbiamo, di recente, misurate durante la pandemia da Covid-19.

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Ferrari: “Per una nuova alternativa socialista”

UN VECCHIO PROGETTO PER UNA NUOVA ALTERNATIVA DI SINISTRA

di Sergio FERRARI

Come è noto, l’Associazione Labour “R. Lombardi”, ha curato, con il dott. Bufarale come autore, la pubblicazione di un volume sulla vita politica di Riccardo Lombardi a partire dagli anni iniziali sino ai primi anni ‘60.  Gli anni successivi, il periodo che va dagli anni ’60 al 1984, rappresentano per il nostro paese un periodo storico che avrebbe portato alla seconda repubblica.
In quegli anni il PSI, nonché, ovviamente, il PCI e la DC, praticamente tutte le forze politiche, erano di fatto bloccate su una condizione di conservazione politica in coerenza con gli equilibri politici tra USA e URSSS.
Mentre sul piano economico si andava esaurendo la spinta keynesiana e si affermava la cultura liberista, in un contesto di progressiva e grave crisi economica nazionale e internazionale, Riccardo  Lombardi sviluppava la sua proposta di alternativa di sinistra, che non solo avrebbe dovuto dar seguito all’ormai esaurito  centro-sinistra, ma anche affrontare in termini strutturali e profondi la crisi sociale ed economica da tempo in atto nella società capitalistica.

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I contenuti del “quaderno di Labour” n. 12

Presentazione del “Quaderno di Labour” n. 12

Il dodicesimo “quaderno di labour” è diviso in due parti, con un documento in appendice.
– Nella prima, a venti anni dalla scomparsa di Fausto Vigevani,
si occupa del convegno promosso dall’Associazione Labour “R. Lombardi” e dalla CGIL nazionale che si è svolto, sabato 4 marzo 2023, presso la sala Mandela della Camera del Lavoro di Piacenza.
Titolo dell’iniziativa: “Fausto Vigevani – L’uomo, il sindacalista, il
politico. La sua storia, la nostra storia”.
Per la Camera del Lavoro ha coordinato gli interventi il responsabile dell’Ufficio Stampa Mattia Motta, mentre il Segretario Generale della CGIL di Piacenza Ivo Bussacchini ha introdotto i lavori e la Presidente del Consiglio Comunale Paola Gazzolo ha portato il saluto dell’Amministrazione.
A prendere per primo la parola è stato Carlo Pronti che ha ricordato l’amicizia con Vigevani iniziata al ginnasio e proseguita tutta la vita.

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Felice Besostri: l’Avvocato degli elettori

E’ mancato nei giorni scorsi il compagno Felice Besostri. Avvocato, giurista, docente universitario e senatore (dal 1996 al 2001). Riportiamo, di seguito,  il ricordo di Andrea Fabozzi, direttore del “manifesto”.

«Socialista austro-marxista. Dovrebbero presentarmi così nella candidatura, ragione per cui non mi candiderà più nessuno. In ogni caso stai tranquillo, saresti il primo a saperlo». Mi rispose così Felice Besostri quando diversi anni fa gli chiesi se fosse vero che gli avevano offerto un posto in lista non ricordo più in quale occasione. In effetti non lo candidò nessuno, il suo unico seggio è rimasto quello del senato nella XIII legislatura – in passato era stato anche sindaco di un comune in provincia di Lodi.

Ma nessuno poteva tenerlo lontano dalla passione politica e a conti fatti è riuscito ad avere un impatto sulla vita delle istituzioni assai più di tanti parlamentari e anche leader politici, restando attivo fino alla fine. Fino alla morte che lo ha colto a Milano nella notte tra venerdì e sabato, aveva 79 anni.

Besostri è stato tante cose, si è impegnato in mille battaglie consumando con grande generosità la sua salute e le sue sostanze. È stato innanzitutto un socialista e sono pronto a scommettere che sarebbe assai più dispiaciuto di non poter celebrare degnamente, nella prossima primavera, il centenario dell’omicidio di Giacomo Matteotti (anniversario per il quale aveva naturalmente già dei programmi) che il suo ottantesimo compleanno. Soprattutto è conosciuto per aver abbattuto – non da solo, ma da protagonista e instancabile animatore – la legge elettorale Porcellum. Con la quale sono state formate tre legislature, prima che nel 2013 la Corte costituzionale ne sancisse l’illegittimità.

Insieme per la Carta, ma non dimenticate la legge elettorale

Grazie al ricorso che Felice aveva testardamente portato avanti (insieme all’avvocato Bozzi): ci vollero cinque tentativi e sei anni di rimpalli tra diverse Corti e Tribunali. Alla fine si riuscì ad affermare il principio che le leggi elettorali possono essere portate davanti ai giudici delle leggi per iniziativa dei cittadini, principio forse persino più importante della pronuncia di incostituzionalità. Tant’è che aprì la strada a un’altra campagna contro una legge elettorale, quattro anni dopo.

Besostri infatti poteva vantarsi di aver abbattuto ben due sistemi di voto, non solo quello di Calderoli ma anche quello di Renzi, l’Italicum, sempre con la tecnica del ricorso nei tribunali ordinari a difesa della libertà e uguaglianza del voto dei cittadini. Una volta gli dissi che era lui il vero avvocato del popolo, non certo Conte, visto che era riuscito ad affermare davanti alla Corte costituzionale i diritti degli elettori, lui mi rispose con un aforisma: «Proprio perché sto dalla parte del popolo non gli posso perdonare tutto quello che fa».

In parlamento, nella commissione affari costituzionali del senato, si era battuto per i diritti delle minoranze linguistiche, ma questo non gli impediva di denunciare il trattamento di favore che alcune minoranze si videro riconosciute (per agguantare il voto decisivo dei rappresentanti in parlamento) in due o tre leggi elettorali. Anche l’attuale legge, il Rosatellum, a suo giudizio per questa e altre ragioni è incostituzionale e il suo grande cruccio era di non essere riuscito a sollevare un’ondata di ricorsi uguale a quella che era riuscita a colpire le leggi precedenti.

Non si può fare affidamento sul Rosatellum

Lamentava la scarsa attenzione anche da parte dei partiti di opposizione: «O riusciamo a portare avanti i ricorsi o i partiti di loro iniziativa non si muoveranno mai per cambiare la legge, conviene a troppi». Soprattutto conviene a chi può compilare le liste bloccate. Per questo Felice spandeva e spendeva, non solo nel preparare sempre nuovi ricorsi pro bono ma anche pagando di suo per presentarli. In qualche occasione da soccombente è stato anche condannato a pagare le spese, cosa che ha dovuto fare di persona, credo sia stato in occasione del ricorso contro la legge elettorale italiana per le europee che continua a prevedere un’irragionevole soglia di sbarramento.

Felice era un compagno e amico del manifesto che considerava il suo giornale, è venuto in più occasioni a trovarci per rinnovare l’abbonamento, le volte in cui ha scritto per noi sono infinitamente meno di quelle in cui avrebbe voluto farlo, ansioso com’era di intervenire su quasi tutto, dalle guerre alla situazione politica negli altri paesi europei (soprattutto in Germania) dei quali conosceva a perfezione i sistemi elettorali.

È stato sempre una fonte di ottimi suggerimenti, si trattasse di una sentenza della Corte costituzionale o di una trattoria anarchica la cui storia valeva la pena raccontare. Insostituibile, Felice Besostri ci mancherà molto. Lo abbiamo sentito ancora mercoledì, quando i medici avevano già deciso di interrompere le cure per la malattia e lui con pochissima voce continuava a darci appuntamento per una prossima battaglia da ingaggiare.

Militante fino alla fine, ha conservato fino in fondo la sua ironia tanto da aver scelto per tempo il servizio funebre preferendo una ditta che porta il cognome di un leader socialista e ha la sede in una strada di Milano dedicata a un antifascista. Lascia la moglie Anne Marie, le figlie Beatrice e Nathalie, i nipoti Mario, Pietro, Sofia, Laurent e Federica, la sorella Renata e il fratello Carlo Alberto, A tutte e tutti loro il manifesto è vicino

Andrea Fabozzi

 

Giacomo Brodolini: il ministro che sfidò la morte

 

 

 

 

 

A meno che non si possa far ricorso a guerre, rivoluzioni e altri eventi grandiosi o catastrofici, è difficilissimo portare sullo schermo (o sulle pagine di un romanzo) la vita di un uomo politico, che consiste per la maggior parte di riunioni, telefonate, spostamenti, e ancora riunioni in cui gli stessi discorsi vengono tessuti e ritessuti all’infinito. Nemmeno l’oratoria può arrivare in soccorso come una volta: non siamo più ai tempi di Tucidide, e nelle democrazie moderne il divario tra le parole e le loro conseguenze concrete è sempre più sfuggente ed opinabile. È necessario trovare degli schemi narrativi efficaci, vale a dire delle situazioni, limitate nel tempo e nello spazio, in cui, per così dire, tutti i nodi vengono al pettine. Bisogna insomma rintracciare e rappresentare quei particolari momenti di intensità che sono capaci di rivelare il senso profondo di un’intera vita pubblica. Sono riusciti egregiamente in questa impresa Giancarlo Governi e Marco Perisse, autori di un trattamento cinematografico intitolato «Non ho tempo», e dedicato a Giacomo Brodolini, dirigente sindacale, parlamentare socialista e ministro del lavoro, nato a Recanati nel 1920 e morto in una clinica di Zurigo a soli 49 anni, l’11 luglio del 1969. Spero proprio che il film (prodotto da Gianpaolo Sodano) vada in porto nel migliore dei modi: come cercherò di spiegare racconta una storia davvero interessante, e non solo per i suoi ovvi risvolti politici e sociali.

Con gli operai

Nei libri di storia e nelle enciclopedie Brodolini è il ministro che concepì (con la collaborazione fondamentale del giurista Gino Giugni) e impose alla sua stessa maggioranza di governo lo Statuto dei Lavoratori, finalmente convertito in legge, la famosa legge 300, nel maggio del 1970. Viene spesso ricordato anche il capodanno del 1968 passato assieme agli operai della Apollon in sciopero, in un tendone eretto a via Veneto: un fatto che all’epoca destò scandalo, così come la sua solidarietà ai braccianti siciliani di Avola, che lottavano contro il caporalato e le famigerate gabbie salariali. E non può essere dimenticata la sua lucidissima, intransigente protesta, quando era ai vertici della Cgil, contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, in netto contrasto con la filosofia che vedeva nei sindacati una semplice «cinghia di trasmissione» degli orientamenti e delle decisioni dei partiti. Di lui si può dire che il suo slogan più celebre («Da una parte sola. Dalla parte dei lavoratori») fu tutt’altro che uno slogan, ma un destino, una questione di vita e di morte.

Il ruolo voluto

Tra le tante fotografie che si trovano facilmente in internet, mi piace soprattutto una che lo ritrae a Recanati, nell’immediato dopoguerra, in compagnia di Joyce Lussu, in occasione di un comizio elettorale, con l’eterna (e fatale) sigaretta in bocca: una specie di Jean Gabin sindacale, non bello ma sicuramente affascinante. Ne ho anche un ricordo privato, che fatalmente si mischia alle notizie pubbliche: Giacomo Brodolini era mio zio, e in famiglia su quell’uomo testardo e proteso all’avvenire circolavano molte leggende. Ma leggendo il lavoro di Governi e Perisse, la storia di zio Giacomo mi è apparsa in una luce totalmente diversa, e talmente commovente che voglio provare anche io a raccontarla per quello che è stata: una sfida alla morte, un appuntamento con il Fato che, al di là dei suoi significati storici e politici, ha un sapore antico, che non esito a definire eroico. Se dovessi indicare un epicentro, o meglio un fulcro di tutta la vicenda, sceglierei lo studio di un medico, a Roma, nell’autunno del 1968. Uno di fronte all’altro, stanno il paziente, che è Giacomo Brodolini, da pochi mesi eletto senatore nelle file del PSU, e il medico, di cui non conosco il nome, e che ha pessime notizie: le peggiori che si possano dare a un paziente. Brodolini ha un tumore ai polmoni, con metastasi arrivate alla gola. La sentenza è inappellabile: gli rimangono pochi mesi di vita. È una scena terribile, che si ripete ogni giorno, ogni ora in ogni angolo del mondo: ma questo non toglie nulla alla sua unicità, perché ogni essere umano reagisce a modo suo di fronte agli eventi supremi.

Immagino il giovane senatore (a luglio aveva compiuto quarantotto anni) che, uscito dallo studio del medico, vaga stordito per le strade di Roma, forse già addobbata per le feste di quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Sicuramente pensò a quanto poco fosse il tempo che gli restava: mesi, settimane ? Ma assieme a quel pensiero, deve pure essercene stato un altro, che non smentiva il primo, ma gli dava un altro senso: era ancora vivo, come tutta la gente intorno a lui, e nessuno dei suoi simili avrebbe potuto prevedere con certezza quanto tempo gli restasse. Bisogna anche sapere che erano giorni molto intensi e agitati, nel mondo politico: si lavorava alla formazione di un governo di centrosinistra, il cui presidente sarebbe stato Mariano Rumor. Ai socialisti spettavano alcuni ministeri importanti, e uno di questi sarebbe facilmente andato a Brodolini. Ma lui, in quelle ore terribili, aveva fatto la sua scelta, e la impose ai compagni di partito, a partire dal segretario socialista, Francesco De Martino. Volle un ruolo che, almeno sulla carta, era meno importante di altri che gli venivano offerti: e il 12 dicembre del 1968 divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale. Era la posizione che gli avrebbe consentito, nel poco tempo che gli rimaneva, di portare a termine il compito
che si era assunto fin da giovanissimo, quando arrivò a Roma a dirigere il sindacato dei lavoratori edili. Ed era l’occasione, più unica che rara, di conferire un senso a un’intera vita. Ogni giorno che passava, a quel punto, era prezioso.
Sono queste le condizioni drammatiche in cui fu concepito, scritto e infine convertito in legge lo Statuto dei Lavoratori.

L’ultimo gesto

Oggi possiamo affermare che lo Statuto dei Lavoratori mise l’Italia all’avanguardia della vita civile e sociale in Europa e nel mondo. Ma in quei sei mesi che per Brodolini furono un terribile conto alla rovescia, nemmeno gli alleati di governo, nemmeno i comunisti si erano resi pienamente conto dell’importanza della posta in gioco, che era quella di tradurre in una legge, con tutti i suoi articoli limpidamente espressi, lo splendido articolo 1 della nostra Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica «fondata sul lavoro».
Ma cosa significa, in pratica? I princìpi sono sacrosanti, ma vanno riempiti di contenuti effettivi: nel caso specifico, di diritti, imperniati sulla dignità dei lavoratori. In quest’ultima battaglia trascorsero gli ultimi sei mesi della vita di Giacomo Brodolini. Morì l’11 luglio del 1969, in una clinica di Zurigo dove si era ricoverato per tentare un ultimo intervento chirurgico. Una fotografia lo ritrae all’ingresso della clinica, con qualche leggero bagaglio sulla spalla e ancora una sigaretta che pende dalla bocca.

L’ultimo gesto che fece fu firmare lo Statuto. Quando penso alla storia di mio zio mi viene sempre in mente il tempo: l’uso che ne facciamo, la quantità che pensiamo di avere a disposizione. Ho ormai superato di molto l’età raggiunta da Brodolini, ma ancora continuo a perderlo, a rimandare i compiti importanti che pure mi sono assegnato. Non me ne faccio nemmeno una colpa: ognuno vive come sa vivere, e non può diventare un altro. Ma l’idea di quei sei mesi finali e della marcia a tappe forzate che condusse allo Statuto dei Lavoratori mi sembra un simbolo così luminoso dell’esistenza umana che vorrei che tutti lo conoscessero, nella sua grandiosa semplicità. Si dice sempre che la politica e i fatti privati dovrebbero essere due sfere il più possibile distinte, e forse in
generale è vero, ma questo mi sembra un caso assolutamente virtuoso di coincidenza tra le condizioni personali e la vita pubblica. Tante cose su Giacomo Brodolini le ho apprese da sua moglie, Vera, che gli è sopravvissuta a lungo curando la sua memoria.

Era un uomo colto, fiero di essere un concittadino e un omonimo di Giacomo Leopardi. Amava la pittura italiana moderna, e i libri rari. Mia zia mi ha regato un cimelio che conservo sulla mia scrivania, usandolo come fermacarte. È una pesante medaglia di bronzo, in bello stile modernista, che gli fu donata da un sindacato di metalmeccanici americani, da quello che capisco una specie di FIOM d’oltreoceano. Sul retro c’è scritto: con le mani costruiamo automobili, aerei e strumenti agricoli, e con il cuore costruiamo un futuro migliore. I tempi sono talmente cambiati che non so immaginare cosa avrebbe pensato oggi Giacomo Brodolini di tante cose che accadono, e attribuire opinioni ai morti mi è sempre sembrato un gioco macabro e insensato. Ma di una cosa sono sicuro: l’unione dell’abilità delle mani e della lungimiranza del cuore è un’immagine del bene che va a tutti i costi preservata e tramandata.

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Tronti: “Stato sociale e pieno impiego tra costituzione ed economia”

Stato sociale e pieno impiego tra costituzione ed economia

di Leonello Tronti

Sintesi

L’articolo tratta in modo sintetico l’evoluzione del concetto di stato sociale, e il suo legame con la crescita economica e la piena occupazione, lungo un percorso complesso che dura oltre un secolo, dal lavoro di Adolf Wagner (1878) alle proposte di James Meade (1989, 1995). La panoramica si concentra sui legami teorici dei primi esperimenti dello stato sociale con il fondamento dell’economia del benessere (Pigou, 1920), l’istituzione del concetto di capitale umano (Knight, 1944; Schultz, 1961) e la sistematizzazione del disegno dello stato sociale offerta da Beveridge (1942). Negli stessi anni, l’obiettivo della piena occupazione è affermato come realizzabile e opportuno (Keynes, 1936; Beveridge, 1944; Roosevelt, 1945), mentre la Costituzione italiana (1948) ne propone un importante avanzamento, affermando la piena occupazione come libertà sostanziale. Con la fine degli accordi di Bretton Woods (1971) e gli shock petroliferi (1973, 1979) la stagflazione si diffonde alle economie sviluppate, e sia lo stato sociale che la piena occupazione subiscono una battuta d’arresto. La legge di Wagner trova un’espressione più evoluta nella curva di Laffer (1974), mentre la politica monetaria diventa restrittiva e la piena occupazione deve cedere il passo al Nairu (Modigliani e Papademos, 1975; Tobin, 1980). È questo il clima in cui Meade propone un nuovo e vitale legame tra lo stato sociale e la piena occupazione: una proposta in cui l’azionariato dei lavoratori si combina con le “nazionalizzazioni alla rovescia” (topsy-turvy), e il dividendo sociale con il credito pubblico (anziché il debito), in una prospettiva di graduale dissolvimento dell’imposizione fiscale. Una proposta decisamente fuori dagli schemi, ma su cui vale la pena riflettere  a fondo.

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Salario minimo e lavoro povero

Di Leonello Tronti – 27 novembre 2023 (eguaglianzaeliberta.it)

Dal 2011 la perdita di potere d’acquisto per l’insieme delle retribuzioni è stata dell’8,3%, caso unico nell’eurozona. Tra il 2005 e il 2021 i lavoratori poveri sono cresciuti dall’8,7 all’11,6% degli occupati, mentre le famiglie in povertà assoluta sono passate dal 3,3 al 9,4% della popolazione; quasi 5 milioni sono i lavoratori a termine o in part-time involontario. Nel frattempo l’andamento dell’economia non è affatto migliorato. Le mobilitazioni sindacali di questi giorni hanno ragioni da vendere ed è bene che la politica se ne renda finalmente conto.

Perché tante imprese, il governo e il Cnel sono contrari all’introduzione in Italia di un salario minimo? Davvero non c’è in Italia un problema di bassi salari? E davvero la remunerazione dei lavoratori non ha nulla a che fare con la crescita asfittica dell’economia?

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In memoria di Salvatore Biasco

In memoria di Salvatore Biasco

Pubblicato da keynesblog il 13 novembre 2023

Ad un anno dalla scomparsa di Salvatore Biasco, economista allievo di Paolo Sylos Labini, Maurice Dobb, Nicholas Kaldor e Hyman Minsky, la rivista Moneta e Credito ha pubblicato uno speciale in memoriam per ricordare il suo lavoro.

Come sottolineato da D’Ippoliti e Roncaglia nell’introduzione “I molteplici contributi di Biasco hanno spaziato dall’economia internazionale alla finanza, passando per l’impegno politico in prima persona. Il lavoro di Biasco ha sempre sottolineato il ruolo centrale della politica economica ma anche la sua natura endogena. In contrasto con le teorie dominanti che attribuiscono le fluttuazioni economiche e le crisi a fattori esterni, Biasco considerava problematica l’idea di un equilibrio stabile di mercato. Il lavoro di Biasco ha gettato luce sull’importante impatto delle variabili finanziarie su quelle reali, ad esempio con articoli sull’endogenità dei cicli valutari e sull’importanza dei flussi lordi di capitali nel sistema monetario internazionale.”

Sui cicli valutari rimandiamo in particolare al contributo di Daniela Palma, pubblicando di seguito l’abstract:

Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”

Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
Link all’articolo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/article/view/18283

L’intero numero è liberamente consultabile all’indirizzo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/issue/view/1663