Relazione al 2° Congresso nazionale della CGIL – Genova, ottobre 1949

Fernando Santi fu tra i promotori del “piano del lavoro” elaborato dalla CGIL nel 1949. La relazione che egli tenne al congresso di Genova a illustrazione del piano è esemplare per quanto riguarda il suo modo di concepire la funzione del sindacato da un punto di vista socialista in un paese gravato di mille squilibri e contraddizioni avviato a modernità.

“Io devo parlarvi delle riforme di struttura.
La proposizione non è certo nuova a voi né a tutti coloro che portano un qualche interesse alla vita economica sociale e politica italiana. Direi anzi che questa proposizione è ormai popolare nel senso che è entrata nel discorso comune al punto che i nostri avversari la qualificano uno slogan che per effetto di una ripetuta educazione meccanica della memoria diviene familiare a chi l’ascolta o a chi la legge, senza per altro che egli si renda conto del suo reale e preciso significato. La verità è un’altra. La verità è che la storia della evoluzione del concetto delle riforme di struttura è la storia stessa della evoluzione politica del nostro Paese. Dapprima fu dottrina elaborata da una ristretta cerchia di economisti, di sociologi, di politici. Poi fu bagaglio ideologico dei partiti che hanno come programma un profondo rinnovamento della vita sociale del paese, la costruzione di una società basata sui principi di giustizia sociale.
Fu, quattro anni or sono, una aspirazione sia pur vaga ed indistinta delle nostre masse popolari. Ora è consapevole, cosciente esigenza della parte più progredita del popolo italiano.
All’indomani della Liberazione infatti le riforme di struttura apparvero al mondo degli uomini in buona fede più che una esigenza di carattere economico e sociale, una esigenza rispondente ad un criterio di astratta morale, di vaga giustizia riparatrice.
Quale era la situazione allora?
La borghesia responsabile del fascismo e del disastro nazionale usciva dalla guerra umiliata e condannata. Di fronte ad essa la classe lavoratrice levava alto lo scudo della sua nobiltà: l’opposizione tenace, senza concessione alcuna, al fascismo sin dal suo primo sorgere; il sacrificio di migliaia e migliaia di lavoratori, di dirigenti sindacali e politici che avevano popolato le isole di confino e le carceri o si erano incamminati per i sentieri amari ed inospiti dell’esilio; l’epopea partigiana infine, questa ventata sanguinosa e liberatrice passata sul nostro paese.
Era quindi giusto, a molti appariva giusto, che i colpevoli delle sciagure e del sangue pagassero e pagassero anche con le loro fortune cosi spesso mal accumulate. Eppoi era veramente in molti, se non in tutti, l’ansia di volgere le spalle al mondo del passato per camminare verso un mondo nuovo nel quale fossero assicurati il pane, la libertà e la giustizia sociale per tutti.
In quali termini si pone ora il problema delle riforme di struttura nel nostro Paese? In quali termini noi parliamo oggi di queste riforme?
Le riforme di struttura oggi non sono più una aspirazione vaga ed indistinta. Sono una esigenza di progresso economico e quindi sociale, una necessità vitale del popolo italiano, una nuova impostazione dello sviluppo dell’economia non nell’interesse del profitto privato ma nell’interesse della collettività, il solo che conti, il solo che deve contare.

È necessario riformare la struttura economica esistente se noi vogliamo vivere. È necessario riformare questa struttura se vogliamo difendere la democrazia e rendere sicura la pace perché ad ogni momento la struttura economica non risponde più agli interessi vitali della società, diventa un ostacolo al progredire delle forze produttrici e la società non evolve più, ristagna. Non dà più benessere ma crisi e miseria, non dà più pace ma guerra e sciagure.
È chiaro dunque che se noi vogliamo che il nostro paese progredisca, se noi vogliamo che la nostra economia si sviluppi, se noi vogliamo scuoterci di dosso la miseria secolare che ci opprime, è necessario altrettanto che qui da noi, in Italia, si riformino le vecchie strutture insufficienti a garantire al popolo italiano il lavoro, la pace, la libertà.
Perché, qualcuno giustamente si domanderà, perché non sono ancora state realizzate queste riforme di struttura nel nostro paese, che è l’unico paese d’Europa che in questo dopo guerra non ha portato la minima sostanziale modifica alla propria economia, che non ha attuato nessuna nazionalizzazione?
Perché, qualcuno può continuare a domandarsi, queste riforme di cui ci parlate con così grande impegno al secondo Congresso unitario della CGIL non sono state realizzate immediatamente dopo la Liberazione, quando l’animo della più gran parte degli italiani era aperto verso nuove ed audaci forme di organizzazione politico-sociale?
Non dobbiamo dimenticare la situazione del nostro paese all’indomani del 25 aprile. Immensi compiti di ricostruzione erano davanti al popolo italiano: ricostruzione degli spiriti, educazione degli italiani a nuovi concetti di convivenza sociale, quelli della democrazia politica e della libertà.
Abbiamo dovuto in primo luogo far porre salde radici nelle coscienze a questi nuovi concetti ed abbiamo dovuto lottare per mutare la forma istituzionale dello Stato per eliminare una delle forze attorno alla quale più agevolmente potevano fare coalizione quelle della conservazione e della reazione.
Per quanto riguarda la CGIL vi è stata l’azione contingente, di tutti i giorni, diretta ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni elementari, urgenti dei lavoratori. Un’altra e tutt’altro che trascurabile cosa vi è stata ancora: l’occupazione militare del paese da parte di eserciti di paesi la cui struttura è una struttura capitalistica.
Ma io voglio dire ancora qualcosa d’altro e di più. Voglio dire che la esigenza di queste riforme non era chiara e matura in ognuno di noi e voglio dire che le riforme che si realizzano e che incidono nel profondo sono quelle che sorgono radicate nella nostra coscienza, nella nostra consapevolezza e che sono soprattutto il frutto della nostra lotta e del nostro sacrificio.
Tuttavia noi siamo riusciti ad ottenere un risultato positivo, quello di inserire nella Costituzione Repubblicana i principi ispiratori delle riforme di struttura.
Indubbiamente questo è stato un gran passo in avanti. Dipende ora da noi realizzare quanto la Costituzione ha accolto, dipende da noi fare in modo che i principi sanciti non rimangano inerti nelle pagine del Gran Libro e su di essi cada la polvere del tempo e dell’oblio ma diventino realtà concreta, forme nuove di organizzazione della nostra società italiana, sangue vivo che circoli nelle vene della Nazione e la risollevi e la guarisca dai suoi mali.
Ma prima di continuare io voglio rispondere ad un’altra domanda che sorge legittima e spontanea. Perché da due anni le riforme di struttura da pura proposizione teorica, da aspirazione indistinta, sono diventate esigenza concreta, sono diventate cioè mature?
Perché l’involuzione che da due anni sta subendo la vita democratica del nostro paese apre gli occhi a chiunque voglia vedere soltanto un poco di luce e dimostra che se vogliamo difendere il nostro salario ed insieme le nostre conquiste e le nostre libertà, è necessario incidere nel profondo della struttura economica e sociale dei paese.
Noi esercitiamo sulla struttura capitalistica, attraverso le conquiste realizzate, una pressione tale che questa struttura è portata a reagire violentemente contro di noi, uscendo dal terreno della legalità democratica. Noi invece intendiamo difendere e migliorare il tenore di vita dei lavoratori italiani e le libertà repubblicane e democratiche, ed esigiamo che la presente struttura sociale si adegui alle necessità del popolo italiano e si muti per raccoglierle e garantirle.
In regime di economia privata ogni attività economica è promossa e regolata dal profitto. Il capitale tenta la via del profitto, la più facile, vale a dire la compressione dei costi attraverso la riduzione del salario e degli oneri sociali e cosi toglie il principale sano stimolo economico allo sviluppo produttivo perché di conseguenza ci consegua un mercato anemico, di sottoconsumo. Ma oltre queste conseguenze di carattere economico altre ben più gravi noi vediamo profilarsi. Gli uomini del profitto hanno necessità di creare condizioni ideali per la realizzazione dei loro propositi, per assicurare la difesa delle loro posizioni di privilegio.
Quali sono queste condizioni ideali? La messa fuori combattimento della classe lavoratrice per assicurarsi l’incontrastato dominio politico e sociale.
La lotta quindi contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, l’insidia della divisione e del tradimento, l’asservimento dei pubblici poteri, la mobilitazione di tutte le forze della conservazione, dalle leggi che rappresentano sempre la cristallizzazione sul piano giuridico di una fase dei rapporti sociali, alle armi spirituali ecc. ecc.
Il fascismo è stato l’ultimo tentativo della borghesia italiana di rinviare la soluzione dei problemi sociali posti in modo confuso dal popolo italiano nell’immediato dopoguerra 1914-1918. Possiamo ben dire che oggi, a quattro anni dalla Liberazione, il nostro Paese si trova nelle stesse difficoltà lasciate dal fascismo negli ultimi anni della sua esistenza. I nodi sono venuti rapidamente al pettine e mai come ora i problemi della libertà della pace e del rinnovamento sociale sono insieme così profondamente uniti.
Oggi però vi è questo di profondamente mutato. Noi siamo in grado di lottare efficacemente perché oggi la classe lavoratrice è ricca di esperienze, più forte più unita e più cosciente di prima, sicuramente guidata dai suoi organismi politici e sindacali ed ogni tentativo di risolvere contro di noi le paurose contraddizioni interne del capitalismo sarà da noi rigettato con estremo coraggio e con estrema decisione.
La struttura economica italiana è oggi un miscuglio di monopolismo e di feudalismo.
Monopolismo che prevale nel settore industriale e finanziario, feudalismo nel settore agricolo.
Cosa determina tutto questo?
Determina, ad esempio, che i concimi chimici prodotti quasi esclusivamente dalla Montecatini vengono venduti al più alto prezzo di monopolio, mentre l’agricoltura italiana non è in grado di acquistare il fabbisogno necessario e pertanto consuma concimi chimici in misura inferiore a tutti i paesi d’Europa.
Il settore metalmeccanico è in crisi con conseguente parziale utilizzazione degli impianti e disoccupazione delle maestranze, mentre vi è un fabbisogno enorme di macchine agricole che i contadini piccoli e medi non possono acquistare perché troppo care.
D’altra parte nel settore agricolo il grande agrario assenteista mantiene i terreni in condizioni di abbandono con grave permanente disoccupazione del bracciantato, perché non reinveste la rendita agraria nelle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria.
Tutto questo per effetto della legge inesorabile del profitto.
Dove vi è minor impiego di capitale abbiamo la rendita fondiaria più alta. Mentre nella Valle Padana essa si aggira attorno al 10 %, in Sardegna sale fino al 24-25%. Ma nella Valle Padana gli agrari hanno avuto ed hanno costante il pungolo della pressione dei braccianti (imponibile di mano d’opera) per continui lavori di miglioria.
Qui la rendita è più reinvestita ed abbiamo per conseguenza l’agricoltura più progredita d’Europa.
In Sardegna non abbiamo il fattore sociale emiliano e la rendita non viene reinvestita pur giungendo per i terreni a pascolo alla punta altissima del 24-25%.
Ma nei pascoli non abbiamo nemmeno una giornata di lavoro di un bracciante.
Nello stesso settore commerciale, data la struttura del mercato italiano, si verifica la caduta dei prezzi agricoli alla produzione: vino, carni, ecc. mentre le quantità immesse al consumo sono inferiori al fabbisogno e i prezzi non diminuiscono. In queste condizioni si accentua lo squilibrio degli scambi fra città e campagna. La campagna vende alla città prodotti alimentari per un valore assai inferiore di quanto è obbligata ad acquistare di prodotti industriali.
Questo spiega la miseria delle nostre campagne e le condizioni critiche della piccola e media proprietà terriera, nonché le tragiche condizioni dei braccianti.
Quelli che ho citati sono alcuni esempi delle paurose contraddizioni cui la presente struttura economica dà luogo e questo avviene perché il carattere monopolistico delle attività produttrici determina la formazione dei prezzi.
Non si fa il prezzo sulla base dei costi. Si fa il prezzo sulla possibile vendita. E si regola la vendita, cioè la produzione, secondo il principio: massimo profitto, minima produzione.
Cosa fare in questa situazione?
Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale. Noi ci rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi e nelle cose che sono al di fuori di noi.
Noi non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio movimento operaio organizzato.
Partendo da un punto di vista realistico, obiettivo, noi consideriamo che vi sono tre settori principali, i più critici della vita economica del paese nei quali occorre urgentemente operare:
il settore dell’elettricità, il settore dell’agricoltura e il settore del credito, quale strumento per l’attuazione di una politica economica coordinata attraverso il controllo degli investimenti.
La situazione nel settore elettrico è grave; parlo a degli organizzatori sindacali per i quali questo problema è un problema di tutti i giorni. Abbiamo un deficit annuo nella produzione di circa 7 miliardi di Kwh dovuto alla deficienza di impianti.
La siccità è un fattore stagionale passeggero che può acuire una situazione di carenza, ma non la determina.
I gruppi monopolistici per costruire gli impianti necessari chiedono aumenti di tariffe per assicurare al capitale il profitto che stimano necessario. Un aumento di tariffe d’altra parte provocherebbe un aggravio generale dei costi proprio nel momento nel quale per le esigenze del mercato interno delle esportazioni l’economia italiana dovrebbe fare ogni sforzo per ridurli.
In realtà le imprese elettriche monopolistiche sono decise a trasformare in uno strumento di lotta capitalistica la voluta carenza di energia. Pertanto non costruiscono o costruiscono a rilento le centrali indispensabili alla vita delle nostre industrie per mantenere uno stato permanente di carenza che faciliti loro l’aumento delle tariffe, ben sapendo che questo non è il fattore che potrà risolvere il problema.
Come riescono a bilanciare l’offerta con la domanda?
Aumentando i prezzi in modo che diminuisca la richiesta. Le tariffe sono 24 volte quelle di anteguerra, ma solo nominalmente. In effetti gli introiti delle società elettriche sono almeno 40-45 volte quelli di anteguerra, perché la politica di vendita delle società elettriche è stata volutamente spostata, contrariamente all’interesse nazionale e quindi dei lavoratori, dalle cosiddette utenze povere (le utenze industriali), alle utenze ricche (elettrodomestici, illuminazione, ecc.).
Gli utili delle società elettriche sono notevoli e le tariffe, secondo il pensiero di tutti i tecnici, anche nella misura di 24 volte l’anteguerra sono altamente remunerative perché si riferiscono per gran parte ad impianti già completamente ammortizzati.
I bilanci delle società elettriche non possono essere un indice obbiettivo del profitto che le società stesse traggono dall’esercizio della loro attività.
Noi sappiamo ormai che vi è tutta una tecnica sperimentata per l’occultamento degli utili, occultamento che si fa particolarmente attraverso le cosiddette società distributrici che sono affiliazioni di comodo.
Per cui si riscontra che in un certo periodo per la vendita di un miliardo e 300 milioni di Kwh alle utenze dirette la Edison denuncia un incasso di circa 7 miliardi e per la vendita di uguale quantitativo di energia fatta a società di comodo, a società distributrici, la stessa Edison denuncia un incasso di circa quattro miliardi
Il monopolio degli elettrici costituisce veramente una camicia di forza dell’economia italiana. Se non si sviluppa la produzione di energia elettrica in un paese come il nostro privo di altre fonti di energia le fabbriche chiudono, la disoccupazione aumenta, il tenore di vita della popolazione si immiserisce ancora di più, tutto il tono civile della nostra vita nazionale decade.
Come risolvere il problema?
E quello che è stato fatto del resto anche in paesi ad economia capitalistica, quali la Francia e l’Inghilterra dove la nazionalizzazione delle industrie elettriche è stata totale.
Solamente nel nostro paese nulla si è fatto e nulla si è tentato in questo senso.
Possiamo continuare in una situazione di questo genere?
Nell’attuale fase della civiltà industriale l’elettricità è un servizio pubblico di alto interesse sociale, esattamente come il servizio della sicurezza dei cittadini, della scuola, della salute pubblica, ecc.
Ora come nessuno può pensare di affidare il servizio di polizia ad una società anonima, quello della scuola ad imprese private, quello che ha riguardo alla salute dei cittadini a qualche monopolio, cosi è delittuoso e suicida che le fonti di energia, di lavoro e di vita del popolo italiano siano lasciate nelle mani di privati speculatori, siano cioè regolate e rette sulla base del profitto privato che mette in forse le attività produttive del paese.
La CGIL ha la percezione esatta della gravità e dell’urgenza del problema dell’energia elettrica, che è problema che ci riguarda non soltanto quando vi sono sospensioni di corrente ed i nostri operai per due o tre giorni alla settimana sono senza lavoro.
È un problema che trascende i limiti delle nostre categorie, è un problema nazionale che investe gli interessi di strati e di ceti sempre piu’ larghi.
Il mese scorso la CGIL ha convocato in Roma una Conferenza Nazionale della Elettricità che, oltre ad essere la dimostrazione del grado di maturità con il quale la CGIL affronta i problemi fondamentali della vita del paese, ha rappresentato anche un successo notevole.
Sono intervenuti a questo Convegno non solo i rappresentanti delle Federazioni più direttamente interessate, ma anche quelli di una infinità di categorie e di ceti, commercianti, artigiani, piccoli industriali, ecc. Quest’ultimi rappresentanti, in modo particolare, hanno dichiarato che la situazione era insostenibile, che essi non potevano sopportare ulteriori aumenti di tariffe ed erano grati alla CGIL perché, assenti i grandi organismi economici, assente il governo, solo l’organizzazione dei lavoratori aveva portato al fuoco della pubblica discussione il problema dell’aumento dell’energia elettrica, problema vitale per il nostro paese e per le categorie produttive.
La crisi nel settore agricolo presenta due aspetti: uno strutturale qualificato dell’esistenza del fenomeno del bracciantato (due milioni di contadini che lavorano la terra ma non posseggono la terra) e l’altro della presenza di vaste estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Voi vedete tutta la gravità della contraddizione.
Ancora un altro aspetto della crisi è quello della crisi del mercato: caduta dei prezzi alla produzione sia all’interno che all’estero.
Il governo cerca di rimediare all’aspetto strutturale della crisi con timide promesse di riforma che ancora non si sa se riuscirà, pur nella sua assoluta insufficienza, a tradurre in progetti concreti e farli accettare alla sua stessa maggioranza e che creerebbe per altro un’altra categoria, quella dei piccoli proprietari, oppressa dai debiti e dalle imposte e vittima designata in anticipo al prepotere dei produttori di attrezzi, di concimi e dei prestatori di danaro.
È stato facile con lo slogan “non più proletari, tutti proprietari” al partito democristiano sollecitare e raccogliere i voti di larghe masse contadine. Ma questi voti non hanno inviato i contadini in Parlamento. A rappresentarli vi sono in realtà i latifondisti del Meridione e gli esponenti aperti o mascherati della Confida.
Per quanto riguarda la crisi di mercato il governo pensa di rimediare ripetendo la soluzione corporativa dei consorzi obbligatori o volontari di produttori.
Il problema della nostra agricoltura va invece affrontato decisamente nei due aspetti della riforma che soddisfi la fame di terra dei contadini poveri immettendoli in possesso della terra e assicurando i mezzi per la realizzazione delle trasformazioni fondiarie e rendendo vitali le nuove aziende con gli aiuti necessari, sviluppando le forme cooperative o consortili (che anche a possesso diviso assicurino l’unità economica dell’azienda) e affrontando i piani di produzione agricola.
Le due cose – riforma fondiaria e piani di produzione – sono intimamente legati.
Il problema della nostra agricoltura è un problema economico, sociale e umano di urgenza assoluta improrogabile.
La stessa stampa straniera non amica della CGIL, in occasione dell’ultimo sciopero dei braccianti ha denunciato la contraddizione della struttura agricola del paese e la sopravvivenza di antiche forme feudali: due milioni di braccianti, come vi ho detto, che non posseggono altro che la loro volontà di lavorare, e nello stesso tempo larghissime estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Questo problema riguarda non soltanto i contadini ma anche gli operai del Nord e tutto il paese.
Se vogliamo sollevare queste aree depresse del Mezzogiorno è necessario che anche i lavoratori industriali del Nord facciano propria la esigenza della riforma fondiaria.
Se noi vogliamo unire i braccianti delle Puglie e della Sicilia ai metallurgici di Genova, Torino, Milano, è necessario porre uniti il problema per risolverlo nell’interesse comune.
Se noi libereremo dalla fame i contadini del Sud attraverso la riforma fondiaria, tutto il Mezzogiorno risorgerà a nuova vita, e costituirà un efficiente mercato interno finalmente in grado di acquistare i prodotti industriali che sono fabbricati dagli operai del Nord.
D’altra parte, non è soltanto un problema economico e sociale; è anche un problema umano perché noi vogliamo cancellare dal volto del nostro paese il segno della vergogna rappresentato dalla miseria secolare dei nostri contadini.
Nel settore del credito la situazione è singolare. Le grandi banche, sono nominalmente controllate dallo Stato o di proprietà dello Stato.
Sono infatti controllate dall’IRI il Banco di Roma, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, il Banco di Santo Spirito. Vi sono poi gli Istituti di diritto pubblico: il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale del Lavoro, il Monte dei Paschi di Siena e l’Istituto San Paolo di Torino. Infine la Banca d’Italia e le Casse di Risparmio.
In totale oltre il 90% del settore creditizio nazionale.
Ebbene, nonostante questa formale appartenenza allo Stato diretta o indiretta, le grandi banche sono amministrate dai Valletta, dai Costa, dai Nogara, dai Marzotto, che sono gli esponenti dei gruppi di minoranza privatistica; a proposito dei quali gruppi e della loro azione tendente a snaturare l’indirizzo e lo scopo degli istituti bancari nei quali lo Stato partecipa come azionista, noi sappiamo che vi è ormai tutta una tecnica speciale che opera valendosi della deficienza della burocrazia e dell’assenteismo assoluto del governo.
Nel settore delle banche non si tratta perciò di mutare o di innovare profondamente. Si tratta semplicemente di mettere questi strumenti al servizio di una politica di investimenti, quale quella tracciata nel nostro Piano, politica di utilizzazione di tutte le risorse nazionali nell’interesse collettivo e non nell’interesse dei gruppi monopolistici.
Senza una politica di investimenti che sia promossa dall’interesse della collettività, anziché dal profitto privato, noi svilupperemo probabilmente le fabbriche di Coca-Cola, ma renderemo più forti e dominanti i gruppi privati e anemizzeremo sempre più l’IRI sino alla sua completa liquidazione.
Per completare il quadro delle contraddizioni della nostra struttura economica converrebbe qui parlare della situazione dei settori siderurgico e metalmeccanico ma il discorso mi porterebbe troppo lontano. Ognuno di voi del resto è in grado di valutare lo stato di crisi di questi settori i cui impianti sono utilizzati soltanto in misura del 60% circa, mentre la necessità dello sviluppo industriale del paese esigerebbe una intensa produzione di beni strumentali e di consumo.
Non ho bisogno di aggiungere che lo stato di crisi puntualizzato dalla situazione liquidatoria di molte aziende è dovuto ad una assoluta mancanza di intervento e di controllo da parte dello stato negli investimenti e dal prepotere di gruppi monopolistici.
Piuttosto mi pare giunto il momento di domandarci: come ci proponiamo di realizzare le riforme di struttura, almeno quelle che a noi paiono indispensabili?
La forma, io penso, non può essere che quella della nazionalizzazione.
I mezzi per raggiungere il nostro obiettivo: in primo luogo impostare il problema in termini chiari ed essenziali davanti all’opinione pubblica, in secondo luogo lottare in Parlamento e fuori per la realizzazione dei principi già accolti nella Carta Costituzionale presentando appropriati disegni di legge, battendoci per migliorare eventualmente quelli governativi, operando con una forte azione sindacale di massa per la realizzazione di una nuova politica economica che abbia questi obiettivi: massimo impiego di mano d’opera e potenziamento del mercato interno.
Io credo che noi sfogliamo troppo raramente le pagine della Costituzione, la legge fondamentale della Repubblica italiana.
Se noi leggessimo con maggiore frequenza potremmo portare impressi nella nostra memoria articoli come l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”.
Quando noi, nel caso specifico, chiediamo la nazionalizzazione delle imprese elettriche, perché lo svolgersi dell’attività privata in questi settori è in contrasto con l’utilità sociale, facciamo della demagogia o non chiediamo soltanto che sia applicato un principio sancito dalla Costituzione democratica e repubblicana del nostro Paese?
L’art. 42 afferma poi: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indeNnizzo. Espropriata per motivi di interesse generale”.
Rinuncio a leggervi gli articoli del titolo che si riferisce ai rapporti sociali se non per ricordarvi l’art. 46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della produzione, la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione dell’azienda”.
È possibile un’azione sindacale di massa per la realizzazione delle riforme di struttura? Io credo di si e aggiungo che qualche cosa in questo senso noi lo abbiamo già fatto.
Quando i lavoratori della Isotta Fraschini per evitare che i loro stabilimenti vengano smantellati dichiarano: “Noi prenderemo in esame le richieste di licenziamento soltanto dopo che ci avrete presentato i piani produttivi”, e sollecitano in questo senso l’intervento dello Stato, in definitiva danno alla loro lotta il carattere e l’obiettivo della lotta per gli investimenti pubblici in un settore come quello delle industrie metalmeccaniche che realizza le condizioni del minor investimento di capitale in rapporto alla maggiore occupazione di lavoratori.
Quando i braccianti lottano per l’imponibile di mano d’opera e per le migliorie fondiarie non lottano in definitiva per una certa direzione degli investimenti che consenta una maggiore occupazione nelle campagne?
La FIOM chiese a suo tempo il controllo degli investimenti del FIM e fu forse un errore che questa richiesta non diventasse un motivo più chiaro, più aperto di fronte ai lavoratori, forse un motivo di lotta.
Il FIM stesso, che ha stanziato un certo numero di miliardi con un criterio che doveva essere quello dello sviluppo dell’attività produttiva del settore metalmeccanico, non è forse il risultato dell’azione condotta dai lavoratori, della lotta che ha indotto il Governo a fare un timido tentativo, troppo presto abbandonato, nel senso di un intervento dello Stato negli investimenti produttivi?
Considerate la differenza che vi è fra le ragioni di vita dell’IRI e le ragioni di vita del FIM. L’IRI sorge nel 1933 per difendere gli interessi di grossi capitalisti colpiti da una crisi formidabile, sia pure sotto il pretesto che questa crisi trascinava a fondo le banche e bisognava difendere i piccoli risparmiatori. Al contrario dell’IRI, il FIM nasceva come risultato dell’azione svolta dai lavoratori per la difesa non di interessi privati ma per la difesa dell’industria del nostro Paese.
Vi dicevo che la nazionalizzazione è, nelle condizioni attuali, la forma migliore per realizzare le riforme di struttura. E nazionalizzare i grandi complessi industriali vuol dire anche sottrarre all’orbita speculativa e jugulatrice dei monopoli le piccole e medie imprese, assicurandone condizioni di vita e di sviluppo. Ma nazionalizzare non vuol dire burocratizzare.
Abbiamo in proposito davanti a noi l’esempio dell’IRI che viene sempre meno ai suoi compiti perché coloro che lo dirigono seguono un criterio privatistico e non quello dell’interesse della collettività nazionale.
Perciò la nazionalizzazione nelle attuali condizioni politiche fa sorgere un altro problema, quello del controllo delle forze produttive, degli operai, degli impiegati e dei tecnici.
La nazionalizzazione senza controllo operaio si può ridurre ad una incastellatura burocratica che si allontana ben presto dagli scopi per i quali è stata realizzata.
Solamente con il controllo permanente degli operai, degli impiegati e dei tecnici la nazionalizzazione verrà mantenuta nella giusta strada e potrà raggiungere gli obiettivi per i quali essa viene attuata.
Sorge a questo punto naturale il problema dei Consigli di Gestione, verso i quali noi sindacalisti dobbiamo onestamente confessare di ritenerci in netta colpa.
Per molto tempo noi abbiamo considerato i Consigli di Gestione come la innocua mania di qualche volenteroso compagno. Il problema c’è e non basta esprimere la nostra solidarietà e la nostra simpatia in termini generici di ordini del giorno. Noi saremo in grado di fare veramente qualche cosa per i Consigli di Gestione quando avremo operato in modo che la loro esigenza sia radicata nella nostra coscienza, nella coscienza dei lavoratori.
Dunque, le riforme di struttura non sono più oggi aspirazione indistinta delle masse popolari o parte di programmi di determinati partiti. Sono una esigenza tecnica di progresso economico e sociale del paese e nello stesso tempo una esigenza politica, una garanzia della difesa della libertà e della democrazia e della indipendenza nazionale.
Infatti i gruppi monopolistici che fanno del loro privilegio economico un’arma potente di dominazione politica e sociale, incapaci come sono di risolvere i problemi del pane e del lavoro degli italiani, cercano oltre frontiera, oltre oceano, la protezione che assicuri la realizzazione dei loro profitti, a prezzo di mettere a vassallaggio l’economia di tutto il paese. E che sia la nostra economia in queste condizioni di soggezione che portano fatalmente alla soggezione politica io non ho bisogno di documentarlo a voi.
La situazione sempre più precaria del nostro apparato produttivo, l’anemizzarsi progressivo dei nostri scambi con l’estero a direzione obbligata, il conseguente asservimento politico all’America ne sono i segni e nello stesso tempo le conseguenze più eloquenti.
Vorrei soltanto accennare ad un aspetto economico particolare di questa dipendenza del nostro paese e dell’Europa, possiamo dire, dall’America.
Quest’aspetto è rappresentato dal monopolio della ricerca tecnica e scientifica che gli Stati Uniti detengono, monopolio che viene realizzato comprando a peso d’oro dai tecnici e dagli scienziati di tutto il mondo i risultati dei loro studi, i loro ritrovati e le loro scoperte.
Questo monopolio impedisce il progresso autonomo delle attività industriali nazionali, fa permanere la nostra economia in costante ritardo e ci obbliga a servitù tecniche e finanziarie che noi dobbiamo pagare a profitto degli stranieri.
Cosa fa il governo, il governo della Repubblica Italiana fondata sul lavoro, per rompere le posizioni monopolistiche all’interno del nostro Paese? Il governo aveva promesso una legge sui monopoli facendola annunciare, se ben ricordo, per bocca del ministro dell’Industria on. Ivan Matteo Lombardo. Che ne è avvenuto di questo proposito? La realtà è che questa legge non viene presentata perché il governo si è accorto che, contrariamente alla opinione che si tenta di accreditare, tutto in Italia o quasi tutto è monopolio, e che il libero mercato e la libera concorrenza sono una finzione, sono una menzogna.
In realtà, il governo nulla intende fare per ridurre il prepotere dei monopoli e ciò nonostante le affermazioni programmatiche e le promesse che talvolta vengono fatte anche da ministri responsabili. Ancora recentemente alla Camera, discutendosi la mozione Togliatti-Di Vittorio sulle conseguenze della svalutazione della sterlina, abbiamo registrato una dichiarazione dell’On. De Gasperi che non abbiamo dimenticato. Preso nella stretta della logica del ragionamento dell’on. Riccardo Lombardi, il Presidente del Consiglio ha creduto di svincolarsene proclamando di fronte alla Camera dei Deputati: “Le nazionalizzazioni se non si fanno non è per motivi ideologici. Io sono pronto a nazionalizzare le industrie che vanno bene, non le industrie che vanno male”.
Ebbene, compagni, noi dobbiamo chiedere all’on. De Gasperi che mantenga fede a questo suo impegno di governo. Noi domandiamo fin da ora all’on De Gasperi: “A quando la nazionalizzazione della Edison? A quando la nazionalizzazione della Montecatini? A quando la nazionalizzazione della FIAT”?
Nazionalizzando questi complessi indubbiamente sani economicamente, noi avremo modo di salvare altri complessi, salveremo le piccole e medie industrie e le solleveremo dal peso schiacciante dei trust.
Il compagno Di Vittorio ha esposto ieri le linee di un piano economico e costruttivo che tende a raggiungere due obiettivi fondamentali: la massima occupazione possibile e un ampliamento del mercato interno, quindi una elevazione del tenore di vita dei lavoratori italiani.
È un piano la cui realizzazione può veramente avere il risultato di rompere il cerchio della rassegnazione alla miseria e dell’immobilismo economico, di dare un nuovo slancio alla nostra economia produttiva, un nuovo volto al nostro paese.
Lasciatemi fare questa constatazione: quale prova migliore della maturità del movimento sindacale italiano, quale prova migliore che veramente gli interessi che noi rappresentiamo non sono più gli interessi ristretti della classe, ma quelli generali del paese, di questa discussione a un congresso della nostra CGIL?
Al di sopra delle esigenze particolari delle varie categorie poniamo, davanti a noi e davanti all’opinione pubblica le esigenze generali fondamentali di tutto il paese.
Noi non ci attendiamo i piani dal governo, non attendiamo i piani da quegli organismi economici – Confindustria ed altri gruppi – i quali tuttavia pretendono di avere il potere esclusivo di determinare la linea di politica economica che il paese deve seguire.
Di fronte alla carenza dei pubblici poteri, di fronte alla incomprensione dei ministri e del governo, di fronte al cieco e sordo egoismo delle classi padronali siamo noi, i lavoratori italiani, che presentiamo un grande piano di ripresa e di ricostruzione economica e sociale non nell’interesse della classe, ma nell’interesse della collettività nazionale.
L’avvenire quali prospettive ci riserva?
I bisogni delle masse popolari italiane che premono dietro di noi sono tali e tanti, insoddisfatti da secoli, che noi non possiamo perdere molto tempo, troppo tempo.
La mutevole situazione sociale e politica condiziona le forme gli aspetti e gli obiettivi tattici della nostra lotta.
Oggi, a mio avviso, la linea della nostra azione la possiamo cosi riassumere: “Lottare per realizzare la Costituzione Repubblicana, lottare per tradurre nei termini concreti della vita nazionale i principi sociali da essa sanciti”. Ecco, compagni, un’ulteriore prova della maturità del movimento sindacale italiano.
Noi non siamo più i “sovversivi” nel significato tradizionale del termine, noi siamo sul terreno della legalità democratica e costituzionale quando lottiamo per la realizzazione delle nostre rivendicazioni.
Sono sovversivi, fuori dalla legalità costituzionale, coloro che si oppongono a che i principi della Costituzione vengano realizzati.
Le vicende delle nostre lotte sono alterne. A fasi di slancio seguono talvolta momenti di sosta apparente. In ogni caso le lotte esigono da ognuno di noi un impegno continuo. Io mi rendo conto che nell’animo di qualche lavoratore a volte sorga il dubbio, l’interrogativo a noi diretto: “ci parlate sempre di lotta, di lotta, di lotta. Ma quando mai potremo considerare i nostri risultati raggiunti, quando vi sarà per noi un attimo di respiro?”.
Io dico a questi lavoratori, dico innanzi tutto a me stesso: la missione della classe lavoratrice è quella di lottare finché non siano realizzate le nostre profonde aspirazioni che sono riassunte nei punti programmatici dello Statuto confederale: ” La liberazione del lavoro da ogni sfruttamento “.
Prendiamo esempio da coloro che sono venuti prima di noi.
Io ho un vecchio maestro il cui nome non troverete certo nella storia del movimento socialista; è un modesto operaio che ha imparato a leggere e a scrivere a 18 anni da un ombrellaio ambulante perché ad otto anni lavorava già per 14 ore al giorno alla fornace. Io ho sempre presente quello che mi dice questo vecchio maestro quando richiama alla memoria i tempi delle sue prime lotte, sessant’anni orsono.
“Facevamo le riunioni della lega la domenica, in aperta campagna, sotto gli alberi, perché avevamo paura che il padrone ci vedesse. Eravamo pochi, ma pure a poco a poco siamo riusciti a diventare tanti”.
Sì, compagni, ai primordi del movimento operaio un pugno di uomini coraggiosi aveva inalberato nel nostro paese la bandiera della riscossa proletaria. Tutto il mondo di allora era contro di loro. Con coraggio, con tenacia, con pazienza e con spirito di sacrificio questi nostri pionieri riuscirono alfine a spezzare il cerchio chiuso dell’odio, dell’ignoranza e degli interessi avversi che minacciava di soffocare il loro cammino.
Essi vinsero allora perché non dubitarono mai.
Dobbiamo dubitare noi che non siamo più pattuglia disperata ai margini della società borghese, dobbiamo dubitare noi della nostra vittoria ora che siamo tanto più forti per numero e per coscienza, ora che siamo popolo?”

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