5° Convegno del Gruppo di Volpedo: “NEL SOLCO DEL RIFORMISMO SOCIALISTA, QUALE MODELLO DI ECONOMIA PER IL TERZO MILLENNIO”

Genova – 20 giugno ’09 Circolo G.Matteotti, Via Del Fossato 2

CRISI DELLA SINISTRA: RAGIONI E NUOVI PROPOSITI

di Renzo Penna*

Se è vero, come è vero, che esiste una crisi della sinistra a livello europeo allora è necessario allargare lo sguardo perché la pur necessaria analisi critica al nostro interno non sarebbe altrimenti sufficiente. Ma sulla specificità della nostra crisi sarà opportuno ritornare, perché non tutto si risolve  e si spiega a livello europeo*.

Stando al livello europeo sembra si possa cogliere un elemento comune che, se si riflette, giustificherebbe abbondantemente la crisi della sinistra.  Per essere sintetici la sinistra pretenderebbe di esistere campando di rendita  sulle riforme degli anni ’30/’40. E’ vero ha inventato il new deal, ha fatto la prima riforma socialdemocratica, ma è passato più di mezzo secolo da allora! Se diciamo che i nostri principi ruotano intorno al concetto di eguaglianza, che come tale è dinamico, ma poi si  resta  fermi per  50 anni,  non ci si dovrebbe meravigliare se qualcosa non torna. Sarebbe strano il contrario. Quando si dice che siamo rimasti fermi ci si riferisce a quelli che si sono fermati alle riforme fatte una volta e a quelli che ritenevano di essere “più avanti”, solo perché  la loro analisi e la loro critica non si erano confrontate con la realtà.

E’ vero, nel frattempo, abbiamo combattuto e contribuito a vincere una grande guerra mondiale contro il totalitarismo di destra. Non è merito da poco, ma paradossalmente quella vittoria ha accelerato i tempi delle trasformazioni  economiche e sociali e tra questi cambiamenti abbiamo fatto fatica a riconoscere il cambiamento della domanda sociale, gli effetti del crescente ruolo di strumenti del cambiamento come la rivoluzione tecnologica, che se non governata può avere valenze opposte. Il movimento femminista e la crisi ambientale del modello di sviluppo sono le altre  due spie di questo nostro ritardo. Abbiamo assistito al crollo del muro di Berlino 20 anni fa, ma  una parte della sinistra fa ancora fatica a riconoscere la ovvia necessita di tornare al 1921, accumulando un ancora maggiore e non più giustificabile ritardo. E ciò è vero, particolarmente, nel nostro paese. Così come i successi del modello socialdemocratico sono avvenuti in un contesto economico, sociale, politico ed istituzionale che si sta rapidamente esaurendo; cioè avere come riferimento la grande fabbrica e la sua base lavoristica, insieme a importanti sindacati, a partiti presenti in maniera diffusa sul territorio, sostenuti dalla partecipazione di iscritti e attivisti.

A livello europeo la stessa vittoria del modello economico liberista ha visto la sinistra su posizioni e dir  poco ambigue e che, con il blairismo, ha praticato una versione debole, affatto antagonista, del liberismo. Questa sinistra ha dimenticato anche i limiti  obiettivi delle soluzioni realizzate dalle logiche del mercato per non incorrere in evidenti contraddizioni con la propria pratica politica, ma cosi facendo ha tolto credibilità a se stessa.  Si potrebbe spiegare in questo modo come mai la crisi economica sia intervenuta per demeriti intrinseci della teoria  liberista e non certo per merito della opposizione e delle alternative  poste dalla sinistra.  E quando questa crisi si è manifestata le reazioni non potevano avere un segno di consenso per una sinistra colpevolmente inadeguata e non in grado di proporre una credibile alternativa.

In definitiva, sembrerebbe necessario riprendere il discorso partendo da quel principio di eguaglianza che ci  ripetiamo, forse,  senza comprenderne più le logiche attuali.

Quel principio nasceva da una analisi del sistema economico capitalistico che nello sviluppare le logiche necessarie della divisione del lavoro  e dovendo inserire  anche le risorse finanziarie  aveva determinato una divisione dei ruoli sociali  un po’ “discutibile”: io ti dico cosa e come devi fare, quanto e quando ti pago e tu ubbidisci.  Non  è certo la sede per  fare la storia delle critiche a questa logica, ma è sufficiente  ricordare una sintetica e recente valutazione:

“Il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo” .

L’autore non è un estremista di sinistra, anche se oggi potrebbe sembrare tale, ma è una socialista liberale  che corrisponde al nome di Sylos Labini. Per questi personaggi la valenza liberale stava nella dimensione etica prima che sociale della politica, per cui le libertà politiche, cosi dette borghesi, quali le liberta di opinione, di stampa, di riunione, ecc. fanno parte della stessa dotazione necessaria per richiamarsi con coerenza al concetto di eguaglianza. In questo senso come socialisti  ci si dovrebbe sentire  ben più avanti dello stesso liberalismo che fa fatica a riconosce nella dimensione economica un vincolo sociale alle  legittime aspettative di tutti. Anche la configurazione sociale della inclusione/esclusione non è che una versione aggiornata di  quella alienazione.

Occorre allora inizialmente verificare se si è o meno  tutti d’accordo con il senso della sintesi di Sylos sopra richiamata. La domanda non è retorica perché da un lato parrebbe che alcuni preferirebbero porre in testa, del tutto legittimamente, altri principi. In questo caso  andare a indagare il perché la sinistra ha perso la sua credibilità sarebbe un esercizio del tutto differente da quello che noi ci proponiamo. Nel nostro caso dovremmo, invece, riconoscere i ritardi  della nostra proposta politica rispetto a quel valore, e rispetto alle  nuove disuguaglianze, o a quelle vecchie, ma resesi maggiormente  insostenibili  con il passare del tempo.

Si potrebbe pensare, ad  esempio,  ai valori della differenze nella  distribuzione della ricchezza che probabilmente non è peggiore di quella dell’ottocento, ma che oggi risulta del tutto incredibile e quindi inaccettabile.  E se ci si riconosce  in quel principio di eguaglianza appare, senza ombra di dubbio, che la prima traduzione di quel principio sta nel diritto al lavoro. Una volta la sinistra proponeva un pieno e buon lavoro; ora non dice più nulla. Per pudore? Per incapacità? Perché non ci crede più? E non si chiude il cerchio di un ragionamento di sinistra fermandosi alla dimensione della distribuzione della ricchezza, senza ragionare anche sui termini della produzione di questa ricchezza. Ma il recupero della “responsabilità pubblica” come motore regolatore e le conseguenti le politiche economiche e industriali della sinistra su questo fronte non esistono.  Quello che è  certo è che ora questa sinistra corre, e con difficoltà, dietro al precariato. E nasconde con imbarazzo gli studi analitici e i dati di Luciano Gallino i quali dimostrano, senza possibili smentite, come: “Con limitate eccezioni il lavoro precario, flessibile, discontinuo, ha costi umani elevatissimi e anche dei costi aziendali, perché le persone non hanno alcun legame con l’azienda e non ci sono incentivi a fare formazione”.

Il paradosso della crisi attuale della sinistra sembrerebbe consistere dunque, niente affatto nel non saper ascoltare la gente, come si ama ripetere – siamo, se mai, tutti vittime dei sondaggi – ma nel non saper indicare un percorso di speranza, una strada, un progetto, magari difficile, ma coerentemente in grado di dare un senso anche alle difficoltà del presente. E nel saper tradurre quel progetto in riforme strutturali concrete. L’assenza di questa capacità progettuale e di strategia lascia gli spazi ai ripieghi corporativi o localistici, ma comunque capaci di tradurre sollecitazioni rimaste senza interpreti, che non devono rispondere a coerenze  e a basi culturali troppo complesse e che trovano proprio in questi limiti la base del loro successo. Lascia spazi a quel pragmatismo che potrebbe avere aspetti anche positivi, ma che in Italia assume la versione dell’opportunismo e della deriva morale. Questo paradosso si esalta perché la cultura liberista ha sviluppato degli spiriti animali per cui, mentre la sinistra ha operato facendo evolvere la capacità critica delle persone ed accrescendo la qualità della domanda sociale, la destra su questa crescita ha alimentato uno spirito egoistico e asociale, essenza del liberismo, contraddittorio con quella speranza collettiva che resta “naturalmente” una esigenza “nascosta”  di tutti.

Si sono aperti nuovi orizzonti carichi di incognite – la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, la crisi ambientale, la pace nel mondo – ma la gente, vittima di quella cultura liberista, domanda soluzioni qui, ed ora e per se stessa. La vittoria della destra ha conseguito, soprattutto, un rilevante successo culturale. In alcuni decenni è stato rovesciato l’insegnamento dell’economia ed è stata accettata come possibile l’idea di un mercato che è in grado di auto regolarsi.

La crisi della politica, in Italia ma non solo, sta proprio nell’assecondare e nell’aver assecondato gli spiriti selvaggi e quindi nella  rinuncia ad un progetto alto. Ma poiché gli spiriti selvaggi non sono in grado di risolvere i problemi, cosi facendo la politica, da un lato alimenta la loro inesauribile insoddisfazione, e dall’altra,  rinuncia al suo vero ruolo diventando vittima di se stessa.

Se la sinistra è la  prima vittima  la responsabilità sta, in primo luogo, nella assenza della sinistra o nel suo essere dimezzata.

Occorre allora ripartire da quella crescita culturale e sociale prodotta nel tempo dalla sinistra sapendo che quelle conquiste possono essere rimesse in gioco o essere utilizzate per rigurgiti classisti: Se la sinistra non sa proporre, con il sogno della libertà e dell’eguaglianza, una politica di riforme ulteriori e coerenti, quei ritorni al passato sono nell’ordine delle cose possibili.

Di questo e su queste riforme dovremmo discutere con i cittadini, ma prima dobbiamo verificare l’adesione ai nostri valori e ricostruire nei comportamenti la nostra credibilità. Queste precondizioni non sono e non possono essere un formalismo, un tributo da pagare per passare oltre. Programmazione e coerenza degli interventi devono essere una traduzione verificabile della esistenza di  quelle precondizioni. Si ripete che dopo la crisi economica internazionale nulla sarà più come prima, lo stesso sviluppo economico e industriale sarà segnato  dalla riconversione ecologica. Ma questa stessa società capitalistica  può benissimo  gestire la transizione  e i cambiamenti – ché non hanno necessariamente un segno univoco – dipenderanno ancora una volta  dalle  nostre capacità di analisi e di proposta. Il primo banco di prova di una rinascita della sinistra dovrebbe allora consistere proprio nella capacità di dare  un segno e un senso a questi cambiamenti.

Giorgio Ruffolo – che con “Il capitalismo ha i secoli contati” è stato tra i pochi ad aver previsto l’attuale crisi, indicandone le cause – di fronte alla necessità di mettere in campo una politica ispirata ai valori tradizionali di una sinistra che sappia indirizzare la società verso approdi di maggiore libertà e giustizia indica i titoli di dieci temi a questo fine utili e sui quali riflettere e ragionare.

Tra questi, in particolare, si segnalano: a)la struttura dell’ordine politico mondiale di fronte all’emergere di nuove grandi potenze e le nuove regole mondiali della circolazione dei capitali e dell’assetto dei cambi; b)le garanzie di un mercato concorrenziale e libero da posizioni dominanti e da vincoli corporativi; c)le responsabilità politiche superiori dell’economia:in particolare la politica macroeconomica e la politica dei redditi, rivolte all’obiettivo della piena e buona occupazione; d)la trasformazione della scuola in una istituzione di educazione permanente; e)la riorganizzazione della produzione nel senso di una economia ecologicamente sostenibile.

Partire, dunque, da queste suggestioni e recuperare i vecchi e solidi strumenti di analisi, rigore intellettuale e morale. Tuttavia non si può pensare ad un cambiamento culturale e politico così radicalmente necessario senza affrontare una grande e cruciale questione: la crisi delle classi dirigenti italiane.

Classi dirigenti ormai incapaci di avere e produrre una visione per il Paese e definitivamente prive di alcuna funzione “educativa”, che si rinchiudono, in modo sempre più autoreferenziale e con complicità trasversali, in pratiche che assecondano, da un lato, una frantumazione civile e sociale (la poltiglia senza valori e speranza di De Rita) che si alimenta di paure, egoismi ed opportunismi e, dall’altro, svolgono una azione predatoria sulle risorse del Paese, determinando un effetto moltiplicatore di declino e impoverimento economico, nuove ineguaglianze e sfiducia verso il futuro. Occorre riproporre e mettere al centro, con estrema forza e rigore, la necessità del “ruolo e dell’interesse pubblico”, dei “beni comuni” quali strumenti per ricostruire una visione generale, partecipata e condivisa, poiché è del tutto evidente che il Potere (i Poteri) ha sempre meno legittimazione morale e politica.

E’ necessario un amplissimo ricambio della “classe dirigente”. Questo è il tempo che esige scelte radicali e rigorose facendo prevalere, anzi avendo come condizione, lo spirito evocato nelle parole di J.F. Kennedy: “ Non chiedere al Paese (alla politica) cosa può fare per te, ma chiediti cosa tu puoi fare per il Paese (per la politica)”.

 

* “La doppia crisi italiana” di Sergio Ferrari. Aprile il mensile n.169, 04/2009

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