Essere umano a rischio

Intervista a Giorgio Ruffolo

il Mese di Rassegna Sindacale, febbraio 2007- di Stefano Iucci

Da vecchio socialista lombardiano, Giorgio Ruffolo sa che il riformismo per risultare efficace deve essere radicale. Scardinare e ricomporre, quando serve, le strutture dell’esistente e provocare. Anche provocare. Lo ha fatto qualche settimana fa, dalle colonne dell’Espresso, con un articolo mirabile per contenuto e forma: “La vita è Gaia”. Il pezzo è uscito proprio nei giorni in cui climatologici di tutto il mondo riuniti a Parigi dall’Onu lanciavano drammatici allarmi sui cambiamenti climatici della terra: la temperatura che salirà in un secolo tra i 2 e i 4,5 gradi, il mare che alzerà il livello del suo fronte anche di 40 centimetri, la Groenlandia liquefatta nelle sue stesse fondamenta di ghiaccio e così via per catastrofi successive. Lungi dal nutrire dubbi su queste previsioni e rifacendosi (per scherzo ma fino a un certo punto) alla nota teoria di James Lovelock per cui la terra sarebbe un organismo vivente – Gaia, appunto – capace di autodifendersi, l’economista romano la mette giù così. All’uomo non può essere addossata alcuna responsabilità nella sopravvivenza di Gaia, che è perfettamente in grado di difendersi dallo stesso e, ove necessario, liberarsene con leopardiana indifferenza, così come è accaduto al 90 per cento delle specie che si sono succedute sulla sua superficie. Pertanto, la dissennatezza dei comportamenti e dei consumi umani può compromettere la persistenza dell’uomo, non certo quella della terra. Per questo dobbiamo cambiare: per un atto di generosità nei confronti nostri e delle generazioni future. In virtù di un rinnovato umanesimo e non perché debitori di qualcosa alla terra.

Ma cambiare come? Abbiamo incontrato Giorgio Ruffolo, per cercare di completare idealmente l’articolo apparso sull’Espresso, nella sede del Cer (il Centro europa ricerche) che dirige dal 1994 dopo essere stato, tra le tante altre cose, il “fondatore” del ministero italiano dell’Ambiente, che ha guidato per cinque anni e tre governi. Anni cruciali, tra il 1987 e il ’92, in cui sono state gettate le basi della moderna legislazione ambientale del nostro paese, con il varo della legge sul suolo pubblico, quella a tutela dei parchi naturali e il piano triennale d’investimenti per il trattamento dei rifiuti. “Io credo – dice al Mese l’economista – che per essere impostato correttamente il tema dello sviluppo sostenibile vada articolato nelle sue tre dimensioni fondamentali: quella economica, sociale ed etica. La prima rappresenta il problema più urgente e immediato: si tratta infatti di elaborare una strategia economica che non punti su una crescita illimitata ma sostenibile”.

Il Mese Un’idea che oggi non trova molto consenso, in una fase di pensiero unico liberista.

Ruffolo Ma è una posizione insensata. Già gli economisti classici liberali – Smith, Ricardo, Stuart Mill – dicevano che la fase della crescita non può che essere transitoria. Non ci sono, né in natura né nella storia, fenomeni di crescita illimitata. Non ci sono alberi che crescono illimitatamente né uomini che crescono illimitatamente.

Il Mese Quindi per non distruggerci siamo condannati alla stasi, all’immobilità?

Ruffolo No. A fine Settecento gli economisti parlavano di steady state, cioè “stato stazionario”, che non vuol dire immobile. Faccio un esempio: uno stagno è fermo, destinato a morire. Un lago invece ha immissari ed emissari, una zona viva aperta all’esterno. È un buon esempio di “stato stazionario”: una condizione che si rinnova continuamente ma che non cresce di scala. Insomma, l’insieme dell’economia deve mantenere con l’ambiente un rapporto equilibrato, vale a dire stazionario. Esiste una possibilità di costruire una strategia dell’equilibrio e non della crescita? Sembra una bestemmia nell’economia di oggi, che non è più quella degli economisti classici, ma del pensiero unico liberista, per cui l’unica economia possibile è quella della crescita illimitata. Ma si tratta di un falso: tutto lo sforzo tecnologico e strategico dovrebbe essere orientato all’invenzione di una strategia dell’equilibrio. Credo che per l’uomo sia questa la grande missione del secolo.

Il Mese Da dove cominciare?

Ruffolo C’è innanzitutto il problema dell’energia. È ovvio che basarsi sui combustibili fossili è folle: si distrugge in poco tempo quello che la natura ha creato in miliardi di anni. Una specie non può esistere sulla base della distruzione dell’ambiente in cui vive. La risposta è da cercare nelle cosiddette fonti rinnovabili, il sole innanzitutto e non tanto l’idrogeno di cui tanto si parla perché per produrre idrogeno bisogna produrre energia. Come è noto ciò non avviene, anche perché le risorse dedicate alla ricerca sullo sviluppo dell’energia solare sono una quantità limitata, inconsistente rispetto a quelle che si spendono per estrarre più petrolio o più carbone. Poi c’è tutto il tema dei rifiuti e la tecnologia del riciclaggio. Non va dimenticato che se noi in termini economici produciamo beni (e mali!), da un punto di vista termodinamico produciamo rifiuti. Ripeto spesso, scherzando, che letto al contrario il Pil diventa Lip: lordura interna prodotta. Dobbiamo quindi minimizzare l’impatto sull’ambiente delle nostre attività. Un economista americano, Herman Daly, ispirandosi al suo maestro, il grande Nicholas Georgescu- Rogen, ha definito un indice del buon comportamento economico, che non è quello di accrescere all’infinito la produzione, ma di equilibrarla con l’ambiente, minimizzando la produzione di detriti, e quindi economizzando sulle materie e sulle energie che si usano e, al contrario, massimizzando le utilità e i servizi – soprattutto di ordine immateriale – che si traggono da questa produzione. Per tornare a quanto detto prima il complesso della produzione va portato a uno stato di equilibrio stazionario. Quindi, non serve più il Pil, ma un indice composito della buona utilizzazione delle risorse in equilibrio con l’ambiente.

Il Mese Una missione difficile per economisti, statistici e sociologi.

Ruffolo Sì, ma è l’unico modo per dare un senso alla produzione, che attualmente questo senso non lo ha perché il suo unico scopo è quello di crescere continuamente. Il che è, etimologicamente, un’insensatezza.

Il Mese Come rispondono oggi gli economisti tradizionali al problema della scarsità delle risorse?

Ruffolo L’economista standard, quello del pensiero convenzionale, risponde che non c’è bisogno di alcun limite, basta il mercato con il suo sistema di prezzi: quando qualche cosa comincia a scarseggiare i prezzi aumentano e, quindi, automaticamente cala la produzione. Ma questa è un’altra insensatezza. Come è noto, i prezzi misurano le scarsità relative, non quelle assolute. Per usare una vecchia metafora, misurano quante scarpe bisogna dare per avere dei cappelli, ma non misurano quanto (e che cosa) occorre acquistare per la distruzione della coltre di ozono. Le scarsità assolute non si possono fronteggiare con i prezzi, ma ponendo un limite a emissioni e sfruttamento di risorse.

Il Mese Questo per quanto riguarda la dimensione economica dello sviluppo sostenibile. Lei però ne citava altre due: sociale ed etica.

Ruffolo Se pensiamo all’aspetto sociale della questione, va detto che circola, nel pensiero unico liberista, un’altra menzogna convenzionale: quella secondo cui gli interessi collettivi non sarebbero altro che la somma degli interessi individuali. Ora il mercato è un meccanismo quasi perfetto per il perseguimento degli interessi individuali, e per questo va tutelato e difeso dalle interferenze, pubbliche e non. Ma non funziona per i bisogni collettivi, che vanno tutelati con scelte che solo la collettività può fare perché solo a questo livello si colgono le esigenze relative alla soddisfazione, appunto, dei bisogni collettivi. A livello individuale, ad esempio, non si ha la percezione del riscaldamento della terra o della perforazione della coltre di ozono.

Il Mese Cosa dovrebbero fare, dunque, un’economia e una politica non convenzionali?

Ruffolo Dovremmo avere un’economia in grado di avvertire i bisogni collettivi (per esempio: cultura, istruzione, ricerca), individuare democraticamente con quali beni essi possono essere soddisfatti, quante risorse devono essere destinate a essi e in quale equilibrio rispetto ai beni e ai bisogni privati. Questo è il carattere sociale di un’economia moderna. Oggi invece si fa tutt’altro: si tende a restringere i bisogni collettivi a favore di quelli individuali e questo non è bene, perché ciò produce una società disgregata, con minore istruzione, ricerca, sicurezza, ambiente. Di qui si arriva facilmente al terzo capitolo del ragionamento, quello etico e morale, che riguarda la responsabilità dell’uomo non verso la natura, ma verso se stesso. Con la terra dobbiamo avere un rapporto amichevole che garantisca la nostra sopravvivenza. In definitiva, si tratta di un rapporto amichevole con noi stessi, che implica un approccio all’economia, alla società, che sia soprattutto fondato sul rispetto dell’uomo, della sua sopravvivenza, della sua cultura, del suo equilibrio mentale e psichico. Ecco, queste sono le linee verso cui indirizzare un’economia e un’ecologia equilibrate.
Il Mese Intanto però le cose non sembrano andare troppo per il meglio. Nonostante un certo impegno dell’Europa, Kyoto è fallito, e già si parla del post-Kyoto.

Ruffolo Kyoto ha rappresentato un passo avanti, ma non può che essere una manifestazione di buona volontà, anche per il mancato rispetto degli impegni non solo degli Usa, ma anche di Cina e India.

Il Mese Nel medio periodo l’incremento dei consumi di indiani e cinesi rischia di avere effetti devastanti sull’ambiente, e tuttavia come possiamo noi occidentali, che abbiamo fatto per secoli quel che volevamo con l’ambiente, dire a queste persone di non consumare o di andare meno in automobile?

Ruffolo Certo, questo è un nodo difficile da sciogliere e tuttavia non può essere eluso. Mi spiego: se noi a cinesi e indiani dicessimo che possono crescere nello stesso modo dissennato con cui lo abbiamo fatto noi diremmo loro una menzogna. Perché questo sia possibile occorrerebbero altri due pianeti. Quindi il loro sviluppo dovrà essere diverso dal nostro e fare tesoro della sensibilità ambientalista che si è diffusa in occidente. Io intravedo qui una importante missione per il mondo occidentale: prima individuare, nel senso che dicevamo prima, modalità di sviluppo equilibrato e poi trasferire in questi paesi, con un grande piano globale, le tecnologie, i tecnici e la formazione necessarie per realizzarlo. Ecco, questa sarebbe un’impresa degna di illuminare un secolo, un’azione simile a quel Piano Marshall che, nel secondo dopoguerra, fu uno straordinario atto di generosità degli Usa verso paesi dissestati dal conflitto ma anche verso se stessi.

Il Mese Quale può essere il ruolo dell’Europa in questa missione?

Ruffolo Enorme, soprattutto in una fase in cui l’unilateralismo americano ha mostrato limiti fortissimi. Io credo che il destino del Vecchio continente non sia solo quello di creare un mercato libero – questo lo ha già fatto e bene – ma di inserirsi nello scacchiere mondiale come soggetto che si assuma responsabilità di carattere, appunto, mondiale. L’Europa rappresenta un candidato ideale: vi abitano 500 milioni di donne e uomini, ha un’economia più forte di quella degli Usa – compresa la moneta – e potenzialità non ancora utilizzate. L’Europa deve diventare un soggetto che ha una sua proposta di governo mondiale e la capacità di porla e discuterla. Del resto questi problemi si risolvono solo a livello planetario. Il mondo si è globalizzato ma non altrettanto il governo del mondo e questo è un aspetto drammatico per la storia dell’umanità: si sono infatti create tensioni rispetto alle quali ancora non esistono strumenti di governo.

Il Mese In conclusione, parliamo dell’Italia. Non crede che il tema dell’ambiente potrebbe essere uno di quelli in grado di dare pregnanza e forte giustificazione alla nascita di un nuovo partito, quello Democratico?

Ruffolo Penso proprio di sì. Il Partito democratico deve segnare un’innovazione politica, altrimenti rimarrà una semplice aggregazione di forze che lascia il tempo che trova. Innovazione significa affrontare problemi che finora non sono stati affrontati dalla politica nazionale ed europea. E temi di portata immensa come quello dell’ambiente non possono essere affidati semplicemente a un ministro, ma possono essere affrontati solo se si ha una strategia ambientale e idee chiare su quali proposte rivolgere all’Europa e al mondo. E questo un grande partito lo può fare. Ségolène Royal ha da poco presentato un programma in cento punti per la propria candidatura all’Eliseo. Un programma che affronta problemi concreti, ma anche strategie generali: questo deve fare un grande partito e non è un caso che in Francia questo venga dalla tradizione socialista. Ma è un insegnamento anche per l’Italia: un partito nuovo non è un partito “innocente”, non cade dall’iperuranio. Il nuovismo in politica non è altro che un riflesso dell’irresponsabilità politica.

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