In ricordo di Bruno Trentin

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Riportiamo l’intervento da lui tenuto a Genova il 19 settembre 2004, alla festa nazionale dell’Unità, in occasione del dibattito “La lezione di Riccardo Lombardi” e della presentazione del libro su Fausto Vigevani

Il contenuto dell’intero dibattito è riprodotto nel quaderno n.10 di Labour che si trova sul sito alla voce Quaderni labour.


Credo che la strategia delle riforme sia il grande insegnamento di Riccardo Lombardi, non come opzione subalterna rispetto alla ricerca di alleanze che consentano di arrivare al governo, ma comescelta di fondo. Non so se Riccardo Lombardi, per come l’ho conosciuto io, si sarebbe definito riformista.Pesava, negli anni in cui assunse responsabilità politica, l’eredità di trent’anni di partiti socialisti e riformisti che non erano proprio ricchi di risultati e di contenuti sul piano delle riforme, ma che si chiamavano riformisti. Solo nella generazione dei Willy Brandt, dei Mitterand, il termine di riformismo riconquista una sua nobilità e soprattutto la possibilità di verificarsi sulle cose.

Ed è questo che allora discutevo con Fausto Vigevani, cioè la necessità di non immaginare, come mai fece Riccardo Lombardi, una politica e un programma come puramente subalterno alla ricerca di alleanze di governo, ma come asse, punto di partenza, premessa conoscitiva per costruire nel tessuto sociale, nella vita politica quelle alleanze.

In questo senso, e dato che tutta la vita politica e sindacale di Fausto fu segnata da insegnamento e di amicizia con Riccardo Lombardi, credo che, per uno come me che ha avuto la fortuna di conoscere Riccardo dal 1944 fino agli ultimi suoi giorni, sia tempo di far luce su questa nostra eredità.

Comprendo l’amarezza che serpeggia anche nelle parole di Nerio Nesi, però per chiunque di noi creda ancora in un movimento socialista plurale come parte di grandi schieramenti e alleanze, Riccardo Lombardi è un uomo nostro, spesso combattuto da quelli ai quali proponeva in buona sostanza, nel Psi come nel Pci, una uscita dal trasformismo e l’ancorarsi ad una strategia di riforme che non poteva essere subalterna ai mutamenti quotidiani della vita politica.

Era un utopista, nella vita quotidiana e nel dovere come qualunque uomo politico serio deve essere. La capacità di progettare e non solo di subire l’immediato, di progettare il futuro a partire dalla realtà di oggi e dalle sue contraddizioni, lo ha portato a comprendere, prima di qualsiasi uomo politico italiano – ne sono buon testimone – la grande trasformazione intervenuta negli anni ’70- 80 e ’90 nell’economia della società italiana. Comprendendo le sue opportunità, ma anche i pericoli che altri hanno saputo soltanto leggere come modernità alla quale adeguarsi. Questo distinguerà sempre l’approccio di Lombardi all’analisi delle cose: riformatore, certamente, ma – anche qui – non sulla base di vecchie categorie.

La nazionalizzazione dell’industria elettrica per Riccardo non era un atto di statalizzazione. Il problema era quello di creare un sistema unico, italiano, che non mantenesse il Sud in una condizione di subalternità, e di disuguaglianza. Era un disegno politico di riforma, non il cambiare nome o proprietà ad una azienda o ad una struttura.

E’ stato così di fronte alle trasformazioni dell’economia e dell’organizzazione del lavoro che derivano dall’introduzione delle nuove tecnologie.

Di fronte a queste cose Riccardo Lombardi non proponeva la resistenza ottusa. Mi ricordo un seminario della Fiom all’Eur negli anni Sessanta in cui Lombardi prese la parola sostenendo la necessità di affrontare il problema della flessibilità, della mobilità attraverso un governo fondato sulla formazione permanente, sulla contrattazione collettiva. Lo stesso animo lo ha portato a sostenere il programma comune con il Pci, osteggiato e sbeffeggiato da alcuni dirigenti di quel partito, fra i quali Giorgio Amendola, di cui ricordo bene la polemica di quel momento.

Lombardi fu un riformatore nella sua scelta per l’Europa, come scelta senza alternativa, come la via per creare un partito socialista europeo in una grande coalizione, un messaggio che io ritengo ancora oggi valido.

Fausto Vigevani era di questa stessa pasta. Lo è stato fin dal momento in cui l’ho conosciuto come dirigente della Camera del Lavoro di Novara, poi dirigente dei Chimici, poi come segretario della Cgil, e come segretario della Fiom. Odiava l’opportunismo del trasformismo spesso imperante, altrettanto il massimalismo, e la ricerca di una rivendicazione che non potesse essere tollerata dal sistema, in modo da rimanere puri, magari anche senza contratto. Questo era il contrario del modo in cui Fausto Vigevani concepì il sindacato. Ma Fausto è stato uno dei pochi a sostenere un termine che non era affatto scontato nella sinistra italiana, un termine che ricorre frequentemente nei suoi scritti e nei suoi discorsi: “il sindacato come soggetto politico, unitario ed autonomo”.

Ci fu un tempo in cui questo era chiamato anarcosindacalismo, pansindacalismo, nuovo corporativismo. Ma il sindacato come soggetto politico, unitario ed autonomo era capace proprio per questo di essere un interlocutore scomodo ma necessario di un’alternativa di sinistra nel governo del paese. Non c’era maggiore chiarezza che il rifiuto di immaginare un sindacato collegato, subalterno ad un governo amico. Tutta l’esperienza drammatica dei paesi dell’Est ce lo dimostrava. E così la sua scelta irreversibile per l’unità orientò, nell’84 della scala mobile, la sua battaglia più sofferta (e credo che ancora ci sia da scrivere e da recuperare, una conoscenza critica di quel periodo e di quelle vicende).

Badate bene, l’obiettivo della Confindustria non era l’abolizione della scala mobile, non lo è mai stato: è stato, in quel momento, l’obiettivo di centralizzare la contrattazione collettiva, di svuotare di contenuti i contratti nazionali di lavoro e la contrattazione aziendale. La scala mobile, essendo l’unico istituto di trattativa confederale, era ricorrentemente scelta dalla Confindustria come “grimaldello” attraverso il quale rimettere in questione il sistema contrattuale nel suo complesso. Il conflitto fu acuto e lacerante all’interno dei socialisti come dei comunisti della Cgil, quando ci si trovò di fronte ad un decreto Craxi, che prevedeva non il taglio di qualche punto di scala mobile, ma un sistema centralizzato di contrattazione che riconduceva anno per anno le confederazioni a discutere del salario e, quindi, a sostituirsi alle organizzazioni di categoria ed alle organizzazioni di fabbrica. E’ stata una lacerazione. Per un sindacato come la Cgil, di fronte ad un evento di quella natura, sarebbe stato più drammatico che un accordo separato diventasse decreto legge della Repubblica. Ma, dopo la deliberazione del Senato, di quell’accordo rimase soltanto la riduzione della scala mobile per il primo semestre. Non cogliere questo risultato come un dato di grande importanza, e rifuggire dalla strada del referendum che avrebbe portato giustamente a risultati disastrosi, fu il più grande errore, non solo di una parte della Cgil, ma certamente del Pci che influì su quella scelta.

L’esperienza dei metalmeccanici per Fausto Vigevani fu un’esperienza dura: ebbe a combattere contro un massimalismo settario e sterile, mentre lui riuscì a riproporre un sindacato, un soggetto politico capace di proposte e non soltanto di resistenze ma portatore di riforme. E’ stato uno dei pochi, anche qui, grazie all’esperienza che aveva accumulato alla guida dei sindacati dei chimici, a comprendere che dietro alle ristrutturazioni degli anni ’70 e ’80 stava cambiando un modello industriale e un modello di società con l’emergere di nuove figure sociali che interpellavano la rappresentatività del sindacato, rimettendo in questione il problema dell’unità e della rappresentatività del movimento sindacale. Dell’unità che lui ripropose sempre non come un mezzo ma come un valore, come un fine di un’organizzazione sindacale degna di questo nome.

La sua esperienza come uomo politico, la realizzazione di Labour è stata ispirata dalla sua coerenza di cui oggi si sente la mancanza. Dava fastidio per la sua autonomia di giudizio. Concepiva il Partito socialista europeo all’interno di una grande coalizione come l’Ulivo, ma non immaginava questa coalizione, la federazione che la poteva coronare, come un partito unico che cancellasse la tradizione socialista e la sua eredità. Il suo non era il rosario del riformismo, che fa pure Berlusconi, ma la volontà di qualificare con le riforme l’identità di un partito. Quelle riforme che stentano ancora, come ricordava Penna, ad essere al centro del dibattito politico, in una fase in cui assistiamo all’infuriare di alcune polemiche sulle forme organizzative o sugli strumenti di una politica dei programmi usa e getta, che dimostra come i programmi siano ancora considerati troppe volte pezze da appoggio e non scelte strategiche.

Come Sottosegretario alle Finanze e come Capogruppo nella Commissione Finanza del Senato, Vigevani continuò questa battaglia, e visse male il condizionamento di Cossiga che portò al primo affossamento dell’Ulivo. Non fu conquistato dal fascino del blairismo: temeva una modernità senza alternativa e quindi senza diritti. Il fatto di non averlo ripresentato come candidato alle elezioni, è stata una colpa, ma anche una scelta rivelatrice se si pensa ad altre candidature adottate al suo posto.

Penso oggi più di ieri che trasformare i Democratici di Sinistra nel Partito Socialista Europeo all’interno di una federazione dell’Ulivo sia uno di quei messaggi di Fausto che non va smarrito, ed è forse il modo di uscire da tante ambiguità e da ogni forma di quel trasformismo che egli disprezzava.

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