di Renzo PENNA – L’ultimo libro del professor Luciano Gallino (Il denaro, il debito e la doppia crisi – Einaudi 2015), una sorta di testamento politico-sociale rivolto ai giovani (i nipoti), analizza la doppia crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Fra di loro strettamente collegate, con la seconda dipendente dalla prima. Una doppia crisi che è stata, dagli anni ’80 in poi, la causa fondamentale della sconfitta teorica e pratica dell’idea di uguaglianza. Idea, soprattutto politica, che si è affermata con la Rivoluzione francese ed ha avuto nel corso di due secoli una marcia faticosa e incerta, ma che nel complesso ha registrato risultati straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto a tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza.
I periodi più favorevoli per l’affermazione di tale principio sono stati gli anni trenta con la presidenza Roosevelt negli Stati Uniti e i primi trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, in quasi tutti gli Stati europei, compresa l’Italia. Una marcia che sul finire degli anni ’70 si è arrestata perché – secondo il professore di Torino – chi l’aveva subita, una ristretta classe di personaggi super-potenti e super-ricchi che controlla la finanza, la politica e i media, iniziò un feroce e sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l’uguaglianza. Si tratta dell’1 per cento della popolazione mondiale, criticato nei moti di piazza anti Wall Street, che le recenti statistiche sulla concentrazione della ricchezza confermano.
Iniziarono i governi Reagan e Thatcher con lo smantellare i sindacati; in Francia Francois Mitterand liberalizzò senza limiti i movimenti di capitale e le attività speculative delle banche (una delle radici della crisi attuale); in Germania Gerhard Schroder, tradendo lo spirito e la pratica della socialdemocrazia, assestò, con le leggi note come Agenda 2010, un duro colpo ai salari, ai sussidi di disoccupazione, alle condizioni di lavoro nelle fabbriche, alla sanità e alle pensioni. In Italia ci hanno pensato le leggi Treu del ’97, Maroni-Sacconi del 2003, Monti-Fornero del 2012, Renzi del 2014-’15, ad accrescere il precariato, a ridurre con l’eliminazione dei diritti la dignità dei lavoratori e a mettere in discussione il ruolo dei sindacati. Nello stesso arco di tempo i governi hanno operato drastiche riduzioni all’istruzione, all’università, alle pensioni, alla sanità, in base al racconto – del tutto falso – che tutti si era vissuti al di sopra dei nostri mezzi.
Tornando alla doppia crisi, Gallino sostiene che la stessa crisi del capitalismo abbia diversi aspetti: l’incapacità di vendere tutto quello che produce; la riduzione drastica dei produttori dei beni e servizi che abbiano un reale valore d’uso; lo sviluppo senza controlli e regole del sistema finanziario, divenuto il vero dominus di ogni aspetto della vita sociale. Alle quali si reagisce aumentando lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita e ostacolando in diversi modi gli interventi che sarebbero necessari per preservare il sistema ecologico della terra, prima che sia troppo tardi. Il tutto applicato con il sostegno di una ferrea teoria ideologica, quella del neoliberismo, che riduce tutto e tutti a mere macchine contabili.
Ma le contraddizioni di questo modello stanno raggiungendo punti di criticità sempre più evidenti e si stanno scontrando con la crisi irreversibile del sistema ecologico. Da un lato l’economia capitalistica consuma molte più risorse biologiche di quante la Terra non produca o riesca a produrre, mentre le riserve fossili sono in via di esaurimento. Dall’altro lato i guasti inferti al clima, non solo sotto forma di riscaldamento globale dell’atmosfera, stanno per raggiungere un punto oltre il quale i danni alle condizioni di esistenza di gran parte dell’umanità potrebbero diventare irreversibili. Alcuni dati testimoniano ciò in modo inequivocabile. Alla fine del primo decennio del nuovo secolo l’impronta ecologica dell’umanità era stimata in 1,5. Una cifra che significa un consumo delle risorse biologiche e delle capacità di rigenerazione dei terreni, dei mari, dei boschi, da parte della popolazione mondiale, che necessita di una Terra una volta e mezza più grande. E questo avviene perché l’80 per cento dei consumi è dovuto solamente al 20 per cento della popolazione. Se i consumi della parte restante del pianeta – come sarebbe giusto – dovessero avvicinarsi a quelli dei paesi più ricchi, di Terre ne servirebbero quattro o cinque. Per quanto riguarda le risorse fossili (carbone, petrolio, minerali) queste rappresentano una grandezza finita, mentre il sistema capitalistico opera come fosse infinita. Da qui deriva, con l’obiettivo dichiarato di superare l’attuale crisi economico-finanziaria, la continua riproposizione e invocazione della crescita dei consumi per sostenere la crescita dei prodotti e delle produzioni, come fosse possibile ripetere, nei paesi sviluppati – Europa e Stati Uniti – uno sviluppo basato sulle quantità e analogo a quello registrato nei primi tre decenni dell’ultimo dopoguerra.
Ancora più preoccupante, e con fenomeni evidenti in forte aumento, è la crisi climatica, dovuta sostanzialmente al riscaldamento dell’atmosfera prodotto dalle attività umane. Sin qui le denunce concordi del 97 per cento degli scienziati che studiano il clima sono rimaste del tutto inascoltate. E ciò nonostante che gli effetti del riscaldamento del pianeta si ripetano ormai ogni giorno e riguardino eventi pluviali o nevosi di portata catastrofica e localizzazioni mai prima verificate. La generazione di questi fenomeni è ormai conosciuta e, tutto sommato, semplice. L’aumento delle temperature dei mari e dei ghiacciai perenni dell’Artide, dell’Antartide, della Groenlandia ha fatto si che miliardi di metri cubi di acqua si trasformino in vapore aggiunto per ripiombare, nelle forme violente che abbiamo imparato a conoscere, sulla Terra. Così come viene dato per certo un aumento del livello dei mari che potrebbe allagare diverse zone costiere, comprese le città rivierasche che le popolano. Inoltre la maggioranza degli studiosi del clima ritiene che potremmo essere vicini a punti di non ritorno che procurerebbero alle condizioni di vita di ampie zone dell’umanità danni gravissimi e irreversibili. Causando lo spostamento, per motivi ambientali, di intere popolazioni che si aggiungerebbe agli attuali esodi dovuti alle guerre e alla fame.
A conclusione di questa parte del racconto, accanto al timore per ciò che potrebbe accadere, viene proposta dall’autore una considerazione morale. Quasi quaranta anni fa il filosofo Hans Jonas pubblicava l’opera Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, che risulta oggi ancor più valida di allora. L’uomo, in forza dello sviluppo della tecnologia, ha conseguito un potere senza precedenti sul destino del pianeta e con esso dell’intera umanità. Simile potere dovrebbe aver trasmesso ai principali decisori economico-sociali una consapevole responsabilità. D’altronde già nei primi anni ’70 il rapporto del Club di Roma di Aurelio Peccei si era incaricato di dimostrare che, essendo le risorse della Terra non infinite, dovevano essere posti per tempo dei limiti alla crescita. In conclusione non sta accadendo qualcosa a cui noi assistiamo come semplici spettatori, ma siamo noi gli attori primi del destino che stiamo preparando a noi stessi e ai nostri discendenti. Non tra decenni, come pensa chi, egoisticamente, si comporta e decide in maniera irresponsabile, ma in un futuro prossimo valutabile in pochi decenni. Come afferma, insieme ad altri, un autorevole rapporto dell’Onu di fine 2014. Di conseguenza occorre pensare ad una svolta radicale del modo di organizzare e indirizzare l’economia e cambiare l’attuale modello di crescita. Sapendo che non sarà un’impresa facile. I governi e le istituzioni europee, nonostante i disastri che hanno combinato negli ultimi decenni con le politiche di austerità, continuano acriticamente a mantenere nelle dottrine e nelle politiche neoliberali i riferimenti fondamentali per le loro decisioni.
Le vie per uscirne non sono molte e non tutte auspicabili, specie se dovesse continuare ad essere perseguita una crescita dissennata dei consumi e delle diseguaglianze in spregio, non solo del presente, ma del futuro dell’umanità. Luciano Gallino dedica l’ultimo capitolo del suo volume alla ricerca di valide alternative in grado di sottoporre il capitalismo ad un grado ragionevole di controllo democratico. Ve lo consiglio insieme al libro che è tutto da leggere.
Alessandria, 25 ottobre 2015
Interessante, utile per chi come me non ha letto il libro di Gallino, condivisibile idealmente. Dopo di che alle analisi della situazione, manca una teoria globale per la soluzione del problema che tenga assieme il risparmio delle risorse e il problema del lavoro in occidente e la fame dei paesi sottosviluppati, i problemi della finanza e della politica mondiale, le guerre in medio oriente e con-seguente migrazione dei popoli.Come disse Pasolini”Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca prima che restiamo tutti annegati. Siamo sempre al ‘Che fare? di leniniana memoria?