Ma io non voglio morire centrista

di Massimo L. Salvadori

Da: ” Gli argomenti umani”

Nel suo articolo Reichlin pone tre questioni di fondo: la necessità per l’Ulivo di riorganizzarsi; l’urgenza di ridefinire una cultura politica all’altezza dei grandi mutamenti in corso a livello internazionale; l’esigenza di una riflessione sulla vexata quaestio del rapporto tra l’attuale sinistra italiana e la socialdemocrazia, che egli si domanda in maniera problematica se in futuro possa o meno riacquistare un ruolo strategico. Si possono condividere o meno, in tutto o in parte le sue argomentazioni, ma si deve riconoscere che Reichlin da tempo invita meritoriamente a riflettere sui nodi essenziali che occorre sforzarsi di sciogliere. Mi pare di intendere che egli sia mosso da una preoccupazione di fondo – che chi scrive condivide pienamente – ovvero che all’interno delle forze di centro-sinistra, le quali sentono il bisogno di procedere a nuove riorganizzazioni e accorpamenti, non si avverta al contempo in maniera adeguata la necessità di avviare un confronto di ampio respiro sui temi di cultura politica, in risposta ai grandi interrogativi del nostro tempo. Non si tratta naturalmente di rispondere a esigenze in certo modo accademiche, ma di sforzarsi di dare all’agire politico quel sostegno, quell’orientamento ideale che costituisce una bussola necessaria.

Circa la necessità per l’Ulivo di riorganizzarsi.

Chiunque abbia solo buonsenso avverte questa esigenza come pressante. È infatti sotto gli occhi di tutti che -mentre il centro-destra mostra ormai in maniera via via più vistosa le sue gravi carenze – il centro-sinistra, il quale gode di una rendita passiva nella denuncia delle malefatte altrui, difetta dell’intesa programmatica indispensabile per dare alla maggioranza del paese la sensazione che esso sia in grado di offrire una costruttiva alternativa di governo. Sennonché l’accordo generale per una maggiore unità costituisce una mera precondizione rispetto a quello che attiene alla formula più efficace dell’unità.

Reichlin osserva che «l’Ulivo come sommatoria di troppi partiti piccoli e medi, ossessionati dal problema di differenziarsi per difendere la propria quota di elettorato, non regge». Di qui l’indicazione di un percorso a due fasi per superare questa debolezza: la prima è la lista Prodi alle elezioni europee; la seconda l’avvio di «un processo unitario più organico» che veda le diverse correnti del riformismo italiano impegnate in questo processo elaborare «una visione comune del problema nazionale». Il discorso di Reichlin, così formulato, lascia però aperta la questione della natura del passaggio dalla lista Prodi al processo unitario più organico: il quale una cosa è se concepito come finalizzato in prospettiva alla formazione un partito unitario riformista, un’altra assai diversa se considerato come una federazione di partiti.

A proposito delle differenze interne al centro-sinistra, sono anch’io ben consapevole di quanto conti l’attaccamento di chi vive di politica alle proprie rendite di posizione e di quali interessi di bottega ne derivino, ma non ritengo che queste differenze siano riconducibili essenzialmente alla difesa di quote elettorali. Esse riflettono anche una pluralità di identità che corrispondono a concezioni diverse delle politiche da perseguire: basti pensare alle recenti divisioni emerse in campi certo non secondari, come la politica estera o la normativa sulla fecondazione assistita. D’altro canto, e per buona sorte, vi sono altresì importanti motivi che uniscono e fanno dell’insieme uno schieramento orientato a elaborare un comune programma di governo. Il che sta a dire che, se le cause principali delle divisioni sono essenzialmente di bassa lega, allora è un dovere cercare di spazzarle via quanto più possibile con energia; ma, se così non è – come io credo – allora le accelerazioni nei progetti di riorganizzazione richiedono prudenza, poiché esse potrebbero produrre prima o poi effetti contrari a quelli perseguiti e portare a risultati più che altro formali.

I percorsi possibili della riorganizzazione dell’Ulivo sembrano essere tre. Il primo è la formazione di una lista Prodi per le elezioni europee, quale premessa di un partito riformista formato da Ds, Margherita, Sdi, con la conseguente formazione di un gruppo dirigente unitario. Il secondo è prima la lista Prodi e poi una federazione di partiti. Il terzo è una lista Prodi, cui segue un’alleanza dei partiti dell’Ulivo con le altre componenti del centro-sinistra sotto la leadership dello stesso Prodi, impegnata a elaborare un comune programma di governo in vista del 2006.

A mio giudizio, come ho già avuto modo di argomentare anche in altra sede, la via che porta verso il partito riformista ha una solida giustificazione solo se si pensa – e questo è il punto di vista, ad esempio, di Salvati e di Morando – che esista ormai una sostanziale omogeneità negli interessi, nei valori e nella cultura politica dei Ds e della Margherita ovvero tra la sinistra e il centro riformisti: un’omogeneità che richiede di essere elevata a fatto politico-organizzativo, costituendo un unico gruppo dirigente posto sotto la leadership di Prodi ovvero della cultura centrista della Margherita (che all’egemonia di questa cultura non ha alcuna intenzione di rinunciare, poiché la ritiene il perno della politica di governo). Orbene, non vedo come l’attuazione di una simile linea possa evitare due conseguenze: l’una è di inasprire il confronto tra le diverse correnti dei Ds (il che Salvati e Morando sono disposti ad accettare fino all’estremo di una scissione); l’altra di aprire un problema di rappresentanza a sinistra e di provocare sbandamento a livello elettorale quanto meno di una parte della sinistra che, disposta ad affidarsi a Prodi come premier ma non come leader di partito (naturalmente questa funzione potrebbe essere anche svolta non da Prodi ma da un prodiano), potrebbe cadere in uno stato di scoramento e di isolamento oppure finire, probabilmente con molto insoddisfazione, per affidare la propria rappresentanza alla sinistra radicaleggiante di varia scuola e corrente.

Quanto all’Ulivo quale federazione di partiti, questa ipotesi può avere un senso se concepita quale tappa verso il partito unico; altrimenti non si vede in che cosa sia sostanzialmente diversa da un’alleanza. Comunque, e questo è un punto fondamentale, se anche si pervenisse a costituire il partito riformista o una federazione dei partiti riformisti, resterebbe sempre quello che, al fine di vincere le elezioni, è il vero problema, e cioè che l’intesa principale da stabilire e rendere davvero efficace è tra tutte le componenti del centro-sinistra. E a me sembra un timore non infondato che le strette unitarie di una parte possano portare – e segni in tal senso sono già ben visibili – ad accrescere e non a diminuire i contrasti e le divisioni all’interno dell’insieme. Resta la terza opzione: l’Ulivo che – sulla base della candidatura di Prodi alla guida del governo – si pone come alleanza di partiti e asse dell’intesa generale, allo scopo di elaborare un programma di governo che unisca tutte le forze contro il centro-destra. Questa è la formula che corrisponde tuttora a mio giudizio alle possibilità proprie di uno schieramento composto da partiti la cui diversità, con certi risvolti poco nobili, è un dato di fatto che resta attivo anche per quanto riguarda Ds, Margherita e Sdi. Convengo con Reichlin che questo stato di cose presenta costi assai negativi, ma ritengo che la linea strategica delle ricomposizioni debba andare in direzione non già dell’accorpamento dei Ds con la Margherita e Sdi, bensì del rinnovamento dei Ds in quanto partito della sinistra autonomo dai centristi della coalizione di centro-sinistra, inteso a porsi l’obiettivo di rappresentare un saldo punto di riferimento per l’intera sinistra italiana. L’Italia, penso, non ha bisogno di un partito riformista in cui la sinistra si appiattisca sul centro, ma di un grande partito della sinistra alleato con il centro della coalizione. Le ragioni di questa mia posizione stanno nelle considerazioni che seguono.

Circa la necessità di ridefinire una cultura politica e le ricorrenti ambizioni del giobertismo nazionale

Reichlin insiste nel sottolineare che una forza politica riformatrice ha bisogno di una cultura politica all’altezza dei suoi compiti. Ho già detto che concordo pienamente con lui, che si rende necessario un riarmo culturale e che si richiede lo sforzo di pensare in termini di sistema nel quadro del processo di mondializzazione. Su questo tema queste le mie sintetiche conclusioni.

Poiché il contesto internazionale diventa via via più condizionante, anche le strategie politiche nazionali devono partire da tale dato di fondo e loro compito è di mirare alla costruzione di soggetti politici che siano in grado di operare con efficacia a livello e internazionale e nazionale, dove per noi internazionale vuol dire anzitutto europeo. Per la sinistra europea l’unico soggetto che abbia consistenza resta, quali che siano i suoi non pochi problemi, quello socialista. Ma ecco spuntare nel nostro panorama sempre nuove varianti del giobertismo, il quale ha una lunga tradizione che sembra non finire: l’idea della missione o addirittura del primato politico-ideologico dell’Italia in Europa e addirittura nel mondo. L’avevano concepita Gioberti in chiave cattolica, Mazzini in chiave nazionaldemocratica, Mussolini in chiave nazionalfascista, Berlinguer in chiave nazionalcomunista con quell’eurocomunismo di cui il comunismo italiano doveva costituire l’anima vivificatrice. Da ultimo l’hanno concepita i nostri teorici dell’ulivismo nazionale, destinato a farsi europeo e persino mondiale: un progetto che, partito dai nodi irrisolti della politica italiana, avrebbe dovuto approdare in Europa e oltre l’Europa, con la costituzione di soggetti riformisti nuovi, in grado di amalgamare socialdemocratici, democratici laici e cristiani progressisti, insomma riformisti di sinistra e di centro. Io vi vedo il riemergere di una vecchia storia: invece di superare le loro anomalie nazionali, gli italiani vogliono trasferirle fuori dai propri confini, erigendole a modelli.

La mia persuasione è che un soggetto che voglia incorporare troppe componenti tenderà, in termini di cultura politica, a trovare accordi fondati a livello astratto sulla genericità e a livello concreto sul comun denominatore stabilito e persino imposto dalle componenti più moderate. E, infatti, fino a che si tratta di stabilire un accordo basato genericamente sul riformismo e sulla democrazia non nascono problemi; quando invece si entra nel merito del tipo di riformismo e di democrazia, delle scelte politiche da compiersi allora emergono i nodi. Essendo oggi troppi coloro che si qualificano come riformisti e democratici, un richiamo caratterizzante a questi attributi non è in realtà in grado di qualificare utilmente nessuno. Reichlin ricorda il punto di vista dei riformisti di centro che non vogliono morire socialisti. lo capisco questo punto di vista, ma non si capisce però perché chi non è un centrista dovrebbe morire tale. Torno a dire: l’amalgama è possibile e razionale se le differenze tra sinistra e centro hanno perduto di significato. Ma è ciò che non credo.

Circa il nesso tra sinistra e socialdemocrazia

È innegabile che la socialdemocrazia attraversi una crisi profonda. Essa, dovuta al successo dell’offensiva neoliberistica, è paragonabile a quella cui andò incontro per vari decenni il liberismo nel periodo del trionfante interventismo pubblico nell’economia. Le radici di questa crisi paiono abbastanza chiare nelle linee di fondo. Le politiche sociali della socialdemocrazia tra gli anni Trenta e Settanta del Novecento avevano avuto come ambito lo Stato nazionale e il sistema delle grandi fabbriche, e come base di sostegno una possente classe operaia nel quadro del conflitto epocale tra capitalismo e comunismo. Ora gli sviluppi recenti hanno reso decisamente obsoleto un simile ambito, enormemente indebolito il sistema di fabbrica e visto trionfare il capitalismo sul suo antagonista. Di qui l’ineludibile interrogativo su cui Reichlin attira la nostra attenzione: quella della socialdemocrazia è una crisi superabile o no? La risposta dipende da come si giudicano le prospettive dello sviluppo economico-sociale e politico.

Il successo dell’offensiva ideologica e sociale del neoliberismo è giunto al capolinea. Il capitalismo attuale mostra di non essere in grado di mantenere le sue promesse a partire dal paese-guida, dove la democrazia sta conoscendo un processo degenerativo, in quanto è svuotata dal potere di una plutocrazia insensibile alla solidarietà sociale, impegnata a fare del riarmo permanente la base dello sviluppo interno, tesa ad un disegno di dominio mondiale che non ha precedenti, insofferente dei limiti posti al suo strapotere dalle Nazioni unite, decisa ad attuare nei rapporti con gli altri paesi una nuova versione del divide et impera, indifferente alle tragedie della diffusa povertà, orientata a respingere le politiche ambientali.

Le tendenze degenerative americane vanno estendendosi in varie parti del mondo, tanto che si è creata un’internazionale capitalistica neoconservatrice, non formalizzata, decisa a sostenere le politiche che aggravano la precarietà del lavoro; danno l’assalto a quanto rimane del Welfare State; spostano le frontiere del reddito sempre più a favore degli strati alti e a danno degli strati inferiori, così da allargare le zone della povertà a livello nazionale e mondiale; indeboliscono le organizzazioni sindacali; riducono l’area dei diritti sociali nei paesi avanzati e si oppongono a che questi diritti penetrino nei paesi non sviluppati, al fine di non ostacolare la realizzazione del massimo profitto. Certo siffatte tendenze possono essere contrastate e in effetti sono contestate anche da tendenze interne al capitalismo. È pensabile, ad esempio, che il ritorno al potere dei democratici negli Stati Uniti significherebbe una inversione, quanto meno relativa, di tendenza; ma è altresì da ritenere che non si arriverebbe a nulla di decisivo se mancassero la presenza, lo stimolo e l’opposizione di una forza a livello internazionale che fondi la sua prima ragione politica nel farsi carico, come questione politica primaria, di ciò che si presenta come una nuova gigantesca questione sociale. Il governo politico di questa nuova questione sociale è la sfida principale della democrazia e del riformismo e quel che distingue e anche divide, per aspetti non secondari, il corpo composito dei democratici e dei riformisti che della questione avvertono il peso.

Quale il volto del governo della nuova questione sociale? E quali i tratti di una socialdemocrazia che se ne faccia carico? Prima di cercare di dare alcune risposte, premetto che a mio giudizio una sinistra che perda il suo legame con il socialismo non può sopravvivere mantenendo un significato. Se devono cadere, sinistra e socialismo – è la mia convinzione – sono destinati a cadere insieme. Ci si può ancora domandare: ma il capitalismo, dopo la morte del comunismo, non ha vinto su tutta la linea, tal che non esiste altro riformismo che non una assai parziale correzione dei meccanismi capitalistici sul versante della distribuzione? Premesso che la morte del comunismo, il quale aveva perduto ogni rapporto con il cammino per il miglioramento possibile della condizione umana contribuendo immensamente al trionfo del capitalismo, è da considerarsi come un presupposto necessario del rilancio del socialismo, ecco quali costituiscono a mio avviso i tratti essenziali di una politica socialista:

l’assunzione della nuova questione sociale, come problema che tocca in maniera centrale l’insieme dei rapporti umani;
l’opposizione di principio all’idea – che costituisce l’anima del capitalismo attuale – secondo cui la distribuzione dei beni prodotti non può che avvenire in base ai meccanismi del mercato, governati da rapporti di forza alla cui piramide stanno oligarchie nazionali e internazionali, che spontaneamente tendono all’irresponsabilità sociale e politica;
la valorizzazione come criterio guida primario del fatto che chiunque non disponga delle risorse culturali e materiali – che soltanto consentono di diventare un soggetto in grado di leggere l’alfabeto del mondo in cui vive e di svilupparsi al livello che consente di non restare o di precipitare nella marginalità sociale – è ridotto a non persona;
la lotta per la ripresa nei paesi avanzati dei diritti sociali e per la loro diffusione nei paesi arretrati, dove lo sfruttamento indiscriminato costituisce sia un fattore di abbrutimento umano sia la causa di facili profitti, motivo di concorrenza sleale e di caduta dell’occupazione per i lavoratori dei paesi avanzati;
il rilancio internazionale delle politiche del welfare (che si potranno riformare quanto si vuole, ma che richiedono pur sempre uno spostamento adeguato di risorse dai ceti alti a quelli bassi);
il primato delle politiche sociali e del ruolo dei governi democratici sui meccanismi del mercato, in opposizione alla pretesa che i governi debbano essere al servizio del mercato e del mondo degli affari;
il recupero di un impulso etico che si ponga in totale contrasto con il dilagante spirito predatorio degli strati ricchi che, mediante la corruzione e l’uso spregiudicato del potere finanziario, non esitano a esercitare una permanente violenza sociale, diretta a garantire loro livelli di reddito abnormi e tale da mettere in luce l’esistenza di una vera e propria patologia morale.
Per parte mia penso che la crisi attuale della sinistra sia dovuta non certo a una sorta di necessità storica, ma al fatto che essa si muove alla retroguardia dei processi economici e sociali in corso, dominati dalle oligarchie del potere economico, e ha perduto molto di quello slancio etico e umano che aveva costituito una sua grande forza nel passato. Occorre che la sinistra esca dalla contraddizione che consiste da un lato nell’avvertire che è sorta una nuova grande questione sociale, e dall’altro nel pensare che per affrontarla realisticamente ci si possa solo affidare alle unioni troppo indistinte dei riformisti e dei democratici.

Per tornare alle cose di casa nostra, tiro queste somme da quanto detto finora. La via da seguire è quella che porta insieme e alla ripresa della funzione autonoma della sinistra e alla costruzione delle indispensabili alleanze ai fini della sconfitta del centro-destra: la prima, in vista di una strategia di più lungo periodo che richiede di essere preparata fin da ora; la seconda delle esigenze prossime di governo del paese. È la via che dovrebbe indurre i Ds, per i quali il consenso sembra crescere nel paese, a mantenere saldo il collegamento con la socialdemocrazia internazionale; a contribuire alla ripresa culturale e ideale di questa, a porsi come perno della ricomposizione della sinistra italiana nelle sue varie componenti (e infatti solo se i Ds resteranno fermi nel loro ancoraggio alla sinistra i neocomunisti potranno essere indotti ad un dialogo critico, che potrebbe portarli in una prospettiva non lontana a una ricomposizione su basi socialiste). Non penso, infatti, che i neocomunisti potrebbero restare ancora a lungo sul loro Aventino ideologico, se i Ds si decidessero a prendere in maniera decisa un’iniziativa di rilancio della sinistra. È l’assenza di questa iniziativa che favorisce il loro sempre più stanco Aventino, che però può non solo mantenere ma anche accrescere una forza di richiamo.

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