Paolo LEON: “La nuova Commissione di Juncker si muove nel solco di una sostanziale continuità con il passato”

European- and council election campaignDi Paolo Leon da “Rassegna Sindacale” – 26/09/2014. E’ impressionante la continuità europea delle politiche economiche conservatrici: nonostante la più grave crisi dal 1929, le politiche europee hanno operato in senso sempre più recessivo. I parametri di Maastricht (3 per cento deficit-Pil) hanno mantenuto una flessibilità da normale ciclo economico, mentre nel corso della crisi sono stati approvati interventi sempre più depressivi: euro-plus, two-pack, six-pack, fiscal compact, pareggio di bilancio pubblico in Costituzione.  E le cose non sono cambiate, nonostante le promesse, con la nuova Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker, i cui componenti si sono insediati ufficialmente lo scorso 10 settembre: da un lato, con la risibile somma del contributo promesso di 300 miliardi di euro per la crescita, da dividere in 6 anni e 28 paesi, e che deriva dallo stesso credito dei singoli paesi membri,  e, dall’altro e soprattutto, con il mantenimento a oltranza delle politiche di austerità, anche quando le basi teorico-statistiche del rapporto austerità e crescita sono state falsificate.

È evidente in quello che si è fatto – e in quello che si continua a fare – la negazione delle politiche keynesiane e la forza delle idee alla Hayek, ovvero di un liberalismo sfrenato, fondato sulle politiche di offerta: la riduzione del costo e delle rigidità contrattuali del lavoro, la riduzione del ruolo dello Stato, il disprezzo per i corpi intermedi, e in particolare del sindacato, e – quasi dappertutto – delle imprese pubbliche. C’è qualcosa di più: la natura santificata del debito e, perciò, della proprietà privata; uno dei princìpi microeconomici sublimati nella macroeconomia, che sta arrecando danni immensi ai debitori e guadagni cartacei ai creditori.

È difficile capire questa capacità di resistenza
del pensiero liberale nella crisi, e le spiegazioni sono tutte deboli. Così, ritenere che un peggioramento della distribuzione del reddito a favore dei profitti darebbe un segnale di fiducia alle imprese, che investirebbero e riassumerebbero i lavoratori licenziati, si scontra sull’assenza di una domanda sufficiente per giustificare l’investimento. È possibile che si sia generata una confusione nella testa dei politici, per i quali la beneficienza privata è un efficace sostituto dello Stato sociale, che dunque può essere smantellato: per i liberali la disoccupazione è frutto della pigrizia dei lavoratori, e non meritano nulla, o della sfortuna, e meritano la beneficienza. È anche poco credibile che alcuni paesi, come la Germania, abbiano perseguito l’impoverimento di altri, entro l’Unione, al solo scopo di uscire dalla recessione: era troppo chiara la conseguenza sulla scarsa tenuta dell’Unione stessa, e la perdita futura di egemonia. Ancora meno credibile l’idea che la riduzione del ruolo pubblico avrebbe ridotto la corruzione, fornendo le risorse per investimenti, quasi che la corruzione non sia presente anche nel settore privato e senza dire che ogni riduzione di corruzione, illegalità, spreco, non sostituiti da spesa pubblica – sperabilmente onesta e utile – ha paradossalmente effetti recessivi.

Fa impressione osservare come il presidente Obama, nel suo primo term e in piena crisi economica, quando aveva la maggioranza in Congresso, abbia promosso una forte politica di spesa pubblica, ma come, perduta la maggioranza alla Camera, abbia visto crescere la resistenza alle strategie d’intervento: quasi che le tendenze conservatrici fossero state rafforzate dal successo delle politiche dello stesso Obama, e temessero più il maggior debito pubblico derivante dalla spesa federale che la disoccupazione di massa. È un fatto che l’arresto delle politiche di stimolo e la ripresa delle politiche repressive abbiano generato la deflazione. Ma mentre la Banca centrale europea e la Fed si sono preoccupate di questa nuova piega della crisi, nessun governo europeo l’ha considerata un segnale di politiche profondamente sbagliate. La deflazione è il risultato della depressione e della crescita insufficiente: nonostante il massiccio aumento di liquidità da parte delle banche centrali, in particolare in Europa, non si è prodotta alcuna inflazione; le banche e le società finanziarie hanno utilizzato la liquidità per acquistare titoli, facendone crescere il prezzo, e aumentando la ricchezza finanziaria, ma non prestando nuovo credito alle imprese, che in assenza di domanda non investono.

Le prove che le politiche recessive pubbliche sono inefficaci, se non peggiorative, sono chiare agli occhi di tutti, ma nulla realmente cambia e, anzi, anche le sinistre politiche si arrampicano sugli specchi: è indicativo che mentre chiedono un forte intervento pubblico, pensano che debba essere finanziato con la lotta agli sprechi e all’evasione, non cogliendo l’essenza delle politiche di ripresa. Queste, vale la pena ripeterlo, finanziano se stesse, perché sono la maggiore domanda e occupazione causate dagli interventi pubblici che generano il reddito necessario per finanziare quegli stessi interventi. Non aver compreso il senso delle politiche della ripresa, e l’irrilevanza del debito conseguente alla maggiore spesa pubblica, mostra quanto coinvolgente sia ancora il pensiero conservatore (del resto, accadde così anche dopo la prima guerra mondiale).

La spiegazione per un’Europa così mercantilista e reazionaria sta forse nella cultura originaria dell’Unione. Se fosse stata costruita una forma di Stato europeo, sarebbe stato necessario costruire anche una responsabilità collettiva di fronte alle crisi – e analogamente di fronte ai boom. Sarebbe stata necessaria non soltanto un’autorità economica e finanziaria europea, ma una forma di Credit Union, capace di distribuire la liquidità necessaria ai paesi in deficit, recuperandola dai paesi in surplus: la Banca centrale europea poteva essere proprio una tale istituzione, ma ciò fu espressamente vietato alla nascita dell’euro. Non si è voluto uno Stato europeo, perché l’Europa non è stata pacificata dal trattato di Maastricht, anche per la visione ristretta di Mitterrand, spaventato da una grande Germania, ma incapace di capirne la forza, se non fosse stata ingabbiata da quella forma di Credit Union. Del resto, né i francesi, né i tedeschi hanno mai capito nulla di Keynes: così, indipendentemente da chi si ritiene di destra o di sinistra, tutti, spinti da un incomprensibile nazionalismo, sono finiti nel crogiuolo conservatore. Che continua, anche oggi, dopo le elezioni e le promesse di cambiamento, a bruciare le speranze e a deprimere l’economia europea.

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