Tsipras in trappola fra Schauble e Hollande

Tzipras in trappolaDi Antonio Lettieri da Eguaglianza & LibertàIl tedesco voleva il Grexit, il francese evitare ad ogni costo che l’uscita dall’euro diventasse un’opzione, per non rafforzare enormemente la Le Pen. Così ha “mediato” proponendo un memorandum tanto irrazionale e punitivo che i falchi non potevano rifiutarlo: e neanche il leader greco, che aveva il mandato di tenere il paese nella moneta unica. Ma una resa dei conti è solo rinviata.
1. L’accordo dell’undicesima ora tra le istituzioni europee e la Grecia ha due caratteristiche peculiari. La prima è che, a differenza di ciò che normalmente si definisce un accordo, non è il risultato di un incontro fra le volontà delle parti, ma l’espressione di un diktat brutalmente imposto alla parte più debole, costretta a subire una resa senza condizioni. La seconda è che nessuna delle parti coinvolte crede all’accordo. Non Alexis Tsipras che ammette di aver dovuto accedervi con il coltello alla gola. Tanto meno Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle finanze tedesco, che è tornato a proporre anche dopo il preteso accordo, come unica vera soluzione, l’uscita “provvisoria” della Grecia dall’euro.

Le condizioni imposte alla Grecia sono le più irrazionali, invasive e punitive fra quelle sperimentate nei precedenti famigerati memorandum. Il debito, secondo il FMI, crescerà fino al 200 per cento del PIL. E, non a caso, la discussione è stata spostata sulla ristrutturazione del debito, nel senso di un prolungamento delle scadenze e di una riduzione dei tassi d’interesse. Ma, per molti versi, è un aggiramento del problema sostanziale, dal momento che l’80 per cento del debito ha già scadenze che si prolungano fino a oltre la metà del secolo con tassi di interesse minimi.

In effetti, la vera questione non riguarda la ristrutturazione del debito quanto le condizioni di politica fiscale ed economica imposte dal nuovo protocollo alla Grecia – condizioni che peggiorano quelle già sperimentate basate sul taglio della spesa e aumento delle tasse. La reiterazione di una terapia che, come ha scritto Paul Krugman, ricorda quella dei salassi: quando i primi non avevano funzionato, il medico ne imponeva altri. Un modo di uccidere gradualmente il malato, piuttosto che curare la malattia.
2. Il diktat imposto al governo greco sfiora in molti casi il grottesco, come quando arriva a dettare regole di concorrenza per l’attività dei panettieri che, con i loro forni artigianali. seguono la tradizione che vuole determinate forme e pesi standard del pane. Ma non c’è spazio per l’ironia, si passa all’imposizione di un incredibile piano di privatizzazioni da 50 miliardi di euro, da attuare sotto la sorveglianza dei padroni dell’eurozona. Il piano era stato già proposto nel 2011, ma poi ridimensionato anche perché il risultato, non ostante la condiscendenza dei governi di destra, ha fornito entrate per tre miliardi euro. Ora il piano di privatizzazioni dovrebbe toccare porti, aeroporti, poste, ferrovie, acqua, gas, elettricità, strade, e ogni tipo di beni o servizi pubblici, monumenti compresi. Un piano insensato che, tradotto su scala italiana, francese o britannica equivarrebbe a 400-500 miliardi di espropriazione di beni pubblici. Perfino Margaret Thatcher si sarebbe fatta qualche scrupolo di arrivare a tanto.
Gli altri aspetti del programma sono economicamente cervellotici e socialmente punitivi: l’aumento dell’Iva al livello standard del 23 per cento – con poche eccezioni al 13 per cento, come i beni alimentari “di base” (?!); la progressiva abolizione dell’integrazione delle pensioni al disotto della soglia di povertà; e, dulcis in fundo, la “riforma strutturale” per eccellenza che impone la sostanziale liquidazione della contrattazione sindacale e la libertà dei licenziamenti collettivi.
Non si può non condividere il giudizio di sintesi di Barry Eichengreen della Berkeley University: “ si tratta di un programma perverso che immergerà la Grecia nella depressione…Alla fine, l’accordo porterà alla Grexit”.
3. A questo punto una domanda è inevitabile. Perché Alexis Tsipras ha stipulato un accordo che contraddice clamorosamente la piattaforma, centrata sul superamento della disastrosa politica di austerità, sulla quale Syriza aveva vinto e elezioni e che il referendum aveva confermato con un consenso di massa superiore a ogni previsione? La risposta di Tsipras è stata singolarmente onesta nel suo duro realismo. Non avevo altra scelta – ha dichiarato – se non firmare “un cattivo accordo nel quale non credo”. Una firma col coltello alla gola: prendere o lasciare. E lasciare significava portare la Grecia fuori dall’euro – un’alternativa che avrebbe tradito il mandato del popoli greco, in grande maggioranza schierato per il mantenimento dell’euro. Chiaramente, una condizione capestro nella quale nessun negoziatore vorrebbe mai trovarsi.

4. Ma qui bisogna aver presente un paradosso. L’alternativa all’accordo nel quale nessuno crede era stata offerta dalla principale controparte, Wolfgang Schäuble: in sostanza, l’uscita a termine della Grecia dall’euro per un periodo di cinque anni. Apparentemente una provocazione negoziale. In realtà, una proposta non casuale diretta, da un lato, a ribadire l’inviolabilità delle regole imperiali dell’eurozona; dall’altro, a lasciare alla provincia la responsabilità del proprio destino. Una proposta niente affatto estemporanea, se si considera il sostegno della grande maggioranza dei paesi dell’eurozona: dai piccoli satelliti baltici alla grande Spagna, passando per la Finlandia, la Slovacchia, l’Irlanda, il Belgio, il Portogallo.
Sospendiamo per un momento il giudizio sulle sue conseguenze, buone o cattive, per la Grecia di questa proposta, e chiediamoci perché e come essa sia stata accantonata. In effetti, lo stop decisivo è venuto da François Hollande. Per il governo francese l’uscita della Grecia dall’euro era un evento inaccettabile La Francia, con la sua crescita esangue, l’elevato disavanzo di bilancio, ancora sopra il fatidico tre per cento, è la vittima più illustre della politica di austerità, imposta dal binomio Berlino-Bruxelles.
Se le istituzioni europee rovesciassero il paradigma dell’irreversibilità dell’euro, se uscirne, più o meno provvisoriamente, diventasse un’opzione possibile, l’opposizione del Fronte nazionale di Marine Le Pen acquisterebbe una chiara e probabilmente irresistibile legittimazione.
Non basta. Se, incoraggiati dall’esempio greco, i francesi fossero chiamati a esprimersi in un referendum rispetto al quale si stemperano le differenze fra le posizioni radicai di destra e di sinistra, con quali possibilità di successo Hollande, il presidente col consenso popolare più basso della storia della V Repubblica, potrebbe credibilmente difendere l’intangibilità dell’euro e le rovinose politiche di austerità? Un referendum si rivela uno strumento di democrazia di massa che i governi, indipendentemente dal loro colore, difficilmente possono controllare. Il loro contagio è minaccioso per i governi, generalmente impopolari, delle province dell’eurozona. Se l’uscita, più o meno provvisoria dall’eurozona, diventasse un’opzione praticabile, secondo la proposta avanzata nei confronti della Grecia, la sfida nei confronti dei governi dei paesi che più direttamente soffrono le conseguenze della fallimentare politica dell’austerità acquisterebbe connotati finora imprevisti.
Per evitare questa deriva Hollande doveva prospettare una contropartita irrinunciabile ad Angela Merkel, che nell’ improvvisato e drammatico tête à tête all’Eliseo, aveva spiegato di non poter arretrare da una posizione di intransigenza nei confronti del governo greco, ma al tempo stesso di considerare con preoccupazione non solo la rottura dell’eurozona, ma anche una pericolosa incrinatura dello scenario geopolitico in un’area esplosiva come il Mediterraneo e i Balcani – problema sollevato con insistenza da Barack Obama.
Alla fine, la mediazione di Hollande è consistita nell’offrire a Merkel e a Schäuble lo scalpo di Tsipras sotto la forma di una resa senza condizioni rispetto alla quale nemmeno il più agguerrito dei falchi poteva opporsi: un programma più duro e invasivo di tutti gli altri in passato firmati dai governi conservatori dei paesi in crisi, dall’Irlanda al Portogallo alla Spagna.

Mediazione, quella di Hollande, o complicità in un’opera di killeraggio di un paese al quale veniva negata la possibilità di un dignitoso compromesso? O, più semplicemente un’ennesima testimonianza della debolezza della Francia nei rapporti di potere all’interno dell’eurozona?

5. Conviene, a questo punto, fare un passo indietro. La realizzazione della moneta unica, come si prospettava all’inizio degli anni ’90, doveva essere nelle intenzioni di Mitterand e di Delors il sigillo irreversibile della partnership franco-tedesca e di un’egemonia condivisa sull’Unione europea. Non a caso, nella costruzione europea, la Francia era stata protagonista indiscussa sin dai tempi di Schumann e Monnet. Le cose erano cambiate dopo l’89 col collasso dell’impero sovietico e la riunificazione tedesca. La crisi dello SME- il sistema monetario europeo – del 1992 aveva portato alla luce del sole la debolezza del franco francese.

L’attacco speculativo alle monete nazionali aveva lasciato sul terreno come vittime due paesi centrali dell’Unione europea, il Regno Unito e l’Italia, costretti a svalutare il cambio e a uscire dallo SME. La Francia si era a stento salvata per l’aiuto della Germania. Il franco francese non era in grado di reggere il cordone ombelicale con il marco. La realizzazione della moneta unica, non ostante la forte opposizione in Germania, divenne la contropartita dell’unificazione tedesca.

La moneta unica avrebbe posto sullo stesso piano il franco e il marco. In realtà era anche il modo di mascherare lo squilibrio crescente fra le due monete e le due economie nazionali. Al treno dell’euro si agganciarono paesi ancora più deboli come l’Italia e via via gli altri. Ma il disegno francese si mostrò illusorio. In effetti, l’euro divenne la versione europea del marco. E l’egemonia tedesca si rafforzò associando alla gestione della moneta unica vincoli di politica fiscale ed economica sempre più stringenti. La partnership franco-tedesca si riduceva progressivamente a un simulacro al quale i governi rendono omaggi formali, senza tuttavia riuscire a nascondere la differenza di autorità nel determinare le politiche dell’eurozona, sempre più chiaramente in mani tedesche.
In questo quadro, l’uscita della Grecia dall’eurozona è stata considerata un passaggio che la Francia doveva scongiurare a ogni costo. Così Hollande – con Matteo Renzi schierato al suo fianco dopo essere stato sostanzialmente escluso dalle diverse fasi del negoziato – ha bloccato la Grexit, manifestazione della reversibilità dell’euro e, insieme, certificazione del fallimento della politica di austerità. Ma per quanto? La proposta di Schäuble, solo provvisoriamente accantonata, di un’uscita concordata, più o meno a termine, dall’eurozona, ha irreversibilmente cambiato lo scenario. La permanenza nell’euro non è garantita per nessuno dei paesi membri. Per stare nell’eurozona bisogna rigorosamente rispettarne le regole, anche se il costo è la riduzione degli Stati sovrani a un protettorato o a una semi-colonia del nuovo impero centrale circondato da una folla di satelliti più o meno grandi.
6. La Grecia, quali che siano le responsabilità delle sue oligarchie dominanti e dei governi sempre sostenuti da Berlino e Bruxelles fino all’avvento di Syriza, è la spia della fondamentale insostenibilità economica dell’eurozona. Così Alan Blinder, professore di economia dell’università di Princeton ed ex vicepresidente della Federal Reserve, ne sintetizza i vizi congeniti. “I paesi –scrive – hanno tre armi principali per combattere le recessioni: lo stimolo fiscale, lo stimolo monetario e il deprezzamento della valuta. L’appartenenza alla zona euro preclude gli ultimi due strumenti.. (mentre) limita brutalmente il primo. Da qui, il problema greco n ° 1: una depressione peggiore della Grande Depressione negli Stati Uniti. L’ultimo accordo sembra destinato a peggiorare questa depressione …. Come trovare una soluzione? Con tassi di cambio fluttuanti, una parvenza di parità sarebbe stata restaurata dal deprezzamento della valuta. Ma questo non può verificarsi con una moneta unica. … Così il problema greco non potrà mai essere risolto fin quando rimarrà nell’eurozona” (Si veda la rubrica Opinions del WSJ, 16 luglio 2015). Quanti altri paesi in crisi, vittime dell’assurda politica dell’austerità, vorranno prenderne nota?
7. L’intransigente ostilità con la quale si è scontrato l’unico partito radicalmente di sinistra finora giunto al governo di un paese dell’euro, forte di uno straordinario consenso democratico di massa, testimonia un fallimento ancora più allarmante di quello economico. L’eurozona è incompatibile con la democrazia. Gli stati membri sono ridotti alla condizione di satelliti dell’impero – fondato fortunatamente non sulla potenza militare, sul dominio monetario che si estende al dominio dell’economia e, indirettamente, dei rapporti sociali. E’ diventato chiaro che non basta cambiare i governi, e non basta un referendum vinto col 62 per cento dei consensi per esercitare il diritto-dovere di rappresentare la volontà popolare democraticamente espressa.
La Grecia ha osato rompere la disciplina, e ne ha pagato duramente il prezzo. Ma la crisi rimane aperta, e il contagio della ribellione, anche seguendo percorsi diversi, è destinato a estendersi: dalla Spagna che celebrerà le elezioni politiche in autunno, alla Francia, dove cresce l’opposizione alle politiche di austerità non solo nell’estrema destra ma anche nell’ala sinistra del Partito socialista, all’Italia – dove per la prima volta, nei sondaggi, l’uscita dall’euro oscilla intorno alla metà, talvolta superandola, delle opinioni espresse.
La tentazione di convocare altri referendum popolari, sull’esempio greco, può diventare un potente strumento democratico in grado di mobilitare, in un approccio unitario contro le politiche rovinose dell’eurozona, forze generalmente distinte o contrapposte nella geografia politica nazionale.
I paesi fuori dall’euro hanno risposto molto meglio all’urto della crisi: dal Regno Unito alla Svezia e alla Polonia – paesi, dove l’economia e l’occupazione sono tornate a crescere. Mentre i paesi che erano candidati a entrare nell’euro hanno preso nota, a cominciare dalla Polonia, dei rischi della partecipazione all’eurozona, e hanno allontanato la prospettiva dell’adesione, se mai si verificherà.
La triste vicenda che coinvolge il popolo greco ha mostrato che la vocazione europea non coincide con l’adesione all’euro. E’ vero piuttosto il contrario. L’euro rischia di distruggere il “sogno” europeo. Non possiamo indovinare il futuro. Ma non è difficile immaginare che, dopo la crisi greca e la sua mancata soluzione, nulla sarà più come prima.

Spread the love

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *