Le politiche di austerità e lo specifico italiano

il lavoro primadi Renzo Penna – 4 settembre 2014. “Il governo di Matteo Renzi, forte dei  consensi ottenuti dal PD alle elezioni europee… dovrebbe costruire alleanze per porre al centro delle priorità dell’azione europea il tema degli investimenti nei settori trategicamente più innovativi, con riforme in grado di aumentare l’occupazione, la produttività e realizzare uno sviluppo qualitativo e sostenibile. Al posto di continuare a considerare un tabù il 3% , spezzando il circolo vizioso di una austerità che, senza creare lavoro e sviluppo dell’economia, finisce per non riuscire a tenere sotto controllo neppure il deficit.  “L’Italia è in deflazione, in agosto l’indice dei prezzi al consumo è calato dello 0,1% rispetto allo stesso mese del 2013. Non accadeva dal 1959, ma allora l’economia era in forte crescita. Il circolo vizioso deflazione-stagnazione è già partito: il tasso di disoccupazione nel secondo semestre è risalito al 12,6%, in aumento dello 0,5% rispetto a un anno prima e si stanno perdendo mille posti di lavoro al giorno. Tra i 15 e i 24 anni la disoccupazione è al 46%, mentre al Sud due terzi dei giovani non lavora. Solo la Croazia, la Grecia e la Spagna hanno indici peggiori. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. I salari dei lavoratori e dei pensionati da anni sono fermi e, insieme ad una mancanza di fiducia sul futuro, concorrono, nonostante la bassa inflazione, alla riduzione dei consumi.
Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti, qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale, per fare solo un esempio, è diminuita del 65 per cento. Ma è da alcuni decenni che al governo del Paese manca una seria e credibile politica industriale. Con l’avvento della moneta unica e l’impossibilità di avvalersi della svalutazione competitiva della lira, a cui si era ripetutamente ricorso in precedenza, si è evidenziata la debolezza di una dimensione strutturale delle imprese eccessivamente medio-piccola e, salvo lodevoli eccezioni, con una specializzazione produttiva in settori a basso contenuto tecnologico. Due caratteristiche che rappresentano vere e proprie anomalie dell’Italia nel contesto europeo, con evidenti effetti sulla competitività commerciale del Paese. Spostare le lavorazioni su prodotti a maggior valore aggiunto, come ha fatto la Germania, permette di avvantaggiarsi in competitività e incrementare il segno positivo della bilancia commerciale. Se non ci si adegua si registra una perdita di competitività che si traduce a sua volta in una minore crescita relativa. Ma i prodotti a maggior valore aggiunto nascono da strutture produttive dotate di risorse finanziarie e capacità di adeguati investimenti nei campi della Ricerca e dell’Innovazione, più facilmente rintracciabili in imprese di medio-grandi dimensioni.
A questa specificità italiana, che rappresenta un notevole handicap, si è aggiunto, in campo europeo, un indirizzo economico neo-liberista incentrato sul rigore, la compressione del costo del lavoro e la facile licenziabilità dei dipendenti, la riduzione del debito e l’intransigente rispetto del parametro deficit/Pil del 3%. A proposito di debito pubblico quello del nostro Paese ha superato i 2100 miliardi ed è impensabile possa ridursi in maniera significativa se, al contempo, non riprende lo sviluppo dell’economia ed aumentano i posti di lavoro. Quando crescita ed occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit, a causa degli interessi, cresce automaticamente. Quindi il deficit rappresenta il sintomo del problema, mentre è la bassa crescita e la disoccupazione che determinano l’aumento del rapporto tra debito e prodotto interno lordo. Non il contrario, come vuole la logica che continua ad orientare, soprattutto in Europa, le misure della cosiddetta troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale). Pretendendo politiche di austerità a senso unico che richiedono, anzitutto, di tagliare la spesa pubblica e ridimensionare lo stato sociale (sanità, sicurezza, pensioni, formazione, ricerca, cultura…). Un conto è, infatti, la riorganizzazione dell’apparato pubblico e la riduzione degli sprechi, altra cosa sono i tagli draconiani prodotti in questi anni sui servizi che hanno peggiorato le condizioni di vita di milioni di cittadini, aumentato le diseguaglianze e impoverito i ceto medio.

Le politiche di austerità, richieste da Bruxelles, sono state, oltretutto, praticate acriticamente e senza sollevare obiezioni dagli ultimi governi italiani. Addirittura nell’aprile 2012, presidente del Consiglio Mario Monti, il Parlamento, con una maggioranza dei due terzi che ha evitato il ricorso al referendum, ha inserito in Costituzione la misura del Fiscal Compact, ovvero l’obbligo di rispettare il pareggio di bilancio. Una decisione sicuramente affrettata che, oggi, anche alcuni che l’hanno votata ritengono sbagliata e che dovrebbe entrare in vigore nel 2015. Diversamente si è comportata, nel concreto, la Germania, che ha favorito in ogni modo l’esportazione dei suoi prodotti a scapito degli altri Paesi dell’Eurozona, o la Francia che, infatti, non sta rispettando il 3%.

In questo contesto il governo di Matteo Renzi, forte dei consensi ottenuti dal PD alle elezioni europee dello scorso maggio e finalizzando le opportunità che gli sono offerte dal semestre di presidenza della Unione, dovrebbe avviare la definizione di un nuovo Trattato che sappia riprendere il percorso di un’Europa federale e, nel contempo, costruire alleanze per porre al centro delle priorità dell’azione europea il tema degli investimenti nei settori strategicamente più innovativi, con riforme in grado di aumentare l’occupazione, la produttività e realizzare uno sviluppo qualitativo e sostenibile. Al posto di continuare a considerare un tabù il 3% , spezzando il circolo vizioso di una austerità che, senza creare lavoro e sviluppo dell’economia, finisce per non riuscire a tenere sotto controllo neppure il deficit.
Sul piano interno il governo, per trovare le risorse per investimenti pubblici in settori innovativi, indispensabili per ottenere anche la crescita del settore privato, deve combattere con più decisione l’evasione fiscale, la corruzione e il riciclaggio dei capitali. A tale proposito una dovuta attenzione va posta alla concentrazione della ricchezza e all’allocazione dei capitali italiani: come sono investiti e, soprattutto, dove si trovano. Secondo Bankitalia 180-200 miliardi di euro sono nei paradisi fiscali. Nel 2010, dati del Ministero del Tesoro, 104 miliardi di euro sono i capitali sanati con lo scudo fiscale. Ma, secondo stime non ufficiali, ma molto attendibili, i capitali italiani che si trovano nelle banche Svizzere si aggirano tra i 900 e i 1000 miliardi di euro. E visto che il sistema promosso dall’OCSE per far tornare regolari i capitali illegalmente portati all’estero – la Voluntary Disclosure, l’autodenuncia volontaria – ha dimostrato di funzionare bene ed è stato applicato con successo, tra gli altri, da Francia, Germania, Belgio e Gran Bretagna, sarebbe importante fosse adottato anche da noi. Riprendendo, ad esempio, il decreto sul VD presentato dal governo Letta nel gennaio di quest’anno e sfruttando la disponibilità delle banche svizzere preoccupate per il superamento dello storico segreto che “dovrebbe” scattare dal 2015. Come si ricorderà le stime su quanto potrà arrivare nelle casse dello Stato dalle imposte pagate per sanare la posizione di chi ha esportato capitali, vanno dai quindici ai trenta miliardi, o, per gli ottimisti, addirittura di più. Una decisione che, se attuata, potrebbe risolvere molti dei problemi di copertura delle spese decise dall’esecutivo e rendere meno dominanti e opprimenti nel Paese i temi della spending review e dei tagli alla spesa pubblica.
Per recuperare, poi, un rapporto meno conflittuale con le parti sociali e, in particolare, le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese, l’Esecutivo di Matteo Renzi le dovrebbe impegnare proponendo loro i contenuti di un accordo, di un patto per lo sviluppo, per la solidarietà e l’innovazione del Paese. Un confronto serrato e un dialogo impegnato capace di favorire l’uscita dalla crisi, finalizzato a ricreare, in primo luogo, una prospettiva più solida per il futuro delle giovani generazioni.”

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