“Giacomo Matteotti, un riformista rivoluzionario”
di Antonio Bolognesi
“Ho scoperto chi era veramente Giacomo Matteotti più di vent’anni fa per caso. A Ferrara su una bancarella fra i libri di storia mi attirò un titolo “Per Matteotti” e soprattutto l’autore Piero Gobetti. Di Matteotti allora avevo una conoscenza superficiale: il martire dell’antifascismo, il riformista turatiano. Ma la parola riformista anche allora non era tanto di moda nella sinistra e non solo fra i comunisti. Mi ricordo che Riccardo Lombardi, in una delle sue assemblee alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, negli anni ’70 ci spiegò che lui non si considerava un riformista ma un riformatore. Come dire non c’entro niente con Turati e Matteotti e da lombardiano di ferro non potevo che condividere. Ma tornando alla bancarella non mi risultavano collegamenti fra i due grandi antifascisti e incuriosito lo comprai. Era un piccolo libro dal costo di 10.000 lire, che gelosamente conservo, e la cui lettura mi coinvolse fin dall’inizio.
Nel 1914-15 Matteotti, che già prima della guerra nel Polesine era un autorevole capo socialista, si schierò apertamente contro la guerra. Nei comizi criticava la posizione del PSI dell’ambigua formula “né aderire né sabotare” ed arrivò ad invocare l’insurrezione popolare per la pace. In un articolo su la Critica Sociale attaccò lo stesso Turati: “conosco le regioni dove il proletariato è pronto a qualsiasi appello” scrisse, con riferimento al Polesine ed alle provincie vicine. Pochi giorni prima del 24 maggio, in piazza a Rovigo “previde una guerra lunga, difficile disastrosa anche per i vincitori.” Una guerra inutile perché, profetizzò, le nazioni perdenti avrebbe cercato poi la rivincita. A guerra finita, quando furono autorizzati i comizi, tutti gli oratori socialisti mentre “la spagnola infuriava… inveivano contro la guerra, contro il governo, contro i partiti, contro i padroni e terminavano inneggiando alla rivoluzione, al bolscevismo, a Lenin”. Era il risultato della svolta a sinistra dei congressi di Roma, del settembre 1918 e di Bologna, dell’ottobre 1919. Matteotti nel dopoguerra era in minoranza nel PSI del Polesine ma divenne il riferimento dei socialisti. Aldo Parini suo braccio destro, un riformista romagnolo che Matteotti chiamò a dirigere la CGdL, divenne, nel ‘19 anche segretario del PSI. Sotto la loro guida la CGdL arrivò ad avere 50.000 iscritti. Alle elezioni politiche del 1919 i socialisti nel collegio Ferrara-Rovigo conquistarono il 70% dei voti e 6 deputati sugli otto eletti. Per il Polesine, oltre a Matteotti furono eletti Galileo Beghi, altro riformista e Dante Gallani, leader dei massimalisti, per i socialisti e il popolare Umberto Merlin. In quella campagna elettorale, in polemica con Nicola Badaloni il fondatore del socialismo nel Polesine ed uno dei primi deputati del PSI, difese la rivoluzione russa ma era convinto che in Italia “al massimo si poteva fare qualche rivolta” a differenza di Dante Gallani che riteneva imminente la rivoluzione. Sulla convivenza nel PSI delle diverse posizioni, Matteotti, così scrisse su l’Avanti! del 7 ottobre 1919: “tutti quelli che vogliono sostituire il regime socialista al capitalismo, hanno diritto di cittadinanza nel nostro Partito. Siamo contro i riformisti che vogliono le riforme come fine e non come mezzo e siamo contro quelli che vogliono l’insurrezione come fine e non come mezzo.” Qui è contenuta la sua idea di unità dei socialisti e la sua strategia della rivoluzione da raggiungere con dei “passi progressivi” che espose senza molto successo al Congresso di Bologna di quell’anno. Egli non si considerava affatto un moderato ma un “riformista rivoluzionario”. La strada possibile per arrivare al socialismo in Italia per lui non erano i soviet ma il potenziamento del Sindacato, delle Leghe di miglioramento, delle cooperative di lavoro, agricole di consumo, la conquista dei comuni e la diffusione dell’istruzione per rafforzare le “coscienze socialiste.”
Su questa linea, che privilegiava le organizzazioni economiche al partito, nella primavera del ’20 Matteotti e Parini riuscirono a concordare un unico patto agrario provinciale, al posto delle decine di accordi comunali o aziendali allora vigenti. Come in altre provincie dove era grande la forza della CGdL riuscirono ad imporre il collocamento di classe e l’imponibile di manodopera anche nei mesi invernali. Erano misure fondamentali per contrastare la miseria e per poter dividere equamente il lavoro nei campi. Fra i socialisti vi era entusiasmo per il risultato raggiunto ma gli agrari accettarono con rabbia l’accordo definito in seguito “Patto Matteotti”. L’entusiasmo fra i socialisti aumentò ancora quando alle elezioni amministrative dell’autunno, conquistarono tutti i 63 comuni della provincia e la stessa amministrazione provinciale con 38 seggi su 40! Il Polesine diventò la “provincia più rossa d’Italia.” A fine ’20 il PSI aveva il dominio sulla vita sociale e politica del Polesine. Ma dopo la sconfitta della occupazione delle fabbriche e le accuse ai riformisti di aver tradito i metalmeccanici in lotta, la discussione sui “21 punti di Mosca” era una mina che stava per deflagrare. Matteotti si difese è attaccò i “21 punti” su La Lotta, il settimanale socialista del Polesine, del 9 ottobre 1920: “Si vuol fare la rivoluzione?..La maggioranza deliberi e ordini; noi obbediremo; ma non finga di dare le colpe a noi della sua incapacità.”
Intanto gli agrari stavano rialzando la testa; dopo aver subito il “Patto Matteotti” iniziarono i sabotaggi della sua applicazione e quando il fascismo s’insediò anche nel Polesine gli agrari intravidero una via per abbattere il movimento socialista. Nel giugno di quell’anno un gruppo di reduci e studenti, capeggiati dal futurista Pino Bellinetti fondarono il movimento fascista in Polesine. Erano pochi ed avevano ancora un confuso programma di sinistra anche quando, nell’ottobre del ’20, il movimento fondò il Fascio di combattimento con lo slogan “il fascismo non richiede che ubbidienza e rivoltelle”. Ma con le prime spedizioni contro i braccianti in sciopero e i finanziamenti degli agrari aumentarono le adesione di piccoli proprietari e di fittavoli che ingrossò il numero degli squadristi e compattò l’alleanza e il programma fra fascismo e proprietari terrieri. L’otto gennaio 1921 in piazza a Rovigo ci fu la prima sparatoria di un fascista contro i socialisti, ci furono feriti e venne colpito anche un legionario fascista. Dopo la sparatoria i giornali borghesi e cattolici, a scapito della verità, parleranno di sparatoria fra fascisti e socialisti mentre i socialisti “erano perfettamente inermi” e su La Lotta verrà pubblicato un Manifesto dei socialisti dove si tendeva a calmare gli animi per avviare le trattative del rinnovo del patto agrario.
Tale era il Polesine ad inizio del ’21. Nel ferrarese la situazione era ancora più grave. Nel dicembre del ’20 una spedizione punitiva di fascisti contro una manifestazione socialista, in centro a Ferrara, costò la vita a tre fascisti ed un socialista. Era chiara la dinamica ma la reazione della stampa agraria e delle autorità contro i socialisti fu tale che vennero arrestati il Sindaco socialista e il Segretario della Camera del Lavoro. Matteotti verrà chiamato a Ferrara a ricoprire la carica di segretario della CGdL, che allora aveva 90.000 iscritti, non andò al congresso di Livorno del PSI ma preferì restare in prima linea per tentare di risolvere la grave situazione. Quindi quando cento anni fa, il 31 gennaio, l’intero gruppo parlamentare socialista gli chiese d’intervenire egli operava, fra Veneto ed Emilia, nel centro dello scontro sociale, testimone delle violenze fasciste. Se nel Congresso di Livorno ci fu una discussione tutta interna “di tendenze e di frazioni” con la divisione ormai decisa (l’incertezza riguardava l’espulsione riformista o la scissione comunista), l’intervento di Matteotti alla Camera riportava l’attenzione sulla vera e drammatica realtà del Paese. Iniziò in maniera spiazzante: “Noi non ci lagnano della violenza fascista. Siamo un partito che vuole arrivare ad una grandiosa trasformazione sociale…e quindi siamo i primi a riconoscere l’esistenza come necessità sociale di questo momento.” Matteotti rivendicò il diritto del PSI “d’essere direttamente responsabile solo per ciò che esso vuole e ordina alle sue organizzazioni. Nessun ordine da parte nostra è partito per esercitare violenza.” Definì il fascismo come “una organizzazione riconosciuta e nota nei suoi aderenti… di bande armate, le quali dichiarano che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, incendi…Non si combatte contro singoli episodi di violenza… ma si vuole agire sullo Stato perché sia negato il diritto di organizzazione e di sciopero ai lavoratori.” Il Governo Giolitti fu accusato di complicità e di non assumersi la responsabilità politica di quanto avveniva e continuò, “riconosciamo al fascismo il coraggio d’esporsi, mentre perdura nella grande maggioranza della società capitalistica la ipocrisia di non apertamente sostenerlo…di attribuire le violenze di questi giorni alle più stupide provocazioni socialiste! Il punto era ristabilire la verità dei fatti perché: “in questo momento di subbuglio…nulla subisca maggior violenza quanto la verità…”. Responsabile era la stampa italiana che travisava, a favore dei fascisti, la realtà. Matteotti continuò sostenendo che la “classe che detiene il privilegio politico… il privilegio economico…che ha con sé la magistratura, la polizia, il Governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato”. Ricordò che vent’anni prima, quando gli agrari dominavano e “il proletariato non era organizzato, allora si esaltava la libertà…oggi che il proletariato, per mezzo della libertà e delle proprie forme di organizzazione, intacca i profitti capitalistici, la libertà viene negata e viene proclamata la violenza contro di essa.” Chiarì che pochi giorni prima i dirigenti socialisti avevano riunito i militanti e ripetuto “state calmi non rispondete alle violenze perché la violenza danneggia le lotte sociali…e il socialismo”, ricevendo dai lavoratori “accuse di viltà…ci hanno detto vigliacchi…abbiamo detto non bisogna reagire…ci siamo imposti.” Nelle conclusioni rivolgendosi agli onorevoli colleghi “Non domandiamo nulla… Ebbene pensate se, per la irraggiungibile chimera degli agrari, di distruggere le organizzazioni proletarie, voi non abbiate a lasciare il Paese nella guerra civile.” Matteotti nel suo intervento diede una delle prime e più chiare definizioni del pericolo fascista e dei suoi rapporti con il potere, ma fece l’errore fatale di considerare indistruttibili le organizzazione socialiste. Aveva perfettamente ragione ad accusare il Governo di coprire e giustificare le violenze squadristiche, perché Il capo del Governo Giolitti s’illudeva di fare del fascismo uno strumento nelle sue mani. Mentre l’accusa alla stampa di divulgare notizie false è di stringente attualità perché sul finire del 2020 abbiamo scoperto quanto può essere fragile la democrazia con le fakes news di Donald Trump e non solo.
Ma tornando al Polesine nel ’21 a dirigere le imprese squadristiche si formò una triunvirato formato da Pino Bellinetti, l’agrario Enzo Casalini, che diverrà il vero capo del fascismo, con un terzo triunviro Gino Finzi che anni più avanti in un suo memoriale descriverà la distribuzione delle armi avvenuta nella sede degli agrari. Le violenze organizzate dai triunviri con gli assassini di capilega, i pestaggi e le minacce, in pochi mesi paralizzeranno il Sindacato e costringeranno alle dimissioni le Amministrazioni comunali. Matteotti stesso venne sequestrato il 12 marzo bastonato e seviziato perché rinnegasse le denunce che continuava fare delle violenze fasciste. Non ebbe nessun cedimento e fu costretto all’esilio. Agli scioperi e alle manifestazioni democratiche della primavera del ’21 i fascisti rispondevano con assassini, pestaggi intimidazioni. Furono assassinati di notte nelle loro case i capi delle Leghe di Salara e Pincara, il cassiere della Lega di Granzette, attivisti socialisti ad Adria e Occhiobello, il Sindaco di Ariano Polesine. Solo a Fiesso Umbertiano ci fu una reazioni socialista armata alla spedizione degli squadristi. Nel clima di assassini, violenze e intimidazioni, nelle elezioni politiche del maggio del ‘21 i socialisti passarono dal 70% al 24% e il solo Matteotti sarà eletto nel nuovo collegio di Padova e Rovigo. Il tentativo di concordare un “patto di pacificazione” di PSI e CGdL con i fascisti, nell’estate del ’21, non diede risultato alcuno. Il PSI bloccò tutte le attività politiche, non così il fascismo che continuò nelle violenze e con la costituzione da parte dei fascisti del Sindacato economico previsto nel patto, la CGdL nelle campagne venne progressivamente emarginata. Già nel settembre di quell’anno Sindacato economico fascista firmò il patto agrario con l’associazione degli agrari del Polesine. I fascisti ebbero il controllo del collocamento e i contadini per paura e perché dovevano lavorare si spostarono progressivamente verso il nuovo sindacato.
Nel Congresso del PSI di Milano il 10 ottobre 1921, la minoranza riformista avanzò, senza successo, la proposta di partecipazione ai “governi borghesi” per contrapporsi al fascismo. Era una delle ultime occasioni per fermare l’avanzante marea nera. Un anno dopo il controllo del fascismo sul Polesine era completato con l’adesione in massa alle organizzazioni fasciste dei braccianti e con i risultati delle amministrative dell’ottobre quando le liste socialiste, per il clima di violenze esistente, non furono nemmeno presentate. Lo scoramento dei socialisti venne manifestato su La Lotta del 21 ottobre 1922: “Il rosso Polesine, come per un colpo di bacchetta magica, s’è convertito; le Leghe rosse son passate ai Sindacati agrari-fascisti; dei 63 comuni rossi 61 hanno issato il tricolore e due si sono dati ai popolari… Il rosso Polesine non è più che un lontano ricordo”. La presa del potere dei fascisti con la “marcia su Roma,” di fine ottobre, sancì a livello nazionale, quanto avvenuto in Polesine nell’ultimo anno.
Matteotti, inascoltato, rimase unitario fino alla sua morte. Come è noto fu espulso dal PSI nel Congresso del ’22 quando i massimalisti, per ordine di Mosca, accusarono i riformisti “d’aver costituito una frazione collaborazionista”. Con Turati e Treves fondò il PSU che nel nome porta l’idea di unità di tutti i socialisti. Matteotti nel suo ultimo articolo prima del Congresso del ‘22, su La Lotta, sosteneva: “mi vergogno che i nostri congressi dedichino tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni; e che la frazione dominante non abbia altro programma che cacciare fuori i compagni. Il proletariato deve essere unito: in un blocco solo, anche sotto la tempesta”. Era un giudizio drammatico sugli ultimi congressi socialisti, da Livorno in poi, sul ruolo di Mosca e sul massimalismo parolaio e inconcludente, da consegnare alla storia.”
Bolognesi Antonio
Stienta, (Rovigo), il 2 febbraio 2021.