Intervento di Sergio FERRARI svolto in occasione del Convegno: “Fausto Vigevani: l’innovazione nel Sindacato e nella politica”, Roma, Cgil Nazionale, 11 giugno 2018
Quando, con i compagni dell’Associazione LABOUR, abbiamo deciso di ricordare Fausto Vigevani a quindici anni dalla sua uscita di scena, non ho avuto perplessità nel confermare un mio intervento, un mio ricordo di una persona, di un compagno come Fausto. Devo precisare che nel momento concreto di immaginare questo mio impegno, mi sono reso conto che non era affatto vero che avrei voluto parlare di Fausto. Avevo piuttosto un forte desiderio di parlare con Fausto, di domandargli tante cose della realtà, della nostra attuale situazione politica…avevo la netta sensazione che se avessi incontrato Fausto sarei rimasto ad ascoltarlo, a chiacchierare con lui per un tempo indefinito… E mi rendevo conto che se questo era vero ieri, lo è, maggiormente, oggi, pur troppo.
Ad esempio mi sembra di dover rilevare come da alcune parti si sostenga che in politica non c’è nessuna differenza tra destra o sinistra…E poiché affermazione di questa natura venivano fatte – e vengono tuttora fatte – senza che si verifichi una qualche contestazione, sembra che si debba trattare di una qualche ovvietà che a me era sfuggita in tutti questi anni e che continuava a sfuggirmi, e che mi sembra fosse sfuggita a molti…
Caro Fausto, abbiamo ragione noi o hanno ragione questi “novizi”?
Ma la cosa che mi ha lasciato ancora più meravigliato è che le critiche a quelle posizioni, che a me sembravano e sembrano così assurde, non le rintracciavo nemmeno sulla così detta grande stampa, dove invece erano presentate come questioni ovvie e scontate. E lo tesso stupore provavo constatando l’assenza di un qualche giudizio, in buona misura critico, anche da parte di quel mondo che viene indicato come il mondo intellettuale….
Certo se si rinuncia a riconoscere, come essenziali e prioritari, i valori della libertà e dell’eguaglianza…allora forse si può incominciare a capire che anche le differenze tra destra e sinistra diventano trascurabili se non inesistenti…
Ma se ci vogliamo dichiarare di sinistra non vedo come possiamo mettere da parte quei valori. Certo per essere di sinistra, non solo a parole, sembra ovvia la necessità di aggiungere qualche altro concetto, qualche altra prova; certo è necessario affermare che attualmente, data la crisi della sinistra, occorre sostenere la necessità di un cambiamento molto forte; ma anche così dicendo non si chiarirebbe nulla per il semplice motivo che di cambiamenti molto forti se ne possono immaginare una infinità. Sarebbe sufficiente chiarire che il tentativo di sostituire il comunismo del post-muro di Berlino con un pezzo di socialismo e di DC, per poi eliminare anche questi pezzi residui di socialismo, non ha costituito una ipotesi intelligente, ma ha rappresentato solo una dannosa variante, una negativa perdita di tempo.
A me sembra che se questi cambiamenti dovessero riguardare invece quei valori, allora sarebbe necessario una discussione totale, un dibattito impegnato e molto ampio, a livello internazionale, cosa della quale a tutt’oggi non mi sembra ci sia un qualche segnale di rilievo…
C’è una questione, che a me sembra preliminare, vorrei tentare, caro Fausto, di fare qualche esempio, non certo per cambiare quelle fondamenta alle quali ho accennato e che come tali dovrebbero essere confermate, ma per capire come l’evoluzione degli scenari internazionali, culturali e sociali ai quali anche noi, come sinistra, abbiamo contribuito da oltre un secolo, abbiano in varia misura cambiato il terreno di cultura di quei valori.
Ad esempio, come si spiega che dopo le obiettive e pesanti sconfitte elettorali, e i forti segnali di un abbandono del consenso popolare, oggi pressoché tutti gli autori di quelle politiche sembrano convergere verso un’autocritica che, tuttavia, non elimina i ritardi accumulati, ma che sembra più spesso un tentativo di porsi ancora come interpreti, ancorché tardivi, di una realtà che, tuttavia, continua a sfuggire?
Ad esempio, caro Fausto, non mi sembra che ci sia qualcuno che elogi la cattiva distribuzione della ricchezza prodotta, e dal momento che per evitare questo difetto mi sembra che ci possano essere mille possibilità, come mai di fatto questo non sembra che possa succedere?
Richiamare la distribuzione della ricchezza è sin troppo facile, ma che dire quando la produzione della ricchezza e la sua distribuzione dipendono dal sistema di produzione e di distribuzione della cultura, della formazione, della scuola, della ricerca…In questo caso quello che prima poteva rappresentare una espressione di un contesto di classe, in questo caso esprime una discriminazione non tanto economica quanto, piuttosto, sociale.
Sembriamo tutti d’accordo nel ritenere l’attività di ricerca come un fattore essenziale per lo sviluppo competitivo di ogni possibile sistema economico avanzato, ma poi come Italia ci guardiamo bene dall’investire da parte dell’economia pubblica, come da parte dell’economia privata, una quota del nostro Pil che possa correggere i ritardi che abbiamo, da alcune decenni accumulato, in termini di addetti alla ricerca e in termini di livello di preparazione scolastica del ceto dirigente. Se il numero percentuale di ricercatore nelle nostre imprese è fortemente inferiore a quello esistente presso le imprese degli altri paesi – e lo stesso vale con riferimento agli investimenti in ricerca del settore pubblico – non è che possiamo consolarci con l’inferiorità del livello della formazione scolastica del ceto dirigente di quelle stesse imprese…
Caro Fausto, non è che intendiamo sostenere l’innovazione tecnologica come la terapia di ogni male. Le nuove tecnologie pongono sempre dei problemi di selezione e di inserimento e come tali non sono, in linea di principio, ne buone ne cattive. Su questi aspetti ne abbiamo parlato più volte e, come ricorderai, abbiamo sempre concluso che una questione come questa non era superabile rinunciando allo strumento della conoscenza scientifica mentre, al contrario, era sempre più evidente la necessità di sviluppare una capacità critica nei confronti dell’innovazione tecnologica. Il fatto è che dalla metà degli anni ‘80 il nostro sistema economico perde colpi a fronte delle altre economie europee e questo non dipende certo dal fatto che abbiamo speso troppo in attività di ricerca scientifica. Si parla sovente della nostra crisi economica assimilandola a quella degli altri paesi europei dimenticando di confrontare gli andamenti del nostro Pil con quello, appunto, di questi altri paesi. Se si dovesse fare questa verifica ci accorgeremmo che è dalla metà degli anni “80 che l’Italia perde colpi. Ma se dopo oltre trent’anni non siamo stati in grado di correggere questa situazione, forse qualche errore ci deve pur essere, qualche errore da attribuire al nostro interno…
Caro Fausto, sono molte le questioni che vorrei discutere con te, anche perché, come ben sai, non sono pochi i problemi esistenti nel mondo socialista e non molti quelli che alimentano una condizione di soddisfazione. Tuttavia proprio per questo motivo vorrei tentare di esporti una riflessione che nasce dal fatto che se diamo uno sguardo di lungo periodo alle condizioni economiche e sociali della, cosi detta, classe proletaria, dobbiamo trarre una conclusione non cosi negativa come quella che invece sembra emergere da una lettura degli ultimi anni o anche degli ultimi decenni: dobbiamo ammettere che, almeno nei paesi industrializzati, l’operaio dell’ottocento non c’è più. Oggi l’immagine del proletario che si alza alle cinque del mattino per andare a piedi al lavoro e smettere 12 ore più tardi non è quella espressa dal capitalismo attuale. Sappiamo tutti che queste condizioni non sono sparite da questo mondo, ma io vorrei tentare di sapere se queste migliori distribuzioni della ricchezza economica incidono sulla domanda di eguaglianza sociale la cui distribuzione attualmente rappresenta una scelta esclusiva del sistema capitalistico: In altre parole se le lunghe battaglie del movimento socialista e sindacale ci consentono di trarre dei consuntivi positivi per quanto riguarda la distribuzione delle ricchezza economica, non altrettanto mi sembra che si possa dire a proposito della distribuzione del ruolo sociale e in particolare nel campo di chi decide il se fare, il cosa e il come fare. Questa limitazione potrebbe essere uno dei motivi per cui i vincoli sociali prevalgono su quelli economici o, meglio, il superare la crisi economica implicherebbe una “impossibile” trasformazione sociale.
Sarebbe necessario a questo punto riandare a Riccardo Lombardi la cui “dimenticanza” nell’attuale dibattito della crisi della sinistra dà il segno della profondità di questa crisi. Una crisi che si manifesta nella contraddizione tra competitività industriale-occupazione- sviluppo. Assumere, come proponeva Lombardi, di tenere fissa la dimensione “lavoro” non è compatibile con il mantenimento del basso valore aggiunto che contraddistingue il nostro attuale sistema industriale, ma nemmeno in generale con l’attuale sistema di distribuzione del valore capitale…insomma con l’attuale capitalismo.
A questo punto, caro Fausto, non mi resta che un’ultima domanda: se vogliamo dirci socialisti sono questi i problemi che dobbiamo affrontare ?.
Roma, CGIL Nazionale, 11 giugno 2018