I SOCIALISTI per la costruzione della NUOVA FORZA DELLA SINISTRA 

Convegno Nazionale

Lunedì 01.02.2010 ore 16:00 Centro congressi Cavour Via Cavour 50/a – Roma RELAZIONE  GENERALE  del  GRUPPO  di COORDIMENTO

Cari compagne/i,

questo Convegno, promosso da Associazioni di cultura e tradizione socialista e al quale partecipano sia compagni iscritti e impegnati nel PSI che non iscritti, non si pone gli obiettivi delle prossime elezioni regionali. Il suo traguardo è, se possibile,  più ambizioso: quello di costruire o, meglio, di contribuire alla costruzione di una forza politica della sinistra riformatrice di ispirazione socialista anche in Italia.

Ma se il termine “riformista” rappresenta oggi un’idea povera e malata, un termine usato, indifferentemente, dalla sinistra come dalla destra, il riformismo non può essere considerato e concepito come una, magari giusta e pragmatica azione politica e amministrativa. E’ da questa idea sbagliata di riformismo che spesso derivano subalternità culturali e politiche al pensiero e alle politiche neo-liberiste, mutuandone talora idee e modelli non condivisibili. Per noi, come sosteneva Fausto Vigevani,[1] il riformismo è, prima di tutto senso e valore del cambiamento necessario per combattere l’ingiustizia e le disuguaglianze.

Questo non perché consideriamo poco importanti le scadenze elettorali di fine marzo, ma perché non intendiamo commettere l’errore di confondere le due questioni, che  hanno tempi e modi differenti. Ed è proprio a causa degli errori commessi che ora ci troviamo in una situazione certo non positiva: è assente nel processo di Sinistra Ecologia Libertà la componente socialista o, meglio, la componente che storicamente, anche se disarticolata dagli accadimenti politici di questo paese, ha inteso conservare e difendere quella tradizione e quei valori. E questo, essenzialmente, per una gestione dei rapporti che ha, appunto, confuso scadenze elettorali e personali con questioni ben più ampie, facendo venir meno una precedente adesione al progetto. Noi non abbiamo condiviso questa posizione e salutiamo i compagni/e oggi presenti e i compagni di SEL con i quali intendiamo collaborare con la consapevolezza della  sfida che questo impegno comporta. Noi riconosciamo a questi compagni la coerenza di un percorso e di una direzione che ci porta oggi a convergenze importanti. Da parte nostra intendiamo contribuire al processo di costruzione di una sinistra capace di elaborare una lettura dello scenario politico introducendo forti elementi di novità e innovazione. Pensiamo ai cambiamenti radicali indotti dalla globalizzazione, all’ambiente, alla sostenibilità dei modelli di sviluppo, alle mutate condizioni del lavoro….Ma questa convergenza ha certamente all’ordine del giorno le sollecitazioni che nascono da una situazione del Paese che consideriamo grave e piena di incognite, per noi e per le nuove generazioni.

Tutto questo non significa certamente sottovalutare le scadenze elettorali rappresentate dalla prossime elezioni regionali che, soprattutto in Puglia, con la candidatura di Nichi Vendola hanno assunto un rilievo nazionale. Su questo punto, pur in questa situazione anomala, per parte nostra riconfermiamo e sollecitiamo soluzioni politiche ed elettorali unitarie tra SEL e Socialisti lasciando ai livelli regionali le decisioni di merito. Questo anche perché la dimensione politica regionale non sarà per noi, comunque, una dimensione occasionale ma un punto fermo della costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Una costruzione alla quale intendiamo partecipare non per sapere chi sarà il capo o il  vice, ma per conoscere che cosa intende dire e fare questo nuova formazione, iniziando dai valori fondanti di riferimento, senza la condivisione dei quali gli equivoci, prima o poi, potrebbero diventare insuperabili. Questo Convegno nasce sulla scia di un percorso che ha riguardato tutta la sinistra nel nostro paese con processi di trasformazione politica che noi tutti abbiamo vissuto a seguito della crisi verticale della Prima repubblica.

Non staremo a discettare se quella che è seguita è una seconda Repubblica o se è una edizione con qualche modifica peggiorativa, della prima….Quello che ci sembra vada messo in evidenza è che da questo travagliato percorso è emersa finalmente una domanda per dotare questo Pese di una forza politica di sinistra, ricca di una storia complessa ma ineliminabile, che partendo dallo sviluppo della società industriale moderna ha elaborato i principi di eguaglianza e di democrazia come valori di riferimento per la propria azione politica.

Anche il prossimo Congresso del Partito Socialista – ne parlerà più diffusamente il compagno Franco Bartolomei – dovrà sciogliere questi nodi politici manifestando, auspichiamo, la volontà di tutti i socialisti di contribuire alla costruzione di una nuova e ampia forza della sinistra italiana ancorata ai valori della sinistra e ad un processo di rifondazione del socialismo europeo.

Stanno dalla parte del nostro progetto alcune situazioni per certi versi paradossali. Si sta diffondendo la convinzione che tutte le sollecitazioni per il cambiamento, per le riforme, quelle vere, per fare uscire questo paese da un percorso di declino che è iniziato molti anni fa, ma che ha assunto dimensioni sempre maggiori – oggi si parla diffusamente di declino culturale – ebbene per attuare tutto questo risulti sempre più necessaria la presenza della migliore storia socialista italiana ed europea.

Nonostante la cocciuta volontà di non mettere a valore questa storia, l’insegnamento evidente che emerge è che i valori sottesi da parole, tanto vecchie quanto attualissime, come libertà, giustizia, uguaglianza, coesione sociale – che rappresentano i nostri valori – si raggiungono e conquistano non con tutti i mezzi, ma con strumenti democratici. E’ francamente difficile creare nuovi partiti progressisti e riformatori, dimenticando questa storia, senza rivendicare di avere alle proprie spalle questa storia. Tentativi anche molto impegnati, condotti in questo Paese, di creare nuove formazioni, cercando di evitare il richiamo alla storia socialista, che si è voluto ritenere conclusa nel 1989, mettendo sullo stesso piano la fine tragica dell’esperienza comunista con quella socialista e socialdemocratica italiana ed europea, non è un caso se hanno dato esiti che a noi sembrano del tutto insufficienti. Si è preferito – per dirla con Giorgio Ruffolo – “un’identità artefatta che ancora oggi dimostra il suo pallore”.[2] Non si tagliano insomma i ponti con la storia cavandosela con un “guardiamo oltre”.

Dopo vent’anni quelle esperienze, frutto di un tenace antisocialismo che ha consegnato alla destra un cospicuo regalo elettorale, sembrano lasciare uno spazio per riflettere su una interrogativo molto semplice: ha un fondamento serio il fatto che in Italia non ci sia un partito di sinistra frutto della storia come invece si verifica in tutti i paesi europei avanzati?

Ma dopo questi venti anni dobbiamo anche riconoscere che una parte della sinistra si è collocata su posizioni che ci devono indurre a fare un passo avanti: i compagni che hanno dato vita a Sinistra Ecologia Libertà avevano chiamato a partecipare alla costruzione del nuovo soggetto politico anche degli attori socialisti. Il percorso segnato dai responsabili, aveva, è vero, sollevato molte osservazione critiche per la carenza di partecipazione, per la preminenza delle esigenze elettorali a breve e a scapito di una più ampia riflessione politica, per un eccesso di cura alle posizioni di vertice, per alcune analogie con processi  di unificazione condotti da altri e che avevano già ricevuto da parte di molti, motivate critiche… Ma tutto questo ci sembra rimediabile, con un impegno adeguato, mentre del tutto negativo sarebbe un percorso che vedesse espressamente esclusa una forza socialista, riformatrice. E la recente dichiarazione di Vendola sul fatto che il futuro del Paese: “ha bisogno dei valori del socialismo italiano” [3]conferma la giustezza della nostra decisione.

Questo è il nostro impegno che vive oggi una tappa, non certo la sua conclusione, di un percorso che prevede una fase di incontro e di convergenza sulle linee e sulle scelte di politica economica, sociale, internazionale. Insomma vorremmo parlare di come affrontare una responsabilità politica in questa fase storica di grande complessità, di quali risposte dare per realizzare un progetto di sviluppo della società in direzione progressista e socialista,

E’ evidente che le sollecitazioni che riscontriamo perche ci possa essere anche in Italia una sinistra riformatrice, ha ricevuto un impulso dalla crisi economica internazionale e, in particolare, dal fatto che questa crisi conclude nel modo peggiore possibile la fase liberista che ha invaso il mondo intero. Una invasione che ha contaminato, e non poco, anche la sinistra in Europa e il centro sinistra in Italia.

E proprio dalla analisi della crisi della sinistra che la nostra riflessione ha visto in questi cedimenti alle mode liberiste, la causa non ultima della stessa crisi. Qualcuno sulla base di questi errori ha cercato di individuare la conferma della conclusione dell’esperienza socialista. Il guaio è che affermazioni del genere non sono emerse solo a destra, come sarebbe comprensibile ed ovvio, ma anche da parte di alcuni che, con storie diverse, hanno tratto da quella loro analisi le motivazioni per confluire su posizioni liberiste! E’ una questione che citiamo non per amore di verità, o come una forma finalmente di rivalsa, ma perché questa critica ci sembra non possa essere rivolta ai compagni di SEL, e questo rappresenta un motivo non marginale della attenzione che rivolgiamo  in questa direzione.

Eliminare questa anomalia italiana è, peraltro, necessario perché senza una presenza importante su questo fronte politico anche gli insegnamenti della crisi internazionale resteranno privi di conseguenze e di correttivi. Recuperare, ad esempio, il senso e la validità della dimensione del ruolo pubblico  si scontra, non solo con diversi livelli teorici, ma con un incrocio di interessi privati. I quali, per superare le loro difficoltà ad esprimere una valenza imprenditoriale, preferiscono la creazione di posizioni di rendita attraverso la privatizzazione di servizi e di funzioni pubbliche. Contrastare questa linea deve essere per noi un punto fermo. Ma occorre contrapporre sul piano operativo, culturale e programmatico una nuova coscienza dell’interesse generale. Sappiamo benissimo che l’intervento pubblico presenta rischi e potenziali difetti, anche gravi, ma se si dedicasse a queste aspetti solo una parte  dell’attenzione e delle risorse impiegate per far finta di creare regole, organi di controllo, i quali, ma solo nelle intenzioni, dovrebbero correggere la mancanza reale delle condizioni di un libero mercato. Se si contrapponessero valutazioni economiche corrette e concezioni gestionali trasparenti e rigorose, le soluzioni privatistiche sarebbero giustamente messe da parte. Sappiamo che questo modo di esprimere l’interesse pubblico è esattamente opposto a quello dell’attuale governo che, non a caso, pensa di privatizzare anche funzioni di controllo e servizi fondamentali come l’acqua, sull’onda, peraltro, di precedenti governi che si erano spesi per analoghe soluzioni, ad esempio, nel caso delle autostrade. Ma sono in corso tentativi ancora più pesanti che riguardano la scuola dell’obbligo e le struttura pubbliche dell’Università, degli Enti di ricerca e della sanità, in un connubio di interessi economici e di sottocultura. Mentre con la creazione di “Difesa Spa” e “Protezione Civile Spa”, come ha scritto ieri Eugenio Scalari, si sta “esternalizzando” lo Stato.[4]

Se poi pensiamo che questa creazione di profitti, per la verità, più simili alle rendite, viene coperta con il miraggio della riduzione delle tasse (a vantaggio di chi otterrà quegli stessi profitti, ma questo si omette di dire) e con una articolata manovra di eliminazione di servizi pubblici e della relativa spesa per riequilibrare il bilancio dello stato, la reazione prima ancora che politica, dovrebbe essere etica. Per fortuna, ed è un paradosso, mancano le risorse finanziarie pubbliche, altrimenti questo governo avrebbe varato una riforma fiscale che accentua il divario economico che già ci colloca tra i paesi fiscalmente più ingiusti.

Insomma, compagni, dobbiamo sapere che per ricomporre un ragionamento civile e di giustizia sociale, occorre abbattere una serie di montature e di interessi economici che rappresentano dei privilegi. Iniziando certo dalle politiche dell’attuale governo e dalle rendite che sono le favorite dell’attuale sistema fiscale. Ricordando che quella fiscale, oltre ad essere una grande questione economica e sociale è, prima di tutto, una grande questione democratica e civile. Insieme alla quale è necessario ricostruire una etica di governo degna di questo nome.

Dunque dobbiamo essere gli attori di un nuovo progetto di riforme di struttura che partendo dalle conquiste del primo Welfare-State  ne recuperi le valenze iniziando dal riequilibrio nella distribuzione delle ricchezza. Ma sappia poi proporne una versione aggiornata nei contenuti, in termini di avanzamento e di corrispondenza con i mutamenti sociali intervenuti in oltre mezzo secolo. Non quindi una semplice difesa dell’esistente, ma un ampliamento, per corrispondere a valori di equità e di qualità sociale e rispondere alle domande di partecipazione, di sostenibilità, di qualità del lavoro e del tempo libero. Dobbiamo, insomma, essere gli autori di un nuovo welfare, il welfare del nuovo secolo. Ecco perché oggi abbiamo messo all’ordine del giorno il lavoro, la sua centralitàpartendo dalle  iniziative volte ad eliminare i disastri di una flessibilità che è diventata, soprattutto, precarietà.

Occorre prendere atto che da anni è in atto un attacco preordinato nei confronti dei diritti e delle tutele del lavoro. E riconoscere che questa offensiva, sostenuta dalle nuove politiche conservatrici e rivolta contro il lavoro e i sistemi di welfare, si è insinuata, ha trovato spazio e giustificazione, se non esplicito sostegno, anche nella cultura politica della sinistra. La sinistra ha subito l’idea, sbagliata, per cui la globalizzazione e la rivoluzione informatica imponevano la deregolazione dei mercati, lo schiacciamento dei salari, la compressione dello Stato sociale.

E se i cambiamenti dei modelli di produzione richiedevano, certo, forme di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, per impedire che la flessibilità si trasformasse in precarietà, erano necessarie nuove forme di regolamentazione, controlli rigorosi e un giusto equilibrio tra le nuove esigenze della produzione e i bisogni individuali e collettivi delle persone. Ma così non è stato, la flessibilità invocata ha preteso di saltare il confronto, il controllo e la contrattazione del sindacato, ha imposto lo stravolgimento del mercato del lavoro attraverso una quantità inusitata di forme contrattuali precarie, con l’unico scopo di rendere incerta e ricattabile la condizione lavorativa. Rendendo, nei fatti, come da tempo, inascoltato, ci insegna Luciano Gallino,[5] merce il lavoro. Lo stato di solitudine di troppi lavoratori, la divisione del sindacato e la debolezza dell’opposizione possono però prestare il fianco a nuovi propositi contro riformatori. L’attacco portato dal secondo governo Berlusconi all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per avere garantita la possibilità di licenziare anche “senza giusta causa e giustificato motivo” si ripresenta oggi con il sostegno della Banca Centrale europea. Dello stesso segno è la proposta della “flexsecurity” avanzata dalla Commissione europea che anche nel centro sinistra italiano trova dei sostenitori e che, nella sostanza, punta a compensare con un risarcimento monetario la perdita del lavoro. Insomma, per superare la condizione di disuguaglianza causata dalla precarietà del lavoro si rendono precari anche gli attuali contratti a tempo indeterminato considerati troppo “garantiti”.

Ma una crisi devastante, provocata dai colpevoli eccessi di una finanza senza regole e resa possibile da politiche distanti dall’economia reale, non può essere archiviata solo con la ricerca di un nuovo sistema di regole. Il tema del lavoro e della buona occupazione, da perseguire e tutelare, dell’adeguamento dei salari, con il superamento delle attuali insopportabili diseguaglianze, debbono tornare ad essere centrali nella riflessione di una nuova sinistra capace di liberarsi dalle suggestioni liberiste e fare i conti con i propri errori. Cause primarie delle recenti sconfitte elettorali italiane ed europee.

Il centro sinistra dovrebbe, in particolare, considerare con più serietà e minore timidezza come il permanere di bassi salari rappresenti, oltre alla perdita di una condizione di vita dignitosa, un danno per la stessa economia e un freno per la ripresa. La presenza di bassi salari comporta che si pagano meno tasse, si versano contributi minori per la previdenza e la sanità, si fanno studiare i figli per meno anni, si consuma meno. Di conseguenza gli enti locali sono in difficoltà per fornire i servizi essenziali, le ferrovie per i lavoratori e i pendolari sono al limite della decenza, le scuole e le università costrette a tagliare la didattica e la ricerca.

Una competitività basata sui bassi salari nei paesi sviluppati non ha senso, in primo luogo, dal punto di vista economico e può solo scivolare verso l’estendersi del lavoro nero, il peggioramento delle condizioni di lavoro, la cancellazione dei diritti e della sicurezza in una spirale senza fine, visto che i salari nei maggiori paesi emergenti, in particolare Cina e India, sono per noi inarrivabili: da cinque a dieci volte più bassi con paghe inferiori a un euro l’ora.

Con lo stesso impegno dobbiamo riprendere l’iniziativa sulla questione  dell’estensione del diritto alla scuola dell’obbligo sino a 18 anni, come fondamento della società del nuovo secolo. Una riforma della scuola che, dopo quella decisiva  e importante degli anni ’60, è stata ed è oggetto solo di controriforme. Ecco perché è necessario mettere al centro della nostra proposta politica una riforma che prepari il cittadino prima ancora che il lavoratore. Ecco perché pensiamo ad una riflessione sulla qualità del lavoro e della società da impostare sulla base delle potenzialità e delle scelte rese disponibili dallo sviluppo scientifico e tecnologico, dall’esistenza di condizioni materiali e di conoscenze che rendono possibile programmare, per dirla con Riccardo Lombardi“una società più ricca perché diversamente ricca”.

E’ la questione della contraddizione tra democrazia e capitalismo che dobbiamo affrontare nella situazione attuale per dare risposte che coinvolgono  tutti gli attori di una società articolata, ma nella quale tutti pagano ancora un prezzo elevato alle logiche della preminenza del profitto. Una logica che trova un riscontro anche nell’utilizzo dei dati relativi al Prodotto Interno Lordo come unico riferimento per valutare lo sviluppo. Anche in questo campo il dibattito è aperto, ma noi, intanto, proponiamo di ampliare da subito quelle valutazioni dello sviluppo aggiungendo un indicatore della distribuzione della ricchezza. Se tutti concordano nell’affermare che la cattiva distribuzione della ricchezza è uno dei fattori negativi ai fini dello sviluppo, allora dovremmo solo esercitarci nel trovare il modo più equo per attuare questa distribuzione. Essendo il nostro Paese tra i primi in Europa nella disuguaglianza dei redditi a svantaggio dei salari e a vantaggio dei profitti.

Il compagno Giuseppe Giudice ha ricordato di recente come: “ Il nuovo socialismo richiede certo immaginazione, ma sono le nuove tecnologie che richiedono un surplus di immaginazione progettuale da parte degli uomini”.

Qui si apre un capitolo tutto da scrivere in materia di politica industriale perché da tempo la sinistra ha abbandonato la responsabilità della qualità dello sviluppo limitandosi ad esaminare, più o meno criticamente, gli effetti conclusivi delle scelte economiche, produttive e tecnologiche. Ma da tempo l’innovazione tecnologica non è più  un evento casuale della ricerca scientifica, ma è la risultante di un processo programmatico  di incontro e coordinamento tra attori diversi. Se in questo processo è assente la dimensione pubblica sarà difficile contrastare gli elementi negativi dello sviluppo, sia di natura sociale, sia di natura ambientale sia, nel caso del nostro paese, di “semplice” capacità di tenuta della competizione internazionale. E anche con riferimento al problema della necessaria presenza negli scambi internazionali che sta emergendo una ulteriore debolezza di questo paese. Se mettiamo insieme, come è necessario fare, questa serie di questioni tra loro connesse, si ripresenta la questione della programmazione economica e dei corrispondenti strumenti.

Non è questa la sede per dare risposte operative, ma certamente è il momento per inserire nel nostro Progetto la coscienza di questa necessità

Non possiamo non riconoscere, poi, che esistono problemi che richiedono un attore della dimensione dell’Europa per essere affrontati. Verso questa istituzione dobbiamo manifestare una attenzione che non può essere quella limitata alle occasioni elettorali. Questo vuol dire che occorre essere attivi anche a quel livello, così come il PSE deve essere lo strumento per tale presenza. Anche facendo tesoro dell’ampia autocritica fatta in relazione alla crisi economica internazionale e alle derive liberiste che ha riguardato anche lo stesso PSE. La recente revisione, del resto, conferma questa nostra critica, ma consente anche di mettere sul piatto della nostra azione politica uno strumento con la necessaria dimensione europea facendo in modo che SEL costruisca un rapporto forte e stabile con il socialismo europeo. Occorre portare nelle sedi dell’Unione lo spirito che fu diDelors, il compito di operare tramite la Banca Europea e con risorse finanziarie europee e non dei singoli stati. Un piano di investimenti pubblici per alimentare una politica di sviluppo della domanda effettiva e, conseguentemente, l’avvio di una reale costruzione di una concezione statuale europea. Una Banca che deve essere strumento operativo di una politica economica decisa nelle sedi della sovranità popolare. In questi anni si è voluto cancellare questa visione dell’Unione, ma oggi con la crisi economica, ci accorgiamo della miopia di una simile politica.

Cari compagni, dovremmo fare l’elenco delle troppe cose che non vanno e che, anzi, stanno peggiorando nel nostro paese. Ad iniziare, come già detto, dalle questioni del lavoro, nelle diverse espressioni che trovano ogni giorno un riscontro increscioso. L’ultimo si ritrova nella  polemica del ministro del Lavoro con la Banca d’Italia per il fatto che questa Istituzione ha ricordato come, oltre ai disoccupati, esistono e vanno considerati anche i cassa integrati e coloro che, specie nel mezzogiorno, non credono sia neppure più utile iscriversi alle liste dei disoccupati. Si tratterebbe per il ministro di una scorrettezza, in quanto le effettive cifre sul tasso di disoccupazione, che ha superato il 10%, smentiscono  quelle fornite dal Governo! Siamo ad un livello di intelligenze e di irresponsabilità che non merita commenti. Si tratta di un ministro che rivendica il nome socialista e sta pervicacemente smantellando le norme del diritto del lavoro che sono diventate legge sulla spinta delle lotte e delle mobilitazioni degli anni ‘60 e ’70 e che hanno visto tra i protagonisti ministri socialisti come Brodolini e competenze  giuridiche e lavoriste come quelle di Gino Giugni.

Così come questo Governo sta concretamente lavorando alla divisione del Sindacato. Mentre nella migliore tradizione socialista e della sinistra l’unità del sindacato e dei lavoratori rappresenta uno dei valori fondamentali. E oggi, nella crisi, quando il lavoro si difende sui tetti delle fabbriche, degli uffici, delle scuole e degli enti di ricerca, i lavoratori sono costretti anche a fare i conti con un sindacato diviso e più debole. Questo avviene nel sostanziale silenzio e nella immobilità della principale forza del centro sinistra, il Partito Democratico che, a nostro giudizio, sottovaluta questo preciso disegno politico del governo. Nella divisione, infatti, non solo si indebolisce tutto il Sindacato Confederale e non si isola solo la Cgil, ma l’insieme delle forze riformiste, laiche e cattoliche, che storicamente fanno riferimento al lavoro.

Dobbiamo anche riflettere, con preoccupazione, sulle condizioni della nostra democrazia come ha fatto mirabilmente Massimo Salvatori quando ultimamente ha scritto di “Democrazie senza democrazia”[6]. Ricordare lo stato nel quale versa la politica della giustizia che, a forza di occuparsi dei casi personali del Presidente del consiglio si è sempre più trasformata, di fatto, in una giustizia di classe. Mentre si torna a parlare di riforme costituzionali Gustavo Zagrebescky domanda “che fine ha fatto il conflitto di interesse”, l’anomala abnorme concentrazione di potere economico-mediatico-politico nella stessa persona, accusando su questo di reticenza, Violante e la dirigenza del PD.[7]

E ancora dei conti pubblici, della condizione delle carceri o della sicurezza sul lavoro, della scuola, dell’Università e della ricerca pubblica, degli impegni non mantenuti relativi all’Accordo di Kyoto sui cambiamenti del clima, dell’energia – dove si ripropone il vecchio e costoso nucleare, invece del solare del risparmio e delle fonti rinnovabili – e all’agricoltura. Quest’ultima, sino a ieri ai margini delle questioni economiche, si sta aggiungendo alla lista dei problemi scottanti, sia sul piano interno sia come componente dei rapporti con il terzo mondo. E il Sud dove la vicenda di Rosario ha impietosamente disvelato una delle tante, troppe situazioni di sfruttamento degli immigrati, governo del territorio in mano alla criminalità, connivenze e omertà della politica e totale assenza dello Stato.

Insomma, compagni, il declino che la CGIL – e le altre organizzazioni sindacali –  denunciarono alcuni anni or sono, si aggrava e non solo in relazione alla crisi economica internazionale. Ma di tutto questo nel nostro Paese non si dovrebbe parlare per non essere accusati di disfattismo, di pessimismo strumentale e anti italiano. Questo governo dovrebbe però rivolgere a se stesso l’appello e pensare a  quando cavalcò e alimentò la questione della sicurezza e dei risvolti xenofobi e razzisti di quella campagna di propaganda allarmistica!

Oggi le crisi che denunciamo hanno ben altre e solide fondamenta. Quello che manca è la capacità del governo di essere, al di là della propaganda, all’altezza della situazione. Senza le deformazioni informative canalizzate da una propaganda che va molto oltre ai rapporti proprietari per comprendere quelli di potere, minando il senso vero della democrazia e della libertà individuale, questo governo perderebbe ogni consenso e ogni potere. Anche in questo campo si apre una necessità di riforme da mettere in cantiere visto che per tanti anni il centro sinistra si è dimostrato incapace.

In questo scenario i socialisti non possono certo stare a guardare. Anche se ancora sparsi e divisi, devono fare uno sforzo di responsabilità verso il Paese, verso quelli che sono i principi di giustizia sociale, di eguaglianza, di dignità dell’individuo, di superamento delle ingiustizie e delle povertà.

Insomma devono ritrovare la  propria  ragioni d’essere,  guardando alla necessità e all’urgenza di un impegno straordinario, per contribuire a una ripresa di iniziativa e a un nuovo protagonismo della sinistra, per costruire una credibile alternativa e per dare senso e valore ad una rinnovata alleanza di programma di tutto il centro sinistra.

 

[1] “Riflessioni sulla situazione politica”: documento di Fausto Vigevani sottoscritto da Deputati e Senatori socialisti dei DS. Giugno 2000

[2] La Repubblica: “Il breve regno di re Bettino” di Giorgio Ruffolo. Gennaio 2010

[3] ANSA – Bari, 29 gennaio ’10. Dichiarazione di Nichi Vendola

[4] La Repubblica, 31 gennaio 2010: “Lo Stato disossato…”.

[5] Luciano Gallino: “Il costo umano della flessibilità”. Editori Laterza 2001

[6] Massimo L. Salvatori: “Democrazie senza democrazia”. Edizioni Laterza 2009

[7] La Repubblica del 23 gennaio 2010: “ Ma la reticenza più grave è sul conflitto di interessi”.

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