IL SINDACATO E LE NUOVE FORME DI RAPPRESENTANZA

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIntervento di Mauro Beschi –

25 settembre 2011

Volpedo (AL) – 25 settembre 2011 – 4° Incontro del GdV

L’ultima parte del ‘900, il secolo delle grandi lotte sociali e dell’era d’oro socialdemocratica, ci consegna l’esplosione della disuguaglianza. Negli ultimi 25 anni, nei Paesi industrializzati, la quota di prodotto che va a remunerare il lavoro è diminuita del 5% in favore del capitale. Si è trattato di uno spostamento redistributivo enorme, 1.900 MLD $ ogni anno, con una diminuzione pro-capite di 1.500 $. Il rapporto tra i compensi medi dei manager e quelli dei loro dipendenti è passato da 1/42, nel 1980, a 1/107 nel 1990, a 1/525 nel 2000,rallentando a 1/320 nel 2009, dopo la crisi.

 In Italia la quota di prodotto destinata al lavoro è diminuita di 8 punti, pari a circa 120 MLD € l’anno.

Non può quindi stupire se la redistribuzione della ricchezza sia divenuta sempre più ineguale nel Mondo ed in Italia.

Distribuzione
RICCHEZZA DELLE FAMIGLIE ITALIANE  (Banca
d’Italia)

10% più ricco detiene il 44,7%  della ricchezza tot. 3.338 MLD€
5% 32,1% 2.752 MLD€
1% 14,8% 1.271 MLD€
50% più povero 9,8% 841 MLD€
Ricchezza Media per Famiglia
10% più ricco
detiene una ricchezza media per fam. di
1,6  Mil.€
5% 2,3  Mil.€
1% 5,3  Mil.€
50% più povero 69.670 €

La domanda che dobbiamo porci è come questo sia potuto accadere e, soprattutto come sia avvenuto senza che ciò abbia comportato reazioni significative nella sinistra.

Edward Luttwak ha scritto che “permettere al turbo capitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole elités di vincitori e in masse di perdenti”.

Come è stata possibile una cecità così grande a sinistra da non cogliere quello che aveva capito un conservatore?

E’ sicuramente difficile analizzare tutte le cause della crisi della sinistra, europea ed italiana, ma, stando al tema della rappresentanza, si può affermare che uno dei limiti più significativi sia rappresentato dalla separazione della sinistra dal lavoro; l’abbandono della sua rappresentanza ha significato perdere il senso di cosa, anche oggi, rappresenti il lavoro, con la sua qualità sociale, la sua aspirazione emancipativa, la sua etica; il che, poi, ha portato a disimpegnarsi dalle domande di eguaglianza e giustizia sociale che dal lavoro provengono.

Ciò che non si è capito, a causa di una insopportabile subalternità culturale, è che non basta attenuare, ma bisogna rimuovere le cause che producono le diseguaglianze e che, a questo scopo, è indispensabile offrire una sicura sponda politica ai gruppi sociali che il meccanismo della diseguaglianza condanna a subire la violenza, sociale ed economica, di coloro che oggi sempre più vengono definiti, all’americana, “i vincenti”.

Ma come è possibile che neppure questi ultimi, turbolenti, anni abbiano reso esplicito come lo spostamento di poteri nel conflitto tra capitale e lavoro, fondato sull’indebolimento del ruolo dei Sindacati, sulla idolatria di un mercato del lavoro disgregato, sulla compressione dei salari e dei diritti, siano non solo socialmente inaccettabili ma anche incapaci a fornire risposte, credibili e realistiche, alla crisi.

Ad esempio, non sarebbe difficile comprendere che l’aumento della produttività è fondato sulla flessibilità dell’insieme dei fattori produttivi e non sulla flessibilità del lavoratore. Se c’è qualcosa di ingessato in Italia non è il mercato del lavoro, ma sono le produzioni e i modelli di gestione aziendale. Sono proprio le imprese quelle più restie ai cambiamenti anche perché le politiche economiche di questi anni hanno deciso, anziché stimolarle e incentivarle su innovazione, ricerca, qualità, di svalutare il lavoro sacrificando una necessaria azione di riconversione del modello produttivo italiano ad un temporaneo e illusorio sollievo competitivo fondato sulla compressione dei salari.

Gallino ci dice che siamo davanti ad una sfida di sostenibilità sociale ed ambientale, occorre, allora, fare un salto di qualità, chiamare a raccolta intelligenze, esperienze, impegni personali e collettivi per cominciare a reagire.

Riccardo Lombardi sosteneva che “il reperimento delle forze vitalmente interessate alla trasformazione, che non necessariamente coincide con le esigenze dei partiti, è un’opera che dobbiamo cominciare a fare all’interno di tutte le correnti che esprimono i bisogni dei lavoratori. E’ un’operazione che si può non fare, ma, allora, bisogna sapere che il prezzo che si paga è quello di consolidare in Italia una politica conservatrice, moderata, che può soddisfare alcuni bisogni, ma che non cambia sostanzialmente la natura del sistema”.

Soprattutto occorre riscattare, ridare visibilità alla visione del socialismo riformatore.

Occorre recuperare autonomia progettuale ed onestà intellettuale sia per analizzare il nuovo che si presenta sia per sottoporre a seria verifica le parole d’ordine e le scelte del recente passato.

Lavoro, uguaglianza, responsabilità pubblica sono i punti di riferimento per una uova stagione politica.

Per cambiare il modello produttivo e di consumo, il mercato, come dimostra la crisi, non ce la può fare; è necessaria la politica, con il suo progetto ed i suoi strumenti: la responsabilità pubblica e lo stato con le sue articolazioni; è necessario ridurre la asimmetria redistributiva ma occorre andare oltre la “solidarietà”, generoso impulso etico ma che procede, politicamente e moralmente, dall’alto verso il basso, per promuovere, invece, l’uguaglianza poiché, come scrive Massimo Salvadori “ non si dà giustizia e una comune umanità quando l’organizzazione della società è strutturalmente così costituita da consentire agli uni di sviluppare la propria personalità nel benessere e da mortificare, soffocare o addirittura distruggere la personalità degli altri”.

Occorre poi una nuova visione delle politiche economiche, rispetto alle quali diventa necessaria una valutazione critica del modello di “governance” europea; il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, al di la delle dichiarazioni, si preoccupa della stabilità ma non della crescita, che si suppone possa derivare da un incremento dello sviluppo globale, che invece è in rallentamento (FMI), e sottende una analisi scorretta secondo cui l’eccesso di debito pubblico sia la conseguenza di una insostenibilità della spesa pubblica e sociale, mentre la verità è che esso è esploso per garantire il debito privato. Il Patto tende a deprimere e a rinviare la crescita, si limita a vincolare lo sviluppo alla “credibilità” dei singoli debiti sovrani sui mercati finanziari.

Senza una sua profonda rivisitazione il futuro ci consegnerà minore crescita, insostenibilità delle politiche di riduzione dei debiti pubblici, la rimessa in discussione del “modello sociale europeo”, il punto più alto del compromesso tra capitale e lavoro.

La crescita non può essere posticipata alla correzione dei conti. Sono due politiche interrelate, anzi la crescita è obiettivo primario anche per la stabilità, poiché è la crescita l’unica e autentica garanzia del debito. Euro-bond per governare i debiti sovrani e per sostenere gli investimenti, Tassa sulle transazioni finanziarie e una più realistica tempistica per il riordino fiscale sono condizioni necessarie per avviare una stagione di integrazione politica ed economica ed evitare una spirale perversa. E’ necessario inoltre introdurre, tra i criteri del nuovo Patto, una vincolo che colleghi le politiche di riequilibrio economico e quelle salariali; si propone uno “standard retributivo europeo” quale riferimento per la crescita dei salari degli Stati Membri legato alle dinamiche della produttività e dei surplus commerciali. Lo standard retributivo europeo risulta importante, in primo luogo, perché pone il tema dell’aumento dei salari per rilanciare la crescita e riequilibrare l’economia europea; in secondo luogo, perché può aiutare i diversi paesi (e i diversi sindacati) europei a costruire una politica redistributiva comune, anche attraverso leve fiscali omogenee.

Ma non si può affrontare il tema del lavoro senza una riflessione sulla sua rappresentanza sociale.

Una parte delle politiche di questi anni sono state indirizzate alla riduzione dei poteri e del ruolo dei Sindacati.

Questa azione ha prodotto non soltanto la compressione dei salari e dei diritti, ma ha contribuito a perpetuare, soprattutto in Italia, la fragilità del tessuto produttivo e l’alleanza tra profitti e rendite a danno degli investimenti nell’economia reale.

Tale condizione ha prodotto anche la più acuta divisione sindacale del dopo guerra.

La questione da risolvere riguarda una contraddizione centrale: può il recupero della centralità del lavoro avvenire senza un concreto e riconosciuto ruolo delle sue rappresentanze sociali?

Possono una condizione redistributiva così iniqua e la marginalità del lavoro essere affrontate senza la ricostruzione di nuovi rapporti di potere, impraticabili al di fuori della direzione e della responsabilità dei grandi Sindacati confederali?

Si è parlato molto delle divisioni di questi mesi e della esigenza di ricostruire credibili forme di unità sindacale.

Aggiungerei che, tuttavia, questo dibattito mi è parso ipocrita, più portato a ricercare posizionamenti che a predisporre analisi sul merito delle proposte e delle decisioni.

Il Sindacato non ha bisogno dei tifosi, ha bisogno di giudizi, anche critici, ma legati alla realtà, a ciò che sta avvenendo e non alla sua rappresentazione interessata.

Ci sono alcuni nodi, che hanno caratterizzato le vicende sociali, sui quali il dibattito mi è parso drammaticamente inadeguato.

E’ di queste settimane la polemica sull’ art. 8 della recente manovra finanziaria. Esso introduce la possibilità alla contrattazione di azienda di derogare, con validità “erga omnes” a leggi e contratti.

Al di là della gracilità giuridica e costituzionale della norma, il dato politico che sottende riguarda, da un lato, il rovesciamento di una idea portante del Diritto del lavoro italiano ed europeo, il quale, riconoscendo una asimmetria di poteri nel rapporto di lavoro, forniva forme di sostegno (le Leggi) alla parte più debole tra i contraenti; dall’altro, una visione della regolazione delle relazioni sindacali e contrattuali incardinata, non tanto su un nuovo ed opportuno equilibrio tra CCNL e contrattazione aziendale, ma su una sorta di supermercato contrattuale che si traduce in altrettanti fattori di incremento delle disparità del nostro mercato del lavoro, tra imprese grandi ed imprese medie e piccole, e, soprattutto, tra territori “ricchi” e territori” poveri”. Ed è facilmente immaginabile il peso che questa diversità di situazioni potrebbe avere nelle decisioni di allocazione degli investimenti produttivi.

Poi, senza un modello contrattuale che consenta ai Sindacati di esercitare una rappresentanza unitaria delle condizioni del lavoro si renderebbe piuttosto forte la prospettiva di una deriva corporativa che è il contrario di quanto le grandi organizzazioni sociali hanno perseguito nella loro storia.

Si aggiunga come la messa in discussione del ruolo di regolazione finora affidato al contratto nazionale (e tanto più alla legge) vada ad impattare con delicati problemi di rappresentanza dei lavoratori e di verifica della rappresentatività sindacale i quali dovrebbero essere assunti come priorità per legittimare le scelte contrattuali, a maggior ragione di fronte ad un quadro problematico di unità sindacale.

Ancora, se si riconosce che i salari reali sono in contrazione una politica contrattuale che si incentra principalmente sulla contrattazione aziendale (che coinvolge solo ¼ dei lavoratori) mentre può produrre benefici nelle realtà forti, sindacalmente e in termini produttivi, non rischia, a causa dell’impoverimento di politiche nazionali, di deprimere ancor di più la massa salariale complessiva?

Riducendo i salari si incentiva una competizione da costi mentre il problema italiano riguarda proprio il fatto che la produttività è diminuita a causa della bassa qualità del lavoro (precarietà) e dalla insufficiente valorizzazione del capitale.

E’ ragionevole sostenere che, nella situazione data, sia complicato agire solo contrattualmente per la crescita dei salari. Per questo se si ha a cuore la condizione del lavoro e il fatto che senza un aumento della domanda la crescita non è praticabile, occorrerebbe concentrarci sulle politiche fiscali per sostenere i redditi, soprattutto medi e bassi.

Ma sulla riforma fiscale si balbetta, in gran parte ripiegati sul populismo berlusconiano che prometteva la felicità di un mondo senza tasse, riuscendo nel capolavoro di far difendere ai poveri politiche fiscali per i ricchi.

Questo è l’unico Paese che non tassa le grandi ricchezze, non colpisce le rendite, ha abolito le imposte sugli immobili con la conseguenza che la fedeltà fiscale è elusa dalla parte più abbiente del Paese. Ad es., gli introiti Irpef gravano per il 91% su lavoratori dipendenti e pensionati e solo per il 9% sul resto dei contribuenti.

Queste parziali riflessioni fanno emergere un essenziale esigenza per le rappresentanze sociali: come rilanciare una pratica di partecipazione dei lavoratori alle vicende più generali dell’economia e a quelle più specifiche della condizione di lavoro. Anche su questo la discussione è assai scadente, incentrata in astratte polemiche su conflitto e “complicità”, incapace di evidenziare sia che il conflitto è un mezzo e non un fine, sia che la partecipazione, come ci insegnano i paesi nei quali ha avuto maggior successo, non è subalterna complicità ma riconoscimento e valorizzazione di poteri e funzioni.

Sarebbe essenziale un recupero di consapevolezza sul bisogno di una nuova democrazia sindacale, più partecipata, più regolata e, di conseguenza, più unitaria.

Il pericolo che abbiamo di fronte, nella drammatica crisi sociale di oggi, è che né la sinistra né il sindacato siano percepiti come soggetti in grado di offrire una prospettiva di governo delle tensioni crescenti e di cambiamento delle politiche conservatrici.

Il paradosso della crisi attuale della sinistra sembrerebbe consistere nella incapacità, per subalternità o pigrizia intellettuale, di leggere la lezione della crisi e nel non saper indicare un percorso di speranza, una strada, un progetto, magari difficile, ma coerentemente in grado di dare un senso anche alle difficoltà del presente. E nel saper tradurre quel progetto in riforme strutturali concrete.

L’assenza di questa capacità progettuale e di strategia lascia spazi ai ripieghi corporativi o localistici, gli unici che sembrano capaci di tradurre sollecitazioni rimaste senza interpreti, anche perchè non devono rispondere a troppe coerenze o a basi culturali complesse e che trovano, proprio in questi limiti, la base del loro successo. Lascia spazi a un pragmatismo che potrebbe avere aspetti anche positivi, ma che in Italia assume la versione dell’opportunismo e della deriva morale.

Tutto questo aggravato da una crisi delle “classi dirigenti” ormai incapaci di avere e produrre una visione per il Paese e definitivamente prive di alcuna funzione “educativa”, che si protendono, in modo sempre più autoreferenziale e con complicità trasversali, in una azione predatoria sulle risorse del Paese, determinando un effetto moltiplicatore di declino e impoverimento economico, nuove ineguaglianze e sfiducia verso il futuro.

La assenza di una rappresentanza politica del lavoro non è una questione solo del mondo del lavoro, ma è una delle questioni politiche centrali della democrazia italiana.

Recuperare il lavoro come soggetto “attivo”, rafforzare le sue forme, politiche e sociali, di rappresentanza; perseguire politiche per l’uguaglianza e una forte responsabilità pubblica sono le condizioni per ricostruire una risposta al declino del Paese.

A ben vedere sono anche il cuore della visione del socialismo, una parola che si fa ancora fatica a pronunciare ma che mi pare essere la chiave per uscire dal rischio della “barbarie”.

Spread the love

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *