La recensione di R. Romano del volume di S. Ferrari “Società ed economia della conoscenza”

società di SFRecensione di Roberto Romano al volume “Società ed economia della conoscenza” di Sergio Ferrari  (Ed. Mnamon, Roma 2014) da “Moneta e Credito, vol 67 n° 268 – Nella società e nell’economia della conoscenza c’è qualcosa di nuovo e inedito: la possibilità di integrare gli strumenti convenzionali della politica economica con la conoscenza scientifica. Non perché in precedenza questa non fosse utilizzata, piuttosto perché il patrimonio accumulato dal sapere scientifico e tecnologico sta cambiando la strumentazione della politica economica. Il richiamo di Ferrari nel suo volume Società ed economia della conoscenza alle idee di Graziani (1997) e Sylos Labini (1993) è naturale.

Si potrebbe ricordare anche il lavoro di Pasinetti (1993) quando l’Autore sottolinea un particolare fenomeno effetto delle tecnologie:

“[L]a tendenza non solo, e certe volte non tanto, a migliorare le operazioni tecnologiche in essere, quanto, e talvolta soprattutto, a introdurre tecniche nuove, con la scoperta e/o lo sviluppo di nuovi processi produttivi, di nuovi materiali, di nuove fonti di energia, e quindi di nuovi beni e servizi” (pp. 70-71).

Sergio Ferrari indaga un lascito di Sylos Labini (1993):

“[I]n una analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (p. vii).

Ferrari spinge la sua riflessione oltre il dibattito corrente quando sostiene che esiste la possibilità-capacità “di programmare le innovazioni da parte del sistema privato e pubblico”. Il tema della programmazione dell’innovazione non è nuovo nella scienza e nella ricerca applicata. Si pensi alla ricerca farmaceutica, alle biotecnologie, o alla sfida dell’energia rinnovabile oggi, all’energia del motore a scoppio applicata all’idraulica nell’industria dell’Ottocento. La suggestione di Ferrari relativa a tale pianificazione stimola una relazione inedita tra scienza ed economia. Riprendendo un passaggio dal suo volume: “[L]a formula che oggi chiamiamo ‘economia della conoscenza’ prevede la possibilità di aggiungere agli strumenti convenzionali della politica economica uno strumento quale quello della ‘conoscenza scientifica’. Non perché in precedenza non venisse utilizzata, ma per il fatto che attualmente il patrimonio accumulato delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sta cambiando la strumentazione a nostra disposizione per fare politica economica e questa capacità di programmare le innovazioni rappresenta un cambiamento essenziale” (pp. 53-54).

Sostanzialmente si profila un cambio di paradigma che non interessa solo i meccanismi dello sviluppo ma, più in generale, le scelte e i valori che la società nel suo insieme intende perseguire. Il rafforzamento del rapporto tra conoscenza scientifica e sviluppo economico, pur con tutte le sue contraddizioni, declina un’idea positiva e ottimistica della società.
Infatti, la conoscenza ha in sé un valore positivo nella misura in cui si aggiunge agli strumenti convenzionali della politica economica, ampliando i mezzi a sua disposizione. La programmazione dell’innovazione e la possibilità di cambiare la natura-composizione
tecnica della produzione e, soprattutto, degli investimenti, è la principale
intuizione di Ferrari.
La possibilità di pianificare il progresso tecnico offre uno strumento
inedito per cercare uno sbocco alla crisi economica. Con una sola avvertenza: la società della conoscenza non è un luogo romantico e privo di contraddizioni. Per questo l’investimento pubblico deve ri-appropriarsi del suo ruolo storico. Raccogliendo e sintetizzando i fondamenti macroeconomici della microeconomia di Leon (2014), Ferrari ricorda il conflitto capitale-Stato:
“[M]entre i profitti e i dati di bilancio delle aziende sono ‘curati’ dalle
imprese, l’occupazione, la bilancia commerciale, il PIL, i servizi pubblici,
la salute e la sicurezza, sono a carico delle istituzioni pubbliche. Non si
tratta di una attribuzione formale, piuttosto del fatto che nessun
imprenditore (per quanto illuminato) potrebbe gestire una impresa
ottimizzando l’occupazione nazionale, la bilancia commerciale, la spesa
sanitaria, ecc.” (pp. 57-95).

Una sfida che si fa complessa e inedita, se si considera che la domanda di lavoro difficilmente assicurerà la piena occupazione, soprattutto nelle economie avanzate. In questi paesi si manifesta un eccesso di capacità produttiva che interroga i rapporti sociali. Si tratta di una novità che si aggiunge ad altre novità, come l’assestamento della
crescita demografica, la costante crescita della produttività del lavoro, assieme al fatto che la crisi economica non si è manifestata nello stesso modo a livello internazionale:
“[L]a crisi economica che stiamo attraversando non è una crisi mondiale ma
è una crisi delle aree più sviluppate a fronte di un’uscita dal sottosviluppo di aree precedentemente, appunto, sottosviluppate. La dizione di crisi mondiale non è quindi corretta, ma traduce una visione del mondo di stampo eurocentrico (o occidentalcentrico)” (pp. 50-51).

Infatti, alcuni paesi hanno registrato tassi di crescita senza precedenti
storici. In definitiva, ci sono le condizioni per avviare una riflessione a
tutto campo su questioni generali e di struttura. Come direbbe Keynes:

“[Q]uello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi
di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento
da un periodo economico a un altro.
L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera” (2009, p. 11).

La società della conoscenza ha delle enormi implicazioni
economiche e sociali, competenze scientifiche e tecnologiche condizionano lo sviluppo di tutti i paesi. Ferrari assume come condizionante la conoscenza scientifica e tecnologica, non per sminuire il patrimonio di sapere da fonti diverse, ma per sottolineare il modo in cui questa trasformi il lavoro, la vita dei cittadini, l’accumulazione della ricchezza e i rapporti tra l’accumulazione della ricchezza e la trasformazione dei valori sociali e culturali. Si tratta di ripercorrere la tesi di Riccardo Lombardi, e più precisamente la differenza tra riforme strutturali e riforme di struttura. Riprendendo la tesi di un grande economista italiano recentemente scomparso, Augusto Graziani (1997), è difficile inserire stabilmente in un contesto di paesi avanzati un paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato soltanto per la compressione del costo del lavoro. In qualche modo lo sviluppo economico, sociale e del reddito è legato alla capacità di agganciare i grandi cambiamenti di struttura, che sono per lo più cambiamenti legati alla capacità di ‘generare’ conoscenza. Diversamente
sarebbe inspiegabile la crescita e il consolidamento della spesa in ricerca e sviluppo in tutti i paesi, anche di quelli emergenti, con un aumento dell’intensità tecnologica de
gli investimenti (Lucarelli et al., 2013).

Ferrari utilizza come esempio la Cina, sapendo bene che il fenomeno non è circoscrivibile alla sola Cina. In questo paese la spesa in ricerca e sviluppo cresce del 10% annuo, con un rapporto tra ricerca e sviluppo e PIL prossimo all’1,5%. Non solo l’economia internazionale si integra, ma gli scambi commerciali crescono più velocemente dell’integrazione economica, con un aspetto inedito: i prodotti ad alta tecnologia del commercio internazionale salgono al 30% del totale, con dei tassi di
crescita di 12 punti più alti dei beni e servizi a bassa tecnologia.
La sintesi di Ferrari è la seguente: 1) il cambiamento non è solo quantitativo, ma sviluppa un’inedita relazione tra conoscenza scientifica e applicazioni tecnologiche; 2) l’accumulo di conoscenza scientifica e del potenziale tecnologico ha creato un nuovo strumento per lo sviluppo, più in particolare la possibilità di programmare l’innovazione tecnologica; 3) la programmazione dell’innovazione tecnologica schiude una serie di
questioni di natura etica, politica, sociale ed economica.
Ferrari, alla fine del suo volume Società ed economia della conoscenza, analizza l’Italia nel consesso internazionale, facendo risalire la crisi di oggi non alla politica economica europea, piuttosto a problemi di struttura ben radicati nel tempo. Se l’Italia ha realizzato un vero e proprio miracolo economico alla fine della seconda guerra mondiale,
strada facendo ha perso la propria spinta ‘innovativa’, mentre l’Europa rimane marginale e meritevole di ben altre istituzioni. Se la critica alle politiche europee è corretta, questa critica rimuove il fatto che già prima del 1992 l’Italia riusciva a restar e sul mercato internazionale solo attraverso delle svalutazioni monetarie. Il declino dell’Italia ha radici
lontane e in molti erano consapevoli del problema. Ferrari riprende uno studio del 1985 di Momigliano e Siniscalco:
“[A]nche se l’interpretazione è stata puramente descrittiva, […] i risultati  ottenuti, insieme ad altre indagini più dettagliate soltanto per prodotti (che hanno posto in luce una persistente e crescente inferiorità dell’Italia nell’export dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico), hanno tuttavia indotto una nota e diffusa preoccupazione: quella di un paese specializzato
in prodotti maturi, a basso contenuto tecnologico e domanda scarsamente dinamica, sottoposti, per la legge di limitabilità delle tecnologie, alla crescente competizione dei paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo” (1985, p. 541).

I problemi del cambiamento tecnologico e la possibilità di programmarlo necessitano di istituzioni adeguate. Servirebbe lo sviluppo di un luogo pubblico capace di realizzare procedure e analisi di progetti in grado di modificare il quadro economico generale, vincolate da un interesse generale (pubblico). In definitiva, la difesa degli interessi
comuni non si realizza con una strumentazione finanziaria diversamente declinata, piuttosto con una valutazione degli esiti delle politiche adottate
in ordine agli effetti macroeconomici e sociali, compresa la piena e buona
occupazione.

Roberto Romano
CGIL Lombardia , e-mail: roberto.romano@cgil.lombardia.it

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