Penna: “LA SANITA’ PUBBLICA SACRIFICATA AGLI INTERESSI DEI PRIVATI”  

Di Renzo Penna: “LA SANITA’ PUBBLICA SACRIFICATA AGLI INTERESSI DEI PRIVATI – Le responsabilità dei Governi e della Politica”

Vi è una crescente apprensione da parte dei cittadini per le insufficienze e i ritardi che sta manifestando, in diverse sue componenti, il Servizio Sanitario Nazionale. Per questo, al fine di indagare le cause di tali carenze con l’obiettivo di operare per superarle, ritengo possa essere utile ricordare l’impegno e le motivazioni che, oltre 42 anni fa, hanno reso possibile l’istituzione del SSN. E possiamo oggi, a distanza di tanto tempo e con qualche certezza in più, affermare come questa sia stata anche l’ultima delle grandi riforme dello Stato sociale italiano.

Il SSN, l’ultima delle grandi Riforme    

Il 23 dicembre 1978, con l’approvazione della legge n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale (SSN), si conclude il lungo e periglioso iter di una riforma frutto del dibattito avviatosi negli anni sessanta sullo stato della salute degli italiani. Nel 1959 la pubblicazione del pamphlet “La salute è malata”, a firma di Giovanni Berlinguer e Severino Delogu, inaugurava un filone saggistico di denuncia della disastrosa condizione sanitaria del Paese.[1] Va rilevato che la riforma del SSN si realizza quando in Europa era già iniziata la fase di riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberista e, sui contenuti del welfare, il modello socialdemocratico entrava in un lungo processo di revisione. Una peculiarità italiana dovuta all’onda lunga del biennio 1968-‘69 e al legame instauratosi, nei primi anni ‘70, tra le lotte operaie e studentesche e il nuovo movimento di rinnovamento della medicina. Un ruolo decisivo ebbero le riflessioni maturate in seno ai due principali partiti della sinistra, Pci e Psi, e al sindacato. Nel 1958 fu la CGIL ad approvare un documento nel quale, per la prima volta, si chiedeva l’istituzione di un Servizio sanitario nazionale a fronte della mancanza in Italia di “una politica sociale efficace e, in particolare, di una moderna politica sanitaria”.[2] In questo percorso emersero significative personalità di raccordo tra l’ambito medico-accademico, il mondo del lavoro e della fabbrica e lo spazio del confronto politico. Tra queste spiccarono alcune figure di studiosi, medici, biologi come Giovanni Berlinguer, Giulio Maccacaro, Alessandro Seppilli e Ivar Oddone.

Ciò che si produsse in quella stagione fu una crescente convergenza culturale e politica volta a riformulare in termini universalistici e pubblici il sistema sanitario. Numerose iniziative si susseguirono sui temi della salute negli ambienti di lavoro e a livello territoriale, secondo un percorso che nel tempo si sarebbe articolato lungo la traiettoria salute-fabbrica-territorio. Nel 1961 si ha la prima inchiesta relativa alla nocività sul luogo di lavoro, condotta presso l’impianto chimico Farmitalia di Settimo Torinese, patrocinata dalla Camera del Lavoro di Torino e coordinata da Ivar Oddone. La Commissione all’uopo costituita, riuniva sindacalisti, lavoratori, medici, assistenti sociali. Una pratica che si diffonde e porta a una nuova consapevolezza operaia sui temi della salute. Un elemento che finisce per condurre larga parte del mondo sindacale ad abbandonare la linea, sin lì adottata, della “monetizzazione della salute” per arrivare a sostenere principi espressi nel celebre slogan “la salute non si vende”.[3] Nel 1965, per iniziativa di Gastone Marri, nasce presso l’INCA-CGIL il Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro, dal 1974 diventato struttura della Federazione unitaria. Il CDR svolse un ruolo fondamentale di diffusione e coordinamento delle esperienze e delle lotte operaie e sindacali per il controllo dell’ambiente di lavoro e contro la nocività.

La riforma sanitaria entra a far parte dell’agenda politica per iniziativa, in particolare, del ministro della Sanità, il socialista Mariotti, che la propone nel 1967 e la ripropone nel ‘70. Nel frattempo, nel febbraio 1968, e sempre su proposta del ministro, diventa legge la riforma degli Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera (L/n. 132) che, tra l’altro, sancisce l’universalità del diritto al ricovero. Ad ostacolare il percorso della riforma scesero in campo gli interessi di alcune grandi mutue (in primis Federmutue, espressione degli interessi dei coltivatori diretti, da sempre legata alla DC), dell’industria farmaceutica e degli stessi medici. Nell’agosto 1974 il nuovo ministro Colombo presentava alla Camera il disegno di legge “Istituzione del Servizio sanitario nazionale” dai contenuti avanzati che recepiva alcuni principi fondamentali da tempo sostenuti dalle forze politiche di sinistra e dalla CGIL. Ma anche questa volta l’iter legislativo non arriva a conclusione per la fine anticipata della VI legislatura. La riforma, infine, venne approvata sul finire del 1978, sotto il dicastero di Tina Anselmi, con molti anni di ritardo dalla sua elaborazione, ma, in ogni caso, frutto di progetti di cambiamento, mobilitazioni sociali e concrete esperienze capaci di esprimere un potere dal basso, nei luoghi di lavoro e nel territorio. E i cui principi fondamentali, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione, sono l’universalità, l’uguaglianza e l’equità.

Mettere in discussione le scelte ideologiche degli ultimi decenni

I migliori principi, per restare tali, hanno, però, bisogno di essere, con coerenza e costanza, adeguatamente supportati e non svuotati con provvedimenti che ne inficiano la pratica realizzazione. I limiti e le carenze del Servizio Sanitario Nazionale sono venuti alla luce drammaticamente con l’epidemia da coronavirus. La difficile esperienza che ancora stiamo vivendo, per tornare utile, deve fornire le indicazioni per ricostruire la sanità pubblica, correggendo gli errori, i “tagli” e le degenerazioni di questi ultimi 15-20 anni, riscoprendo la vera funzione del  SSN: tutelare la salute pubblica dei cittadini, il diritto alla salute, non solo alla cura. E rafforzare l’idea principale che sottostà alla sua fondazione: erogare le cure migliori per tutti e gratuitamente.

Per ottenere questo occorre, però, avere il coraggio politico di riflettere seriamente sull’indirizzo ideologico che negli ultimi due decenni ha indotto i governi a ridurre progressivamente il ruolo del pubblico nella sanità, mettendo, soprattutto, in discussione la concezione “aziendale” e speculativa della sanità, introdotta nel 1995 con l’adozione del DGR (Diagnosis Relatid Groups). Il sistema che – come dichiarato dal professor Giuseppe Remussi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri[4] – stabilisce un prezzo, una tariffa per le prestazioni sanitarie che le regioni rimborsano agli ospedali. Come è successo soprattutto in Lombardia, la regione italiana che più di tutte ha orientato la sua politica sanitaria sui DGR spostando enormi quote di soldi pubblici sul privato convenzionato. Dove l’obiettivo principale diventa il fatturato e non la salute delle persone. Soldi pubblici in grandi quantità finiti impropriamente alla sanità privata anziché essere investiti nel sistema socio-sanitario del territorio. Un grave errore anche perché in nessun altro settore come in quello della salute i fallimenti del mercato risultano evidenti e sono causa di forti diseguaglianze che penalizzano la parte più povera della popolazione, quella che più ha bisogno.

Un indirizzo politico che ha penalizzato la medicina territoriale. Primo filtro di conoscenza del territorio e di approccio alla cura, utile anche per un’azione di prevenzione della salute pubblica e ad evitare nelle fasi pandemiche la crisi e il collasso dell’intero sistema.

Ma la prevenzione nell’attuale contesto non “rende” e gli ospedali per reggere economicamente devono realizzare un certo numero di “prestazioni”, di interventi chirurgici. Un sistema che di fatto ha messo in crisi anche l’ospedale pubblico. Così come occorre accantonare ogni ipotesi di autonomia differenziata: i problemi evidenziati da alcune Regioni sono comuni a tutte le realtà e vanno affrontati a livello nazionale.

Riassegnare alla Prevenzione il ruolo di guida del SSN

Quando tutti invocano la necessità di rafforzare la medicina del territorio, la rete dei distretti, potenziare l’assistenza domiciliare, valorizzare il ruolo e ampliare i compiti dei medici di base, investire in risorse umane, strutture, servizi più vicini alla cittadinanza, occorrerà che, analogamente, gli ospedali pubblici tornino ad essere valutati e compensati in base alle vere esigenze epidemiologiche del territorio. Riassegnando alla prevenzione un ruolo di guida e di indirizzo. Organizzando e finanziando i Dipartimenti in maniera adeguata. E occorrerà fare presto visto il numero di dipendenti che il SSN ha perso per pensionamento o emigrazione e con un personale sanitario con una età media che supera i 50 anni. Nei prossimi dieci anni si prevede mancheranno 22 mila medici di medicina generale, nonché 48 mila medici del Servizio sanitario. Di infermieri, con il blocco del turnover e delle assunzioni, ne servono attualmente 53 mila e non è facile trovarli, visto che gli stipendi, per un lavoro come il loro, pesante e di responsabilità, sono i più bassi d’Europa. Fondamentale quindi sarà, sia dal governo centrale che da quello delle regioni,  avviare una seria politica del personale, capace di riconoscere il valore del lavoro di cura in un settore ad alta intensità di lavoro. Rispettando le norme sugli orari di lavoro, rinnovando i contratti, programmando la formazione delle diverse figure specialistiche,  bandendo il ricorso all’intermediazione di manodopera e l’impiego dei “gettonisti” nella medicina d’urgenza.

Insomma, per riorientare e sanare il SSN ancorandolo ai suoi originari principi, tornerebbe quanto mai utile quella mobilitazione dal basso degli anni ‘60-’70 e la valorizzazione di professionalità: docenti, medici, biologi che, anche negli ultimi anni, hanno continuato ad operare, credere, difendere e valorizzare la sanità pubblica.

Renzo Penna

Alessandria, 19 gennaio 2023

Nota 1: Chiara Giorgi e Ilaria Pavan: “Storia dello Stato sociale in Italia”. Il Mulino, 2021, pag. 400

Nota 2: “Rassegna sindacale”, n.3, 1958

Nota 3: “Quaderni di Rassegna sindacale”, n.28, 1971

Nota 4: Riccardo Iacona “Mai più eroi in corsia”. Piemme, 2020, pag. 218

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