Pensioni, pensioni, pensioni: è sbagliato parlarne così

di Paolo Leon

Va ripensata la politica economica nel suo complesso

E’ perfino umiliante che si continui a dibattere sul tema delle pensioni. Finora, il dibattito nasce su questioni finanziarie: se, cioè, sia possibile annullare o diluire lo scalone inventato dal governo Berlusconi, ma non realizzato da quel governo, impaurito delle conseguenze elettorali. In primo luogo, la questione è logicamente irrilevante: il Ministro dell’Economia afferma che non vi sono risorse; ciò significa che, implicitamente, egli sostiene che rispetto all’intera spesa pubblica, questa spesa sia meno importante. Ma cosa ne può sapere il Ministro dell’Economia delle priorità della spesa pubblica? Qui, il difetto è del Presidente del Consiglio, che avrebbe dovuto soppesare quali spese sarebbe stato necessario sacrificare, nell’ipotesi dell’abolizione dello scalone, e nel passare un giudizio del genere avrebbe dovuto chiarire quali criteri sarebbe stato necessario usare per giudicare cosa tagliare e cosa salvare. Poiché nulla di tutto ciò è stato fatto, è forte il sospetto che la questione abbia caratteri ideologici o sia stata costruita per ridurre il potere contrattuale del sindacato.
D’altra parte, non c’è alcuna ragione per sostenere che non vi sono le risorse per abolire o, più facilmente, diluire lo scalone. Il problema nasce dalla particolare teoria economica della Commissione Europea, che sostiene come il pareggio del bilancio pubblico sia una condizione necessaria per la crescita economica, e dato che l’Italia ha un deficit elevato, allora le risorse devono essere prioritariamente destinate a ridurlo. Questa teoria è falsa, come dimostrano i comportamenti di quasi tutti i paesi economicamente avanzati e per quasi tutti i periodi storici, dopo le grandi crisi di fine ottocento e degli anni ’20 del novecento. Per la Commissione, in realtà, il deficit dei singoli Stati nazionali è necessariamente finanziato con l’emissione di titoli pubblici denominati in Euro, e ciò può influenzare il valore della moneta unica: quanto maggiore il debito, di qualsiasi Stato dell’area monetaria, tanto più debole è l’Euro; e per la teoria della Commissione, l’Euro deve essere forte, così da spingere le imprese a massimizzare la produttività, combattere il sindacato per controllare i salari, fare adottare l’Euro come moneta per finanziare il commercio internazionale (l’acquisto del petrolio, ad esempio, oggi è espresso in dollari). Questa politica è legittima, ma non ha alcun riscontro democratico; è facilmente sostenibile una politica alternativa di euro equilibrato, stabile rispetto al dollaro, che implica, salvo condizioni particolari, la stabilità del debito pubblico di ciascuno Stato: e ciò consentirebbe di finanziare politiche sociali e di sviluppo. E se il debito deve essere stabile, non c’è ragione per cercare il pareggio del bilancio. In Italia, dove il deficit è inferiore al 3% del PIL (come indicato nei trattati europei), non vi è ragione di ridurlo, se il debito è stabilizzato; oppure, si può ridurre con grande lentezza, se è necessario ridurre il debito: nulla, tuttavia, ci obbliga a pareggiare il bilancio entro il 2011, come indicato dal DPEF. Certo: tutto sta nel come si combatte in Europa contro la deriva fortemente conservatrice della Commissione. Anche l’Europa può essere di destra o di sinistra, e il nostro Governo non può continuare a farsi legare le mani, come se non avesse responsabilità politiche precise nei confronti dei suoi elettori.
Una volta eliminata la priorità del pareggio di bilancio, le risorse per lo scalone ci sono. Si può ancora sostenere che tali risorse vanno spese in altro modo, ma non che esista una legge bronzea che ci obbliga a tenerci lo scalone. In ogni caso, non ha nessun valore l’osservazione che, se si abolisce lo scalone, vengono a mancare le risorse per i giovani: qui, com’è ben noto, si tratta di alterare i contratti di lavoro, così da eliminare la precarietà, sia nel settore privato, e la spesa pubblica non c’entra, sia nel settore pubblico, e allora se vi sarà un piccolo incremento di spesa pubblica, sarà parzialmente coperto dalle maggiori imposte e dai maggiori oneri sociali.
Bisogna andare più in profondo sulla questione delle pensioni. Se è l’allungamento della vita media che preoccupa, e dunque un aumento di anziani che ricevono la pensione e non lavorano, non vi sarebbe alcun problema se contemporaneamente aumentasse il numero di lavoratori che paga gli oneri sociali. Ora, noi abbiamo ancora un’alta disoccupazione giovanile, e una formidabile riserva di lavoro nelle donne, che ancora partecipano poco al mercato del lavoro, per non parlare degli immigrati. Così, il problema delle pensioni diventa subito un problema di occupazione. Naturalmente, l’occupazione necessaria è a tempo pieno, ché altrimenti l’incasso di oneri sociali diventa insufficiente; è inutile girarci intorno – sono in gioco le politiche del lavoro, e non le pensioni. Mi si opporrà che le politiche del lavoro richiedono molti anni per avere successo: ma il problema pensionistico, inteso come percentuale di questa spesa sul PIL, non è per oggi, ma per un periodo che inizia tra dieci-quindici anni da oggi.
Infine, sarà bene dimenticare l’idea che il sistema pensionistico debba finanziare se stesso: se fosse così, sarebbe allora inevitabile la sua privatizzazione. Se nessuno ci pensa, è perché c’è una forma di schizofrenia nel pensiero politico: se la previdenza è parte della responsabilità sociale dello Stato, il sistema pensionistico non deve necessariamente autofinanziarsi. Lo dimostrano solo pochi esempi: nel caso dell’INPS molte pensioni sono ancora assistenziali; i lavoratori stanno pagando il disastro finanziario del fondo dei dirigenti; fino a epoca recente vi sono stati forti prepensionamenti, ciò che corrisponde ad un implicito sussidio alle imprese (chi sa se Montezemolo se lo ricorda).
E allora? Credo ci manchi una visione della politica economica che sia legata alla politica sociale; credo ci manchi una visione della politica sociale come politica democratica; credo ci manchi una visione della politica economica che guardi alla collettività e non agli interessi egoistici dei singoli individui.

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