Pensioni, la leggenda dell’onere insopportabile

Un approfondito dialogo con Luciano Gallino, sociologo del lavoro e componente il Comitato Promotore Nazionale di Sd, pubblicato su L’Unità del 16 luglio 2007

di Bruno Gravagnuolo

Luciano Gallino è uno studioso insigne e rigoroso. Professore emerito di Sociologia nell’ateneo torinese, da anni smonta con pazienza i luoghi comuni. Esempi. La «fine del lavoro dipendente e degli operai»: da noi 16 milioni i primi, e 5 i secondi solo nell’industria! Poi, il mito progressivo della «flessibilità», sempre precaria in realtà. In ogni caso eccessiva in Italia e «diseconomica» ovunque. Oppure l’altro mito: la «concorrenza cinese». Che invece è in larga parte occidentale, fatta di merci occidentali importate dalla Cina. Di recente Gallino ha liquidato sulla Repubblica un’altra frottola corrente: l’onere pensionistico insopportabile. Laddove al contrario il bilancio Inps è a posto. E – senza l’assistenza e gli oneri non da lavoro dipendente – avrebbe un attivo di 3,5 miliardi di euro. In più, c’è il futuro. Chi ha detto che la platea degli occupati, a favore dei futuri pensionati, non debba crescere, con giuste politiche? Insomma è sbagliato prendere ai poveri per dare ai poveri, con la scusa del «conflitto tra generazioni». E condannarsi alfine a dover gestire così la «naturale» precarietà dei flessibili. L’articolo sull’Inps è stato un po’ oscurato da Repubblica e messo in un angoletto, il 5 luglio scorso. Ma il tema è decisivo, e ci regala uno spunto per fare intervenire Gallino nel nostro dibattito sulla «sinistra smarrita». È vero, lui è un sociologo con «understatement», però di sinistra se ne intende. Addirittura nel suo ultimo libro, Tecnologia e democrazia (Einaudi) rilancia il «socialismo», «pezzi» di cui per Gallino sono: «Il buon uso sociale della scienza come “bene comune”, il governo politico della finanza, la democrazia industriale, forme cooperative…». In altri termini, la democrazia applicata ad ogni ambito sociale. Sì, ma la cultura politica della sinistra di oggi, la «sinistra smarrita»? Sentiamo il professore.

È opinione diffusa tra i moderati del centrosinistra che compito della sinistra sia quello di adeguare il welfare alla flessibilità del lavoro. Gestire l’esercito di riserva in sintonia con l’impresa. È questa la sinistra ritrovata?
«Opinione diffusa non solo in Italia. Ma è un’impostazione di corto raggio. La flessibilità nasce dalla messa in concorrenza di 1 miliardo e mezzo di nuovi lavoratori extraeuropei, con quelli occidentali. E dal riassetto produttivo del sistema globale. Ma la flessibilità non è una legge di natura, e arrendersi ad essa, subirla, è miope. Inoltre chi idealizza la «flexsecurity» scandinava, non fa i conti con i costi immensi che implica: milioni di lavoratori assistiti, in mobilità e formazione. Se si fa sul serio, allora si tratta di elevare massicciamente la pressione fiscale, come in Svezia e Danimarca: più del 50% del Pil. Irrealistico».

Meglio per la sinistra puntare alla piena occupazione perché meno costoso?
«Sì, meno costoso, più equo e anche più di sinistra»

Lei ha dimostrato che l’Inps, detratta l’assistenza, ha i conti in ordine. Che le pensioni del futuro sono assicurate. E che occorre ampliare la platea degli occupati, per garantirle ancor di più…
«Già, e qui torniamo alla piena occupazione. Ma anche all’evasione fiscale e al sommerso – vero serbatoio di flessibilità! – che sono decisivi per impostare seriamente il problema. E sul quale né la destra né la sinistra hanno dato risposte risolutive».

Viceversa la sinistra dà vita a un Partito democratico che sembra far suoi gli allarmi e le politiche di cui sopra sul welfare. C’è un nesso tra il mercatismo delle «opportunità», e la cultura politica «democrat»?
«Certamente sì. Se diciamo che il compito non è quello di regolare con forza il capitalismo, come nel 900, ma quello di lenire la precarietà, e adattare il lavoro a un certo trend, allora ci si adegua a compiti più limitati. Si perdono di vista finalità più generali di emancipazione. E si finisce col pagarne lo scotto anche in termini di bilanci finanziari».

Altro leit-motiv: sono finiti i partiti di massa per certi obiettivi. Ma, destre di massa a parte, è davvero così, in Gran Bretagna o in Germania?

«Molti studiosi, in Germania, Francia e Regno Unito non sarebbero affatto d’accordo con questa tesi. Prenda il caso della Gran Bretagna, dove c’è ancora un Labour radicato. Gordon Brown sta cambiando la politica filo americana di Blair. E ha fatto, all’atto del suo insediamento, un forte discorso, molto di sinistra. Con la ripresa di temi abbandonati dal New Labour da molti anni. Più eguaglianza, più stato sociale, più sanità. Più beni pubblici per tutti i cittadini. Discorso che ha alle spalle l’idea di un partito robusto e combattivo a sostegno. In Germania la Spd resta un partito esteso, mentre si affaccia la realtà della Neue Linke, con uno spessore sociale anni fa inimmaginabile. Certo l’Spd, con il suo stile adattivo e leggero tipo “Neue Mitte” s’è tagliata molta erba sotto i piedi…»

Lei auspica forti politiche pubbliche. E Sarkozy in Europa sembra accontentarla. No agli alti tassi, no al monetarismo, no alla concorrenza come totem. Sfida imbarazzante da destra?
«Sarkozy è molto capace e sveglio, ed è appoggiato dalle grandi famiglie economiche francesi. Valorizza il profilo statale della Francia e il ruolo pubblico in economia. Da noi la sinistra è invece sensibile agli argomenti globali liberisti che vengono dall’esterno. Come la svalutazione delle politiche industriali e dello stato in economia. Mentre, se c’è un paese che investe in colossali politiche industriali pubbliche, sono proprio gli Usa liberisti, peraltro paese protezionista. Il liberismo è sempre un enunciato che vale per gli altri… Quanto alla Bce, la si è presa troppo sul serio e le si è concesso troppo potere. L’Europa non può essere governata in una prospettiva solo finanziaria. E da questo punto di vista Sarkozy ha pienamente ragione. Viceversa ogni volta che un funzionario di Bruxelles, dell’Ocse o del Fmi starnutisce, il governo italiano trema».

La sinistra per essere tale, deve assumere ancora come tratto saliente la critica al capitalismo?
«Senza il minimo dubbio. Significa il tentativo di regolare il caos selvaggio del capitalismo. Introducendo finalità universali. Dall’uso della scienza, ai beni comuni, alla democrazia industriale, alle forme proprietarie. E puntando al governo della finanza. Il capitalismo attuale per il 90% coincide con i mercati finanziari. Esso non è produzione, non è lavoro, non è industria, non è scambio di merci. È finanza da regolare».

È protezionismo esigere che le merci non siano adulterate o prodotte con salari schiavistici? E imporre standard per alzare i salari non è in fondo «esportazione della democrazia»?
«Sì, certi standard sono irrinunciabili. Ma va ricordato anche che la concorrenza cinese, e di altri paesi emergenti, non è fatta solo di merci cinesi. Il 50% infatti è prodotto in deroga a elementari diritti umani – 2 o 3 dollari al giorno di costo del lavoro – e grazie a investimenti occidentali. Le imprese occidentali esportano capitali in cerca di manodopera a buon mercato. E reintroducono nei paesi d’origine quelle merci. Il gigante cinese è costruito per metà dall’occidente, con 40 milioni di schiavi disseminati nelle zone franche. Vuol dire: materie prime e semilavorati, trasformate in Cina. E rivendute in occidente a prezzi occidentali. Quindi diritti minimi, niente vincoli ambientali e grande “ricarico”. Oggi l’85% dei computer portatili del mondo è fabbricato in Cina, a 80 dollari al mese. Da noi costano 1200 dollari l’uno».

C’è un nesso tra tutto questo scenario e la spirale delle guerre?
«C’è un rapporto complesso, ma altresì evidente. A parte la contesa globale e geopolitica sui mercati, assistiamo oggi alla produzione intenzionale di immense ineguaglianze, nel segno del capitalismo globale. Con un abisso tra un 90% di paria e un 20% di privilegiati sul pianeta. Le immense diseguaglianze alimentano a loro volta tensioni terrificanti. E la disponibilità di grandi masse disperate ad ogni avventura. Un fenomeno sociale che si collega ai nazionalismi e ai fondamentalismi».

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