RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE POLITICA

fotoVGIUGNO 2000

On. G. Benvenuto – On. R. Penna – Sen. F. Besostri – Sen. A. Cabras – Sen. L. Besso Cordero – Sen. G. Iuliano – Sen. G. Murineddu –Sen. F. Vigevani – On.- G. Pittella Dep. Europeo

Intendiamo far conoscere le nostre opinioni sulla situazione politica del paese e sullo stato del nostro partito. Una forte e convinta ripresa di iniziativa del centro-sinistra ad ogni livello e una azione di governo incisiva, forte della rilevante crescita economica e della occupazione possono determinare le condizioni per sconfiggere il centro-destra alle prossime elezioni politiche. Ma perché ciò si determini è indispensabile agire per rimuovere le ragioni delle sconfitte elettorali, della fine dell’Ulivo, della precarietà e della conflittualità interna al centro-sinistra, dello stato complessivo del partito dei D.S., offrendo così un quadro credibile e convincente di fiducia,  entro cui la ripresa di iniziativa della alleanza di centro-sinistra e l’azione di governo possano assumere senso e valore politico generale. Senza una consapevole azione in tal senso non si genera fiducia, non si mobilitano le forze del centro-sinistra nel Paese, e nello stesso tempo non si fa emergere la consapevolezza dei rischi che potrebbero derivare dalla eventuale nostra sconfitta, che investirebbe la qualità e la consistenza degli equilibri sociali, civili, democratici e non solo politici del nostro paese.

Nelle prospettive politiche di breve periodo non si collocherebbe “solo” una sconfitta elettorale che per quanto grave può rientrare nella fisiologia del processo democratico, nella alternativa di forze alla guida del governo del Paese. Ciò che invece rende non solo grave ma pericolosa la situazione degli equilibri democratici è costituito dal fatto che da  tanta parte della società italiana, dalla gerarchia ecclesiastica, alla Confindustria alla Banca d’Italia e non solo, si vanno consolidando ed estendendo una linea e una tendenza che mirano a marginalizzare il ruolo e la funzione della sinistra democratica dei DS e della CGIL, per colpire l’insieme delle forze riformiste, laiche e cattoliche.

Sbaglia chi trova analogia tra l’attacco di oggi alla CGIL e quelli degli anni ’50: oggi si tende a colpire la CGIL per colpire e indebolire tutto lo schieramento del sindacalismo confederale e gli equilibri sociali che ne derivano; allora non fu così, anzi per taluni versi fu il contrario. Stupisce invece che a tale linea non abbiano reagito finora e non reagiscano le forze del centro sinistra che più dei D.S. sono unitamente interessate al consenso dei ceti moderati, consenso che costituisce l’obiettivo primario del centro destra.

Non sorprende invece la linea di Rifondazione Comunista che riconferma e attualizza non il meglio della tradizione e della azione del PCI, ma due degli elementi peggiori del comunismo e della sua tradizione. L’assoluta prevalenza degli interessi di partito quando questi non coincidono o contrastano con gli interessi generali o anche solo dei lavoratori e l’avversione e la contrapposizione sistematica e radicale alle forze politiche politicamente meno lontane e meno avverse, piuttosto che alla destra.

Noi non riteniamo affatto  certa e inevitabile la sconfitta del centro sinistra e la vittoria del centro destra alle prossime elezioni politiche. Al contrario noi pensiamo che il centro sinistra possa vincere, ma a condizione che rimuova le cause di fondo che hanno portato alla sconfitta dell’Ulivo e ai conflitti interni alla maggioranza.

Noi pensiamo quindi che compito primario di tutti e di ciascuno sia la ricostruzione della alleanza di centro sinistra, intendendo per alleanza non un cartello elettorale, ma un qualcosa di più della somma dei partiti e dei movimenti che ne fanno parte.

Ma noi pensiamo anche che non sia contraddittorio con questo primario obiettivo, ma anzi ne sia un contributo, mettere mano con grande impegno e rapidità alla costruzione del partito del socialismo europeo in Italia decisa a Torino (il suo riformismo, la sua identità, il suo progetto e il partito nuovo) per il quale poco o nulla è stato fatto finora.

L’alleanza non è forte se qualche sua componente è debole o peggio l’alleanza non si rafforza indebolendone una o più parti. Purtroppo in politica e in Italia non è né ovvio né banale ricordare che la somma di debolezze non fa una forza, che è una pura illusione ritenere che soprattutto in un sistema tendenzialmente bipolare una alleanza si possa rafforzare perseguendo l’indebolimento di uno o più alleati, e non invece il rafforzamento di tutti e di ciascuno.

Come i fatti dimostrano e le sconfitte provano, i risultati di tali idee e comportamenti non sono mai a somma zero, ma meno di zero.

Al di là delle responsabilità massime di Rifondazione Comunista, le condizioni per la crisi e la sconfitta dell’Ulivo derivano sicuramente dal fatto che l’Ulivo stesso una volta conseguito l’obiettivo e l’ideale dell’Europa e della moneta unica si è trovato quasi svuotato, privo di una strategia altrettanto forte e idealmente motivante. Contestualmente a rendere più grave e difficile il superamento di quel deficit strategico sono state le contrapposizioni entrambe sbagliate e deleterie tra chi ha sostenuto la necessità e la possibilità di trasformare l’Ulivo in un partito e chi ha contrapposto le ragioni dei partiti alle ragioni dell’alleanza.

In nessun paese d’Europa la rappresentanza politica si risolve nella contrapposizione tra due soli partiti. In nessun paese d’Europa esistono partiti che da soli ottengono il 50%+1 dei consensi elettorali. E le leggi elettorali che devono garantire il massimo di rappresentatività degli elettori con il massimo di stabilità dei governi, possono spingere a semplificare gli schieramenti ma non possono ridurre solo a due entità la rappresentanza politica della complessità delle società moderne.

Solo le alleanze politiche, non le somme dei partiti o i cartelli elettorali, possono garantire insieme rappresentatività e stabilità.

Se, come pensiamo, il deficit di strategia dell’Ulivo dopo la realizzazione della moneta unica e la frammentazione della alleanza sono state le ragioni originarie delle sconfitte, anche altre ragioni sono state poste in evidenza dalle recenti elezioni regionali: la sottovalutazione dell’accordo tra Berlusconi e la Lega Nord, il fatto che tale accordo non ha prodotto i vantaggi attesi dal centro sinistra nel Centro e nel Sud del Paese, il mancato riscontro elettorale dei positivi risultati dell’azione dei governi Prodi e D’Alema, l’astensionismo.

Posto che tutte queste siano le ragioni più rilevanti, la riflessione vera e utile, che non si compie, riguarda  il fatto che, quali che esse siano, non si va oltre l’indicazione, non ci si interroga sui “perché?” di tali ragioni.

Perché si è sottovalutato l’accordo Berlusconi-Lega? Perché l’azione di governo non ha prodotto i risultati attesi? Perché non sono venuti i vantaggi del centro sud? Perché l’astensionismo del voto? E, più importante di tutte, perché il deficit di strategia del centro sinistra e la frantumazione della alleanza e come porvi rimedio?

NORD E SUD

A nostro parere la sottovalutazione dell’accordo Polo-Lega Nord è derivata dalla mancata percezione del carattere non solo strumentale a fini elettorali dell’accordo, ma di qualcosa di duraturo che si fonda sul consolidarsi di un blocco sociale e di interessi consistenti, che via via è maturato dopo la costituzione dell’Euro. E la nostra debole reazione non si è fondata nè si fonda ancora su una risposta forte e convincente dei D.S. e del centro sinistra ai problemi e sulle prospettive del Nord. Noi pensiamo che ciò derivi in primo luogo dal fatto che i D.S. e il centro sinistra sono privi ancora di una compiuta e convinta idea federalista, capace di parlare ai cittadini e alle classi dirigenti del Nord. Nella migliore delle ipotesi la nostra è semplicemente una opzione regionalista che peraltro discende dallo stato centrale anziché salire dalle municipalità e dalle comunità locali, vale a dire il rovescio del principio di sussidarietà.

Una idea che è causa ed effetto dell’incapacità finora dimostrata di far leva sui punti forti dell’economia e della società settentrionale per risolvere i limiti strutturali delle imprese troppo piccole e sottocapitalizzate, e perciò deboli nella innovazione di processo e di prodotto; la gravissima criticità dei sistemi di comunicazione ferroviari e stradali, la pesantezza della burocrazia statale e locale; una idea vecchia di Stato Sociale che soprattutto al Nord, più che reddito da redistribuire, richiede servizi reali alle persone e alle famiglie, per i quali il ruolo del Comune è centrale.

Anche la mancata compensazione di consensi nel Centro Sud rispetto al Nord rivela una carenza di analisi della società meridionale, il limite di un approccio prevalentemente, se non esclusivamente, economico e sociale che, pur importantissimo, non fa i conti con le dinamiche complesse del Sud che negli anni scorsi hanno fatto emergere nuovi gruppi dirigenti alla testa   delle città e dei comuni meridionali. Dallo stesso approccio economico e sociale non si enuclea un nuovo meridionalismo pensato in ragione dei processi di integrazione europea e della mondializzazione, sostenuto dai soggetti e dalle forze più dinamiche delle società meridionali vitalmente interessate alla modernizzazione e allo sviluppo del Sud, in particolare quelle che si concentrano nei centri di ricerca e nelle università meridionali.

E’ mancato e manca totalmente per il Sud e nel Sud un corretto disegno federalista e uno specifico progetto politico e programmatico imperniato sullo sviluppo delle conoscenze e dei saperi presenti nel Mezzogiorno attorno ai nuovi comuni e alle nuove città e allo sviluppo di nuove realtà imprenditoriali.

Il cuore del problema è costituito dalla centralità dell’investimento sul capitale umano, fondamentale soprattutto per la realtà in ritardo di sviluppo. Per il Sud tutto ciò finora è mancato.

A ciò si deve aggiungere l’insufficienza di una linea che ha trascurato le debolezze strutturali delle piccole e medie imprese meridionali ancora più grandi di quelle del centro nord e maggiormente gravate dai costi delle diseconomie esterne.

Senza di ciò trovano spazio e appaiono perfino dotate di valore culturale e scientifico le soluzioni del centro destra e di una parte consistente dell’imprenditoria italiana che nella loro sostanza sono le stesse che per decenni hanno operato nel Sud senza determinarne crescita, sviluppo e modernizzazione.

Se per il Nord il federalismo del centro sinistra è solo regionalismo pensato e prodotto dall’alto e non dal basso, nel Sud non esiste nemmeno questo.

L’AZIONE DEI GOVERNI PRODI E D’ALEMA

I mancati riscontri in termini elettorali della positiva azione dei governi Prodi e D’Alema non sono il risultato di incapacità di comunicazione, che pure è esistita ed esiste. A nostro parere tali mancati riscontri derivano dal fatto che sui risultati positivi dell’azione di governo è mancata la capacità di ricondurli ad una strategia e ad un progetto caricati, dichiaratamente ed esplicitamente, di senso e di valore. E’ così accaduto non poche volte che non si è saputo porre in evidenza di taluni risultati il loro senso e il loro valore generale, e non solo il fatto che tali risultati rispondevano ad esigenze e a bisogni di parti specifiche della popolazione.

Per dimostrare la giustezza di questo rilievo  si possono portare due esempi che, al contrario, confermano questa tesi. Nonostante le pesanti misure adottate e nonostante la durissima opposizione del Polo, degli euro-scettici, della Banca d’Italia, una larga maggioranza di italiani ha accettato la battaglia per il rispetto dei parametri di Maastrict  e il perseguimento della moneta unica perché i comuni cittadini più che le classi dirigenti coglievano il senso e il valore dell’obiettivo: l’Europa, una grande idea, un grande valore.

Analogo esempio si può portare con l’intervento militare in Kossovo. La grande maggioranza degli italiani ha condiviso l’intervento perché il suo senso e il suo valore erano rappresentati dal rifiuto della pulizia etnica e dalla difesa dei diritti umani. Senza di ciò, giustamente il consenso non ci sarebbe stato.

Ma di quali e quanti altri risultati – che pure ci sono stati – si è saputo cogliere il senso e porne in evidenza il valore? E’ sufficiente ricordare i risultati su uno dei più grandi tra problemi, quella fiscale che, oltre ad essere una grande questione economica e sociale è prima di tutto una grande questione democratica e civile.

Noi pensiamo che tutto ciò evidenzi limiti seri e gravi di cultura riformista, di riformismo, e di valori ideali nell’azione pratica e politica.

Una idea che concepisce il riformismo come una pur giusta e pragmatica azione politica e amministrativa, mentre il riformismo è prima di tutto senso e valore del cambiamento necessario.

E’ da questa idea povera e sbagliata di riformismo che deriva l’incapacità di riconoscere senso e valore forte nelle cose che si fanno. Per questa ragione la comunicazione è difficile, i consensi mancano, e vincono i martellanti spots del centro destra.

Ma è anche da questa idea sbagliata di riformismo che spesso derivano subalternità culturali e politiche al pensiero e alle politiche neo-liberiste,  mutuandone talora idee e modelli non condivisibili, precludendoci la possibilità di costruire un nuovo grande modello di Welfare State, e di dare senso e valore alle parole nuove quali mondializzazione, modernizzazione, o a parole tanto vecchie quanto attualissime come libertà, giustizia, uguaglianza, coesione sociale.

Ma è anche da questa debolezza che trova alimento e giustificazione il nostro conservatorismo.

Le conseguenze di questo fondamentale deficit di riformismo sono evidenti nella alleanza e nell’azione di governo, o nella incapacità di metterne in valore i risultati, a partire dai D.S. che sono il maggiore partito della alleanza.

PARLIAMO ALLORA DEL RIFORMISMO.

Poiché in queste settimane molti tra i D.S. hanno sottolineato i nostri limiti di riformismo riteniamo necessario e urgente parlarne per una precisa ragione politica attuale.

Questa ragione consiste nel fatto che se si vuole vincere alle prossime elezioni politiche, l’ispirazione riformistica deve diventare esplicita e visibile nell’azione del governo e nella iniziativa del centro sinistra e dei D.S. nei prossimi mesi.

Sappiamo che la debolezza del riformismo, della sua concezione affonda le sue radici nella storia politica del nostro paese, soprattutto nella sinistra italiana e che le rotture, le divisioni e le contrapposizioni, gli errori e i fallimenti da quella debolezza traggono origine.

Crediamo di sapere che da questa debolezza storica e culturale inoltre derivano le difficoltà a costruire un moderno riformismo; che le difficoltà diventano enormi di fronte ai cambiamenti radicali del nostro tempo, perché i cambiamenti sono rapidissimi e investono tutti gli aspetti della vita, in ogni angolo della terra. La rapidità, la vastità, la profondità dei cambiamenti richiedono risposte che la politica fatica a dare in tempo utile, soprattutto per una sinistra riformista che intende suscitare, assecondare, governare il cambiamento secondo principi e valori e combattere orientamenti e tendenze che contrastano con quei principi e quei valori.

Ma molti cambiamenti sono già intervenuti da oltre un decennio, siamo in grado di vederne i processi che alimentano, le conseguenze che ne derivano e ne possono derivare. E la sinistra riformista ha gli strumenti per capire, per impostare i suoi progetti e i suoi programmi se pone alla base della sua ragione d’essere e della sua azione i valori di libertà ed uguaglianza oggi non più contrapposti come lo sono stati per decenni nel Novecento.

Sono i valori di libertà e di uguaglianza che definiscono l’identità della sinistra riformista, che spiegano la diversità e la contrapposizione alla destra, i valori che danno significato e senso al riformismo, ai programmi, ai progetti, alla sua azione politica. Ma non basta affermarli come orpelli retorici, bisogna usarli in modo esplicito e dichiarato come strumenti di analisi della realtà, delle dinamiche dei processi culturali, economici, sociali e politici in atto in Italia e nel mondo, e come criteri e parametri altrettanto espliciti e dichiarati per elaborare programmi e progetti e agire politicamente. In primo luogo per sapere usare e indirizzare le enormi potenzialità e ricchezze del mondo moderno, per rendere liberi e uguali coloro che in Italia e nel mondo tali non sono, perché non hanno sapere e lavoro, non hanno occasioni e opportunità.

Il riformismo è debole, perché debole e incostante è il suo collegarsi ai valori. Ma ciò indebolisce la politica, la rende estranea, lontana, autoreferenziale. Da questa idea della politica, da questa sua crescente lontananza e autoreferenzialità, traggono origine il disinteresse se non l’ostilità da parte dei cittadini e l’astensionismo crescente degli elettori.

Ma il nostro riformismo è debole anche perché proprio su due questioni essenziali per una forza di sinistra, il lavoro e il Welfare-State, non ci si è misurati fino in fondo con i cambiamenti  radicali  che la mondializzazione  e la rivoluzione tecnologica hanno prodotto e con i cambiamenti profondi che hanno investito gli individui nel loro rapporto con la società, le istituzioni sociali, i ceti, le classi di appartenenza, nelle loro condizioni materiali e nelle loro aspettative.

Negli ultimi due decenni si è rotto il rapporto virtuoso che per quasi un secolo aveva segnato la crescita economica, l’aumento dell’occupazione, lo sviluppo della protezione sociale. La crescita enorme trascinata dallo rivoluzione tecnologica e dalla finanziarizzazione della economia e della società, avviene riducendo il lavoro necessario, creando nuove professionalità a rapida obsolescenza, e aumentando la precarietà. Reggono positivamente le società e i paesi che non solo utilizzano ma in primo luogo producono innovazioni tecnologiche. Ma reggono anche creando una gigantesca  redistribuzione di ricchezza dai ceti  medio-bassi a quelli alti, con una maggiore e più estesa precarietà, e senza estendere i sistemi di protezione sociale. I processi di finanziarizzazione si sottraggono ad ogni  regolazione degli Stati, la politica si impoverisce e la democrazia è sempre meno sovrana, e i paesi poveri sono sempre più lontani da quelli ricchi.

La risposta del riformismo non può essere quella che deriva dalla accettazione dei ritardi in Europa e in Italia della capacità di produrre ricerca scientifica e tecnologica, che rinuncia a competere sui punti alti della innovazione tecnologica di processo e di prodotto, che abbassa il livello e la qualità della protezione sociale, dislocando la specializzazione produttiva del nostro paese e la sua difesa solo nei campi in cui è esposta alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo i cui costi sono 10-20-50 volte inferiori a quelli nazionali ed europei. Questo è ciò che vogliono anche se non lo dichiarano, la Destra italiana, le punte più conservatrici della Confindustria e delle altre associazioni imprenditoriali, la Banca d’Italia, il Fondo Monetario Internazionale, che in coerenza puntano ad accrescere la precarietà del lavoro e a ridimensionare i sistemi di protezione sociale. Erano questi i disegni e le ragioni sottesi alla contrarietà alla moneta unica della destra italiana e dei cosiddetti euroscettici. Il riformismo deve saper dare coraggiosamente un’altra risposta, puntare sulla qualità della crescita, sulla redistribuzione del tempo di lavoro, investendo risorse sul capitale umano, nella ricerca scientifica e tecnologica e riformando in tal senso i sistemi di protezione sociale.

Ma il punto sul quale intendiamo qui sottolineare i limiti del riformismo riguarda proprio il nostro sistema di protezione sociale.

C’è un limite culturale antico che a fasi alterne segna l’idea che i sistemi di protezione sociale sono necessari, ma che comunque la loro esistenza limiterebbe la crescita e lo sviluppo economico. Qualche volta questa idea lambisce anche parti della sinistra, ma essa è semplicemente contraria alla verità storica. Infatti, era vero allora come è vero oggi che i sistemi di protezione sociale sono fattori fondamentali dello sviluppo e del progresso così come sono strutture e fattori fondamentali della democrazia. Anzi proprio per questo lo stato sociale ha costituito nel 20° secolo un fattore di identità, di forza, di visione della società della democrazia, il merito storico fondamentale dei diversi riformismi e del socialismo. Esso può e deve costituire per il presente e per il futuro un cardine della evoluzione delle società democratiche moderne e uno dei fattori fondamentali di identità della sinistra, per un modello di società coeso e solidale, di persone libere e uguali.

La condizione perché ciò avvenga deriva dalla capacità che il riformismo sappia adeguare e riformare costantemente i sistemi di protezione sociale in relazione ai mutamenti della struttura economica e sociale, delle attese, dei bisogni, delle aspettative dei cittadini.

E’ questo che sostanzialmente è mancato finora ed è per questo che il nostro riformismo evidenzia i maggiori limiti di analisi e di progetti di riforma, e subisce quindi gli attacchi della destra quasi esclusivamente incentrati sui costi del sistema al fine di conquistare alla logica del profitto privato quote crescenti e consistenti del sistema stesso, dalla sanità alla previdenza, alla assistenza sociale, ponendoci in una condizione di difesa da cui emergono quasi esclusivamente i fattori di conservazione piuttosto che quelli del cambiamento e della riforma.

In pochi anni tutto è cambiato nelle società moderne, il lavoro, i bisogni, le attese. Si vive più a lungo, ma crescono insicurezze e solitudini, tanta parte delle nuove generazioni sembrano prive di speranza e di ottimismo, ed emergono con grande peso anche problemi di natura etica indotti dalla ingegneria genetica, che investono anche la morale laica e non solo quella religiosa.

Il deficit del riformismo sono palesi dal momento in cui sono in primo luogo, e talora esclusivamente, affrontati i problemi dei costi e della sostenibilità finanziaria dello stato sociale piuttosto che porre al primo posto la sua qualità e l’efficacia dei suoi risultati.

Da un tale approccio – che è il contrario di ciò che sarebbe giusto e necessario – discendono diverse e gravi conseguenze negative fondamentali. Si affrontano separatamente le parti e  si perde di vista il sistema nel suo complesso. L’attenzione e la discussione si concentrano quasi esclusivamente sui costi del sistema previdenziale. Si trascurano gli altri segmenti del sistema fino a consentire che si diffonda e si affermi un giudizio negativo di massa sul sistema sanitario che, malgrado forti squilibri teritoriali e sacche di inefficienza, è tra i migliori del mondo E si finisce per non mettere in valore risultati anche parziali ma importanti e di principio  nel campo dei diritti come ad esempio la legge sui congedi parentali o sulla riforma della assistenza, assolutamente sconosciuta alla grande maggioranza dei cittadini italiani.

Tutto ciò finisce per impedire di cogliere con lucidità i caratteri strutturali negativi che il sistema ha via via nel tempo consolidato: il suo centralismo, il pesante burocratismo della sua gestione, e il carattere prevalentemente redistributivo di reddito spendibile del sistema.

Sembra a noi che il nodo della riforma sia costituito prima di tutto dalla necessità di un riequilibrio da realizzare nel sistema e dei suoi costi puntando all’accrescimento e all’arricchimento dei servizi reali alle persone e alle famiglie, la cui realizzazione oltretutto porterebbe a demolire tanta parte del centralismo burocratico dell’attuale sistema, a migliorare l’efficacia della prestazione e quindi anche l’efficienza.

L’insicurezza, l’isolamento, la solitudine  sono oggi più che mai malattie sociali che non si curano con l’aumento di prestazioni monetarie né aumentando, come avviene, le prescrizioni farmaceutiche o i ricoveri ospedalieri.

Ma per poter riavviare con forza e determinazione la riforma del Welfare-State la sinistra riformista deve impadronirsi di un fattore moderno delle dinamiche culturali, civili e sociali, che non è ricavabile dalla sua cultura politica, dalle sue tradizioni, dalle sue forme organizzative. Tale fattore è costituito dal progressivo e profondo cambiamento che è intervenuto nelle società moderne nel rapporto tra l’individuo, da un lato, e la famiglia, il ceto, la categoria, la classe, la comunità di appartenenza.

Ciò è in parte noto ma è sbagliato connotare solo negativamente questo fenomeno secondo la categoria dell’individualismo egoistico, che pure esiste e che la destra alimenta propagandisticamente.

L’acquisizione di un tale fattore è indispensabile per ridefinire un moderno riformismo fondato in primo luogo sulle singole persone,  sulle loro diversità soggettive, nelle condizioni materiali, nei bisogni, nelle aspettative, per costruire così un sistema di protezione sociale universale, per tutti, ma capace di offrire libertà di scelte, personalizzazione delle prestazioni, e perciò efficace ed efficiente, anche per ciò che riguarda il sistema previdenziale e non solo la sanità e l’assistenza sociale.

Sappiamo che alla base di un nuovo sistema di protezione sociale si pone la possibilità e la capacità di avere un lavoro, dipendente o meno, la cui assenza è uno dei fondamentali fattori di disuguaglianza e di minore libertà. I lavoro come fattore di realizzazione di sé, come valore.

Sappiamo che la società dei saperi può costituire lo spartiacque fra una nuova e più ampia uguaglianza o un ritorno a diseguaglianze ed esclusioni più gravi di quelle antiche. L’affermazione piena del diritto allo studio, diritto di cui sono titolari le persone e non le istituzioni scolastiche, è ormai diventata il nucleo centrale di un moderno riformismo. Ma la consapevolezza di ciò è talmente debole da consentire che il problema del sapere e delle conoscenze si confonda con quello della parità scolastica ma soprattutto si riduca al problema degli insegnanti, così come il problema della salute si riduce alla discussione e ai conflitti sul ruolo dei medici, e il problema gravissimo della giustizia si trasforma nello scontro sui poteri dei magistrati e degli avvocati.    E’ qui che la sinistra deve misurare le proprie ragioni, la sua capacità di progetto e  di programma.

IL PARTITO

Al congresso di Torino il partito dei D.S. ha fatto molto in questa direzione. Sui valori fondamentali e sull’assunzione del riformismo e dei riformismi come fattori costitutivi della ragione d’essere e di agire del partito, con il progetto, il varo del programma fondamentale e il nuovo statuto, con la  scelta di essere e di rappresentare il partito del socialismo europeo in Italia, come membro a tutti gli effetti del partito socialista europeo e della Internazionale socialista.

Poco o nulla è stato fatto finora in attuazione di quelle scelte. Sul riformismo e sulla messa in valore delle tradizioni e culture riformiste presenti nel partito si è proceduto in senso opposto, sia  a livello locale e regionale come al  centro. Ciò non tanto in quanto  risultante di una linea, quanto piuttosto come effetto di singole scelte che considerate nel loro insieme evidenziano un ritorno all’indietro, una regressione dal partito dei D.S. al P.D.S., e alle sue dialettiche interne, senza che sia stata prodotta una esplicita e visibile opposizione a questa tendenza.

Tutto ciò ha reso ancora più seri i già rilevanti limiti di analisi del dibattito congressuale sulla realtà e le dinamiche delle società moderne e sulla consistenza, qualità e valore di un moderno riformismo da mettere in campo.

Noi riteniamo che il mancato avvio delle attuazioni degli orientamenti e delle decisioni del Congresso sia dipeso certamente anche dagli impegni e dalle scadenze politiche di questi mesi, ma soprattutto dal fatto che le positive acquisizioni del Congresso si scontrano con una realtà del partito, della sua cultura politica diffusa  e prevalente, delle sue forme che contraddicono quelle acquisizioni e vi si oppongono.

Nelle recenti riflessioni e analisi sui risultati elettorali interne al partito sono state numerose le osservazioni che hanno attribuito alla scarsità e debolezza del nostro riformismo le cause delle difficoltà e delle sconfitte. Ciò è sicuramente positivo, ma stupisce il fatto che tali limiti di cultura e iniziativa riformistica non siano fatti derivare anche o soprattutto dalla struttura del partito che resiste ad ogni cambiamento. Così com’è essa impedisce di intercettare e comprendere le dinamiche della società moderna e i suoi rapidissimi mutamenti, non alimenta ma riduce la partecipazione e la pratica democratica del partito, dei suoi militanti e degli iscritti, ed esclude gli apporti di esperienze e competenze interne ed esterne  al partito che sono o possono  essere disponibili in ogni realtà per quanto lontana e periferica .  Il riformismo, la sua qualità e la sua consistenza non cadono dall’alto, ma sono il portato di una partecipazione democratica reale, di strutture aperte  dotate di autonomia effettiva  di elaborazione di proposta che integrino  e alimentino le scelte e le decisioni che competono alle strutture del partito.

Del partito, “federale” e ” federalista” deciso a Torino,   della rete di strumenti e strutture nuove  che insieme alle strutture tradizionali devono costituire il partito nuovo non c’è traccia  significativa nel paese.

La prima questione da affrontare oggi è il partito e la sua riforma.

A fronte dei processi in atto da almeno un decennio nella economia, nella società e nelle istituzioni, che vedono la cessione di poteri degli Stati nazionali alle istituzioni sovranazionali e alle istituzione e alle comunità locali, (l’Europa politica da un lato e l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle provincie e delle regioni dall’altro) la struttura del partito nella sostanza rimane inalterata e perciò stesso gli impedisce di dotarsi di una propria linea forte in materia di federalismo, alternativa al regionalismo del centro destra. Se il federalismo si fonda sul principio di sussidiarietà, i primi titolari della sua realizzazione non possono essere i presidenti delle regioni, ma i sindaci, gli amministratori dei comuni, delle città, delle provincie. Perché allora i D.S. o meglio ancora il centro sinistra, non riuniscono regione per regione le decine, talora le centinaia di sindaci e presidenti provinciali, oggi, prima delle vacanze e in quella sede discutono sul serio di federalismo e della prossima finanziaria e, perché no, anche di una forma, di una struttura permanente degli amministratori locali nel partito dei D.S. o della alleanza di centro sinistra? Questa per noi è una proposta formale che avanziamo ai responsabili del partito e dei partiti del centro sinistra.

La riforma implica la modifica dei poteri tra centro e periferia e dentro la periferia, nel partito e tra il partito e le istituzioni a partire  dalle prerogative e dai poteri degli eletti a cariche pubbliche. Col pretesto  delle difficoltà, delle scadenze politiche immediate o prossime è fortissimo il rischio di rinunciare a usare  anche la leva della riforma del partito per affrontare le difficoltà. Il danno sarebbe  enorme, perché significherebbe che  ancora una volta  di fronte alle difficoltà politiche l’area delle scelte e decisioni si restringe ai vertici del partito o della coalizione proprio nel momento in cui per i D.S. e per il centro sinistra, per ricostruire e dare forza alla alleanza e vincere le elezioni si tratta di fare il contrario. Noi riteniamo infatti che sarà possibile vincere solo se i militanti attivi dei D.S. e di tutti i partiti del centro sinistra saranno da subito associati nelle scelte  e delle decisioni da prendere, in primo luogo quelle relative alla azione del governo, delle prossime settimane e dei prossimi mesi. Per la riforma del partito dei D.S. o per la ricostruzione della alleanza non si tratta di inventarsi geometrie o modelli organizzativi, ancora meno di inventarsi oggi un leader per le prossime elezioni, o di  proporsi di “dare la linea” alla base. Al contrario, prima di tutto si tratta di  aprirsi democraticamente, di includere e di associare il partito  e il centro- sinistra ad ogni livello nelle elaborazioni delle scelte nazionali, sul merito dei problemi programmatici da affrontare. A tal fine proponiamo che il partito o meglio ancora se possibile il centro sinistra prima delle vacanze estive promuovano in ogni provincia riunioni aperte e pubbliche sugli indirizzi di politica economica e di bilancio del DPEF opportunamente preparate e programmate insieme dai dirigenti locali e nazionali.

IL PROGRAMMA FONDAMENTALE

Per ultimo vogliamo sottolineare e rilanciare la necessità che il partito pervenga alla definizione del progetto di programma fondamentale varato a Torino dal Congresso. Non intendiamo in questa sede affrontare questioni di merito. Vogliamo invece porre in evidenza un aspetto preliminare, di metodo, decisivo della buona riuscita dell’impresa. Il programma fondamentale è un fattore centrale della costruzione della identità del partito. Ma l’identità di un partito non può essere costruita da un gruppo ristretto di persone, ancor meno da leaderships anche autorevolissime. L’identità si costruisce su un progetto alla cui definizione nei contenuti e nel linguaggio, con un lavoro lungo e costante, siano resi partecipi e protagonisti migliaia di persone, tutte le molteplici esperienze, e competenze,  tutti i saperi disponibili.

La definizione di un nuovo forte riformismo passa da qui, dalla partecipazione organizzata di migliaia di persone. In fondo non c’è nulla da inventare. E’ sufficiente copiare ciò che hanno fatto per qualche anno i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi o i socialisti svedesi o diversi anni fa i socialisti francesi con Mitterand, prima di vincere.

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