di Carlo Clericetti da “Eguaglianza & Libertà on-line”. Davvero, come dice Matteo Renzi, con un programma di sinistra inevitabilmente si perde? Non solo non è vero, ma anche l’esito delle elezioni inglesi dev’essere esaminato con un po’ più di attenzione. Se comunque per vincere si dovesse proporre una politica di destra, cosa c’entra più la sinistra? “Dalla Liguria a tutta Europa c’e’ un solo Pd, ma ci sono due sinistre, una a cui piace cambiare e una a cui piace perdere”. Così Matteo Renzi a Genova in un intervento per appoggiare la candidatura della fedelissina Lella Paita alla presidenza della Regione. Concetti poi ripetuti in una video-intervista a “Repubblica.it”, dove “quella” sinistra diventa “masochista”. E non manca una rivendicazione sul Jobs act: ” Abolire l’articolo 18 è di sinistra. Assolutamente sì, perché si danno tutele a chi ne era privo. E’ una rivoluzione assolutamente di sinistra, per me. Quello che stiamo facendo sul mercato del lavoro in Italia lo hanno già fatto Schroeder in Germania e Clinton negli Usa. E’ di sinistra riformista”.
E’ appena il caso di rilevare il salto logico in base al quale togliere una tutela ad alcuni comporta “darne a chi ne era privo”. A parte il fatto che c’è molto da discutere sulla qualità di queste tutele gentilmente concesse, non si vede perché non si potesse darle senza togliere quella precedente. Che poi Schroeder e Clinton abbiano fatto “cose di sinistra” è un’altra affermazione assai discutibile. E comunque in Germania l’equivalente dell’articolo 18 c’è ancora, quindi l’affermazione è inesatta anche da questo punto di vista.
Con la battuta sulla sinistra “a cui piace perdere” Renzi allude evidentemente alle recenti elezioni nel Regno Unito, dove Ed Miliband aveva riportato il Labour su posizioni più vicine a quello che ha ancora senso chiamare “sinistra”. Di certo non intendeva parlare della Francia, dove Hollande aveva vinto con un programma appunto di sinistra, che poi si è affrettato a tradire ottenendo di diventare il presidente con il più basso gradimento mai registrato nella Quinta repubblica e preparando il disastro delle recenti amministrative. Né poteva parlare di Syriza, che è certamente di sinistra e altrettanto certamente ha vinto nel suo paese.
Vediamo dunque i risultati delle elezioni inglesi con un po’ più di attenzione di quanto gliene abbiano dedicata la stragrande maggioranza dei media, che hanno unanimemente decretato che sono stati “un trionfo per Cameron”. Ebbene, non c’è dubbio che in termini di seggi conquistati i Tory abbiano vinto nettamente. Ma se si esaminano le percentuali ottenute dai partiti (come ha fatto per esempio Francesco Erspamer, che insegna ad Harvard) emerge una realtà assai meno trionfale. Il “trionfo” è stato ottenuto con un aumento dello 0,8% rispetto alle elezioni del 2010, a fronte della debacle degli alleati di governo lib-dem crollati dal 23 al 7,9% (la differenza è di 15,2 punti, ossia un calo del 66%!). Il Labour, invece, ha perso 25 seggi, ma come voti è aumentato dell’1,5% (cioè quasi il doppio del partito di Cameron).
Come mai? Sono le delizie del sistema elettorale inglese, dove conta assai poco quanti voti prendi a livello nazionale: conta arrivare primo in ciascun collegio. Il che produce risultati paradossali, come quello dell’Ukip, che con il 12,6% ha ottenuto un solo seggio, pur avendo avuto quasi 4 milioni di voti, uno e mezzo in più dei lib-dem che di seggi ne hanno conservati 8. Ma ancora più stupefacenti sono gli altri risultati: quello dello Snp (gli scozzesi) che con meno di un milione e mezzo di voti e il 4,7% hanno conquistato 56 seggi; e dei partitini come il Democratic Unionist a cui bastano 184.000 voti per avere 8 seggi mentre il Sinn Fein, con 8.000 voti in meno, ne prende la metà.
Più che di sistema elettorale potremmo parlare di roulette elettorale. Se guardiamo alle scelte complessive degli elettori Cameron non ha trionfato (anzi, lo schieramento del suo governo ha avuto un pesante calo, passando da poco meno del 60 a poco più del 45 %) e Miliband ha aumentato i consensi, senza contare il boom del partito scozzese che è pure più a sinistra dei laburisti. La roulette ha regalato al partito del premier una vittoria che con un sistema elettorale diverso non avrebbe avuto: per tornare al governo avrebbe dovuto cercare di formare di nuovo una coalizione, e non sarebbe stato facile.
Ma tutto questo, in fondo, conta abbastanza poco rispetto al problema essenziale. Che è: questa “sinistra che vince” è ancora sinistra oppure no? E’ singolare il destino di questa definizione: tutti quelli che la dichiarano ormai un concetto superato, senza più significato, prima o poi se ne impadroniscono proclamando che la “vera sinistra” sono loro. Il massimo del paradosso è stato forse toccato qualche anno fa, quando due noti economisti neoliberisti, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, scrissero un libro intitolandolo “Il liberismo è di sinistra”. E oggi Renzi, che sulla battaglia contro “le idee del secolo scorso” ha costruito tutta la sua carriera, ci tiene tanto a definirsi di sinistra e a definire come tali provvedimenti che la destra aveva sempre tentato di far passare. E allora, se per vincere bisogna sposare le idee della destra e attuarne la politica, avrà vinto un certo partito o un certo schieramento, ma con la sinistra che cosa c’entra?
La storia dice che non è vero che una proposta di sinistra vera è sempre perdente. A Renzi nessuno può impedire di usare quell’etichetta, che pure sembrava volesse liquidare. Ma chi invece pensa che sinistra e neoliberismo non possano andare insieme, non può che sperare che alle prossime elezioni ci sia da votare qualcosa di diverso dal Pd renziano.