La stagione del keynesismo

di GIORGIO RUFFOLO

Secondo l´economista britannico era compito dello Stato intervenire per colmare il vuoto della domanda attraverso politiche macroeconomiche, monetarie e fiscali 

«Ci vorrebbe il Signore. Ma dovrebbe venire di persona, non mandare il Figlio, non è il momento dei bambini». Di fronte al disastro della finanza, oggi, Keynes ripeterebbe forse la sua dissacrante invocazione. In questi giorni il suo nome è evocato sempre più spesso, talvolta implorato («Keynes, reviens, ils sont devenus fous», scrive un economista francese). Come mai? Per almeno trent´anni dopo la sua morte, che avvenne nel 1946, la teoria economica fu dominata dal suo pensiero. Come tutti sanno, ancora nel 1972 il Presidente Nixon affermava: siamo tutti keynesiani. Ma non sono molti a sapere che quella stessa frase era stata pronunciata sei anni prima da Milton Friedman, il grande ispiratore della scuola di Chicago e del liberismo monetarista, bestia nera del keynesismo.

 

L´egemonia keynesiana durò fino agli anni Settanta. In quel decennio turbolento quel che era stato quasi un vangelo diventò quasi un anatema dopo che l´economia fu investita dal “combinato disposto” dell´inflazione e della deflazione (la stagflazione) che fu messo a carico della ricetta keynesiana (con qualche ragione, devo dire: non per colpa di Keynes, ma dei suoi più infatuati seguaci).

Al pensiero keynesiano fu opposto quello monetarista. Le due teorie erano simmetriche. Secondo Keynes l´economia buona, della piena occupazione, dipende dal livello della domanda. Per una serie di ragioni questa, lasciata a sé stessa, poteva restare per lunghi periodi al di sotto del livello necessario a realizzare la piena occupazione. Secondo i monetaristi, la piena occupazione dipendeva dalle condizioni dell´offerta. Se i prezzi dei fattori di produzione, soprattutto il costo del lavoro, fossero stati liberi di fluttuare al vento del mercato, senza interferenze sindacali o governative, l´economia avrebbe raggiunto la piena occupazione spontaneamente. Secondo Keynes era compito dello Stato intervenire per colmare il vuoto della domanda attraverso politiche macroeconomiche, monetarie e fiscali. Secondo i monetaristi lo Stato doveva astenersi rigorosamente da ogni intervento che si sarebbe tradotto necessariamente in inflazione senza aumentare se non per tempi brevissimi l´occupazione. Lo Stato, dunque, avrebbe dovuto limitarsi a fornire una quantità di moneta compatibile con il tasso di inflazione desiderato: di qui il termine monetarismo, un po´ paradossale dal momento che i monetaristi sostenevano che la moneta non può cambiare i rapporti reali tra domanda e offerta: è soltanto un velo disteso sull´economia.

Keynes era partito anch´egli dalla stessa base teorica, la teoria quantitativa della moneta, secondo cui il valore di ciò che viene speso è pari al valore di ciò che viene acquistato, un´affermazione che sembra lapalissiana e rassicurante. Ma poi aveva inserito nella teoria un elemento perturbante: le aspettative. Un elemento psicologico che alterava quell´equilibrio. L´uomo, infatti, non è un automa che reagisce meccanicamente agli stimoli. È un essere pensante che può turbare le equazioni degli economisti. Dalle sue aspettative “arbitrarie” (esempio il desiderio di avere a disposizione immediata la moneta anziché investirla: preferenza della liquidità) possono nascere situazioni squilibrate. Tocca allora allo Stato di riequilibrarle, gestendo attraverso il tasso d´interesse la moneta, che quindi diventa non un velo, ma uno strumento di politica economica.

L´importanza delle aspettative psicologiche è il più grande contributo teorico di Keynes all´economia. Essa è evidente soprattutto nei mercati finanziari, con la formazione delle bolle speculative. La speculazione, che svolge entro certi limiti un ruolo positivo nelle scelte degli investimenti e nella copertura dei rischi, può uscire facilmente di controllo attivando processi cumulativi. Fu proprio Keynes a illustrare con una parabola brillante, come sapeva fare lui, il meccanismo riflessivo di questi processi. Se si vuole prevedere l´esito di un concorso di bellezza, non bisogna chiedersi qual è la ragazza più bella, ma quella che la giuria giudicherà la più bella. Insomma, l´economia è fatta di incertezza e di scommesse. Quando però si comincia a scommettere su tutto, «quando – diceva Keynes – lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene».

Keynes fu un grande economista, forse il più grande del nostro tempo, anche perché sapeva collocare l´economia nel più vasto contesto dei valori che per lui contavano nella vita: la bellezza, l´amore, la conoscenza. Era un eccentrico, presuntuoso e irriverente: il vostro barone, disse il suo antagonista americano White rivolgendosi agli inglesi, «piscia profumo». Ma era anche, come disse Meade, un uomo generoso e profondamente buono. Il più alto elogio di lui lo fece, alla sua morte, il suo grande antagonista von Hayek: dopo di lui, disse, il mondo sarà meno meritevole di essere vissuto.

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