Lettieri: “La discutibile eredità di Mario Draghi”

Ha salvato l’euro, ma sempre sostenendo come contropartita il deleterio binomio austerità- riforme strutturali, che hanno fatto dell’Europa la zona a più bassa crescita e più alta disoccupazione del mondo sviluppato. Solo se questa politica cambierà sarà possibile risollevare l’economia

L’atteso discorso di Mario Draghi del 12 settembre non ha comportato particolari sorprese, ma può essere di stimolo al cambiamento di alcuni aspetti della poltica economica dell’eurozona. Nelle ultime settimane era stato previsto che avrebbe annunciato una ripresa del Quantitative easing (l’acquisto di titoli pubblici e, in parte delle imprese, da parte della Banca centrale). Secondo le previsioni si sarebbe potuto trattare di una cifra fra trenta e quaranta miliardi mensili. La disponibilità sarà invece solo di venti miliardi, ma in compenso la misura non ha limiti temporali predefiniti, essendo destinata a durare fin quando l’inflazione media si sarà avvicinata alla soglia del 2 per cento.


Una prospettiva che si allontana nel tempo a causa della bassa crescita desinata a prolungarsi nell’eurozona. Non a caso, le previsioni di crescita sono state ulteriormente ridotte all’1,1 nel 2019 e all’1,2  per cento nel 2020. In questa poco brillante prospettiva le banche sono spinte ad a accrescere i prestiti alle imprese per evitare che la liquidità collocata presso la Bce paghi, salvo le eccezioni espressamente previste, un tasso accresciuto dallo 0,4 allo 0,5 per cento. In sostanza, è l’ennesimo appello alle imprese a riprendere gli investimenti profittando di danaro distribuito con i più bassi livelli di interesse storicamente conosciuti.
Che questo si verifichi rimane estremamente dubbio, trattandosi di una misura che in termini più ampi (60 miliardi al mese) era già in funzione  nel corso del 2018. Il mandato di Draghi si conclude allo scadere di otto anni in una prospettiva densa di incertezze. Evidentemente il tarlo che lacera il tessuto dell’eurozona ha radici più profonde di quelle puramente monetarie. Ma rimane il fatto che Draghi ha esercitato un ruolo per molti aspetti determinate nel corso del suo mandato coincidente con l’evoluzione della crisi dell’eurozona. Su questo ci soffermeremo, sia pure sommariamente, in attesa di analisi e valutazioni più compiute sul ruolo svolto da Draghi nel corso degli otto anni di presidenza della Banca centrale europea.
1.  Indubbiamente, quando nel 2011 Mario Draghi fu candidato alla presidenza della BCE s’imbatté in un campo minato. A novembre del 2011 quando s’insediò a Francoforte l’eurozona era entrata in una crisi profonda quanto imprevista. L’anno era iniziato mentre l’eurozona sembrava essere uscita  senza gravi danni dalla crisi globale che aveva inizialmente colpito fra il 2008 e il 2009 gli Stati Uniti.
Daghi era nel 2011 al governo della Banca d’Italia e la sua rituale relazione annuale di fine maggio era stata prudente quanto alle prospettive, ma non pessimistica. In definitiva, l’Italia aveva subito una caduta del reddito all’inizio della crisi ma in una misura perfino inferiore a quella della Germania.
Poi tutto era cambiato nel giro di qualche settimana. A fine giugno, la Commissione europea discusse la situazione italiana e Jean-Claude Trichet, presidente della BCE, firmò la lettera riservata inviata ai primi di agosto al governo Berlusconi: lettera con la quale si chiedeva di varare immediatamente un complesso di misure economiche e sociali che per la loro portata avrebbero cambiato la fisionomia di qualsiasi paese, così come in effetti cambiarono la scena italiana. Come forse si ricorderà, la lettera che fu svelata un mese dopo, a settembre, dal Corriere della Sera: imponeva un complesso di misure di carattere economico la cui radicalità era perfino imbarazzate per i circoli tradizionalmente neoconservatori. Il governo italiano doveva nel giro di poche settimane compiere una svolta nella poltica economica e sociale che lo stesso Corriere della sera qualificò come “una manovra di finanza pubblica di entità mai vista nella storia della Repubblica italiana”. Dopo le dimissioni del governo  Berlusconi, messo in crisi dall’attacco dei mercati finanziari, Giorgio Napolitano affidò il completamento del programma di Bruxelles al governo tecnico presieduto da Mario Monti, già stimato membro della Commissione europea.
L’Italia non fu tuttavia il solo paese destinato a subite il trattamento economicamente e socialmente devastante riservatogli dal binomio BCE,  guidata da Trichet, e dalla Commissione europea sotto la presidenza di Barroso. Angela  Merkel e Nicolas Sarkozy avevano già decretato in una drammatica riunione a Cannes  la fine del governo di George Papandreou in Grecia e costretto Zapatero in Spagna a anticipare le elezioni favorendo, sotto l’urto della crisi, la vittoria di Mariano Rajoy, il candidato del Partito conservatore sostenuto dalla Germania. Si chiudeva così il 2011, l’anno che cambiò la fisionomia politica della vecchia Unione europea.
2.  Sappiamo che la crisi finanziaria aveva preso le mosse in America nel 2007-08 ed era apparsa talmente profonda da essere paragonata a quella del 1929. In Europa invece, dopo i primi sussulti, la crisi era apparsa controllabile. Trichet aveva perfino aumentato i tassi di interesse nel’estate del 2011 – la sua ultima manifestazione di insipienza. Il contrario della linea adottata negli USA da Bernanke alla testa della FED in accordo con Paulson, ministro del Tesoro, nell’autunno del 2008, segnato dalla crisi della Lehman Brothers, una delle maggiori e più antiche banche americane. Poi  Barack Obama, appena giunto alla Casa Bianca, giudicando necessaria ma insufficiente la manovra finanziaria mirata al salvataggio del sistema bancario, promosse una manovra di bilancio che comportava una spesa pubblica aggiuntiva di 800 miliardi di dollari finalizzata al rilancio dell’economia schiacciata dal peso di 14 milioni di disoccupati. La terapia, benché consideratai insufficiente dagli economisti della sinistra democratica, aveva funzionato, e l’America aveva ripreso la crescita  a metà del 2009.
In Europa, tra l’estate e l’autunno del 2011, Banca centrale e Commisisone europea  fecero esattamente il contrario. La Commissione europea lanciò la strategia delle riforme strutturali. In  altri termini il ritiro dello Stato dall’economia, le privatizzazioni, l’abbattimento del welfare e, in primo luogo, la liberalizzazione del mercato del lavoro. Una poltica che per la sua radicalità avrebbe fatto arrossire di  invidia e di incredulità Margaret Thatcher. Il passaggio di Draghi alla direzione della BCE il 1° novembre del 2011 non poteva avvenire in condizioni più inquietanti.
Le decisioni adottate alla fine del 2011 avevano promosso una poltica di stampo reazionario ma non erano state in grado di rimettere in carreggiata l’euro. E’ in questo quadro che Draghi nell’estate del 2012 , intervenendo a Londra nella Global Investment Conference, compie la svolta più importante nella storia della BCE . Sorprendendo governi e mercati, fece la celebre dichiarazione: “Ho un messaggio chiaro da darvi: nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza”. La speculazione di fronte alla annunciata potenza di fuoco della Banca centrale non era destinata ad arrestarsi del tutto, ma aveva perduto gli artigli. In un certo senso poteva agire solo nella misura in cui gli era consentito.
Sappiamo che in seguito   la  difesa dell’euro non fu omogenea, e alcuni paesi dovettero adattarsi al temibile spread  – la differenza dei tassi pagati al livello nazionale rispetto al tasso tedesco. In ogni caso, Draghi aveva cambiato lo scenario, e nel dicembre del 2012 il Financial Times lo proclamò l’”Uomo dell’anno“, aggiungendo che era “la persona che aveva scongiurato la disintegrazione del’euro”.
3.   L’euro fu salvato, ma non altrettanto si può dire del destino dell’eurozona. Il confronto con l’America è, ancora una volta, istruttivo. Dieci anni dopo l’inizio della crisi, l’America può vantare il più lungo periodo di crescita della sua storia, mentre la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso degli ultimi cinquanta anni. Chi guarda all’eurozona, vede uno scenario rovesciato. L’eurozona presenta il più baso livello di crescita a livello globale, e il più alto livello di disoccupazione tra i paesi sviluppati.
Difficile non porsi l’interrogativo: come è potuto accadere? La risposta benché sottaciuta o messa in ombra è, in definitiva, del tutto trasparente. E’ nella politica economica imposta all’eurozona all’insegna del binomio: austerità e riforme strutturali. Non è questa la sede per un’analisi dettagliata. Ma sappiano di cosa si tratta. Per l’austerità bisognava (bisogna) abbattere il disavanzo di bilancio fino a zero o nei dintorni, riducendo la spesa pubblica: fondamentalmente, gli investimenti pubblici e la spesa sociale. Le riforme strutturali (privatizzazioni, riduzione della spesa per pensioni e sanità e, principalmente, liberalizzazione del mercato del lavoro) sono il sale dell’austerità. L’obiettivo, bisogna tenerlo a mente, era (ed è) nella retorica di Bruxelles e dei governi compiacenti, il rilancio della crescita e dell’occupazione. Difficile individuare una spiegazione più inconsistente e una terapia più rovinosa. La crisi non solo si è dimostrata la più lunga che si ricordi in Italia, ma ha investito l’intera eurozona, fino a colpire la stessa Germania, la maggiore economia europea e la quarta potenza industriale a livello globale, oggi ridotta a oscillare fra ristagno e recessione.
4.  Il bilancio di Draghi sarà oggetto di analisi e riflessione critica anche, e forse soprattutto, dopo l’insediamento di Christine Lagarde che a novembre gli succederà a Francoforte. Ma una prima valutazione è possibile attraverso la semplice osservazione dei fatti. Draghi ha salvato  l’euro – in effetti una valuta senza radici applicata a economie caratterizzate dalla loro disomogeneità. Basti considerare l’inattaccabile stabilità del marco a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e la potenza esportatrice dell’industria tedesca. Austerità e riforme strutturali erano finalizzate a fare dell’eurozona una sorta di Germania, imponendo un euro a somiglianza del marco, sostenuto da un avanzo nella bilancia dei pagamenti che compensava la costante bassa domanda interna dell’economia tedesca.
In questo contesto di squilibri, la BCE di Draghi ha il merito di aver salvaguardato l’euro, ma sempre sostenendo come contropartita il deleterio binomio austerità- riforme strutturali. Il discorso del 12 settembre ne è ancora una sia pur velata testimonianza. Dal momento che l’eurozona rimane l’area con il più basso di grado di crescita – ha sostenuto –  i paesi con i bilanci in equilibrio debbono scegliere la via degli investimenti per rilanciare la crescita. Un’affermazione importante, ma con un grave limite.  In questa condizione di bilanci in equilibrio con disavanzo zero, o in avanzo,  sono solo due paesi, la Germania e l’Olanda, favoriti dal più alto surplus commerciale in Europa. E gli altri 17 paesi dell’eurozona? L’obbiettivo rimane quello che ha dominato il passato decennio. “L’attuazione trasparente e coerente del quadro di governance economica e fiscale dell’Unione europea – ha afferma Draghi nel suo ultimo discorso  – rimane nel tempo e in tutti i paesi essenziale per rafforzare la capacità di adattamento (resilience) dell’economia dell’area dell’euro”.  E’ questo il contesto europeo nel quale dovrà operare il nuovo governo italiano di Giuseppe Conte. Il programma, nonostante le sue approssimazioni, si presenta orientato a sinistra. Ma gli ostacoli non mancano. E, per molti versi, benché evocati con molta discrezione, gli ostacoli sono ancora una vota a Bruxelles. In altri termini, nella poltica autolesionista che ha caratterizzato l’eurozona nel passato decennio. Riuscirà il governo Conte a uscire dalla gabbia dell’austerità? Di un disavanzo di bilancio misurato in termini di decimali, come è già successo nel corso dell’ultimo decennio, mentre cambiavano senza successo i governi?
Quando la spesa per i consumi è stata già contratta ai limiti della sopportabilità, il debito pregresso  può essere ridotto solo con l’aumento del reddito. E questo è possibile solo rilanciando la crescita mediante gli investimenti pubblici sia diretti sia intesi a stimolare quelli privati. In altri termini, la crescita sia in termini reali che monetari è la condizione per ridurre in prospettiva il debito come quota del reddito nazionale. La politica monetaria tendenzialmente espansiva che lascia in eredità Draghi acquista senso solo in questa prospettiva. Abbandonata a se stessa non può produrre di più di quanto ha prodotto in passato, quando le risorse offerte dalla BCE  erano il triplo.
Il governo italiano è fortunatamente cambiato. L’interrogativo è se si riuscirà a imprimere un cambio sostanziale alla poltica nazionale in un quadro di auspicabile cambiamento della poltica dell’eurozona.  L’analisi dell’esito fallimentare delle politiche condotte nell’ultimo decennio è una condizione per rafforzare il senso e l’urgenza di una svolta radicale.  I prossimi mesi ci diranno se uscire dalla gabbia è possibile quanto auspicabile.

Lunedì, 16. Settembre 2019 – da “Eguaglianza & Libertà”

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