Lettieri: “L’Eurozona venti anni dopo”

Antonio Lettieri, 6 gennaio 2020.
Appare incontestabile il giudizio sul fallimento di un’esperienza che venti anni fa fu inaugurata nel quadro di un grande ottimismo che all’epoca parve ragionevolmente motivato. Un ottimismo che la politica praticata nei venti anni che ora giungono a compimento ha clamorosamente smentito. Per uscire dalla crisi l’unica soluzione è un forte intervento pubblico diretto a rilanciare gli investimenti e ridare fiato alla crescita dalla quale in definitiva dipende a medio termine la progressiva riduzione del debito paradossalmente aumentato negli anni dell’austerità. Un nuovo corso è possibile mobilitando i risparmi che la crisi immobilizza per tradurli in investimenti.

1) -Venti anni fa, quando comparve la moneta unica, quella che sarebbe diventata l’eurozona si stava dirigendo verso la fine del secolo in un clima di grande ottimismo. Il processo che portò all’euro era maturato all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso sotto il forte impegno di François Mitterrand e di Jacques Delors, presidente della Commissione europea.
Aveva incontrato alcune incertezze soprattutto in Germania, ma l’euro era diventato l’obiettivo principale del cancelliere Kohl convinto assertore del partenariato franco-tedesco come condizione dell’unificazione tedesca. Per l’Italia in particolare la partecipazione all’euro era un successo apparso fino all’ultimo momento incerto. La nascita dell’euro fu accolta in un quadro di grande, non infondato, ottimismo. Non a caso, alla fine degli anni Novanta, dopo anni di stagnazione, i paesi dell’UE avevano finalmente segnato, anche sotto l’impulso del boom americano, un elevato tasso di crescita.


In questo contesto di ottimismo a marzo del 2000 si tenne a Lisbona una riunione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea con al centro il tema del raggiungimento della piena occupazione favorita dal nuovo quadro dell’economia europea e dall’impulso che avrebbe ricevuto con la nascita della moneta unica.
La conferenza era stata fortemente voluta dal governo francese presieduto da Lionel Jospin che legava strettamente l’unificazione monetaria europea con il sostegno a una stabile crescita economica accompagnata da una poltica sociale orientata a sinistra, e centrata sull’obiettivo del pieno impiego. Per il New Labour di Tony Blair, a quell’epoca trionfante leader del partito, il pieno impiego non doveva essere posto come un aspetto specifico della poltica economica, dovendo piuttosto essere il naturale sbocco di un’intelligente flessiblizzazione del mercato del lavoro.

Essendo stato nominato dal governo D’Alema consigliere per le politiche sociali, organizzai un incontro a Parigi fra il ministro del lavoro Bassolino e Martine Aubry, ministro del lavoro francese – figlia di Jacques Delors e famosa per aver promosso in Francia le 35 ore settimanali. L’obiettivo dell’incontro era la definizione di una bozza di risoluzione della conferenza di Lisbona con il consolidamento dell’obiettivo della piena occupazione come traguardo strategico della neonata eurozona. In effetti, l’occupazione era negli ultimi anni Novanta cresciuta mediamente a un ritmo intorno al tre per cento annuo e la conferenza di Lisbona avrebbe dovuto consolidare anche per il futuro dell’eurozona quella linea di crescita. La risoluzione finale di Lisbona, sia pure con minore nettezza, consacrò il traguardo della piena occupazione come obiettivo centrale della poltica economica europea. E, nei mesi successivi, gli uffici della Commissione europea misero a punto un documento che indicava, con scadenze diverse per i paesi dell’UE, il raggiungimento della piena occupazione entro il primo decennio del nuovo secolo.
2) – Purtroppo l’ottimismo che aveva accompagnato la nascita della moneta unica non ebbe lunga vita. Gerhard Schroeder, che era succeduto a Kohl in Germania, inaugurò una politica economica restrittiva per ridurre il debito pubblico accumulato nel decennio precedente a sostegno dell’unificazione tedesca
Sotto il suo impatto, la Germania entrò in recessione nel 2002-03 con un effetto trascinante sull’intera eurozona. In Italia e Francia la crescita rallentò. Il debutto dell’euro avvenne nel peggiore dei modi. La disoccupazione aumentò nell’intera zona euro e toccò il 10 per cento in Germania.
Nel 2002 Gerard Schroeder, per il secondo quadriennio cancelliere, decise di introdurre una radicale riforma del mercato del lavoro e dello Stato sociale. La responsabilità del progetto fu attribuita a Peter Hartz, che Schroeder aveva conosciuto quando era stato governatore della Bassa Sassonia al tempo della più grave crisi della storia della Volkswagen, di cui Hartz era direttore delle risorse umane.. Tra il 2002 e il 2003 la commissione diretta da Hartz attuò una serie di riforme che modificarono radicalmente le politiche del lavoro. Il programma a lunga scadenza fu sintetizzato nell’agenda 2000. Ma il programma nei suoi punti essenziali fu attuato nel giro di due anni promovendo il più radicale cambiamento della poltica sociale in Germania dalla fine della seconda guerra mondiale
Furono ridotte le indennità di disoccupazione e, soprattutto, fu ampliata la sfera del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato fino a comprendere il 18 percento della popolazione attiva. I minijobs e i midi- jobs furono estesi i fino a coinvolgere quasi otto milioni di lavoratori. I minijobs erano pagati 400 euro al mese, aprendo così la strada a una nuova categoria di lavoratori poveri. La flessiblizzazione del lavoro diventava il principio guida della politica del lavoro che si sarebbe diffusa in tutta l’Unione europea. La poltica programmata nella conferenza di Lisbona al volgere del secolo era stata eclissata nell’economia che guidava l’eurozona nel rapido giro dei primi anni del neonato euro.
Alla fine, la crescente impopolarità per le riforme neoconservatrici, la reazione dei sindacati e il dissenso dell’ala sinistra della SPD costrinsero Schroeder alle dimissioni nel febbraio 2005 prima di completare il suo secondo mandato. Il primo quinquennio dell’eurozona si concludeva in Germania, l’economia dominante dell’eurozona, con una crescita complessiva del PIL del 3,5 percento: una distanza stellare dall’obiettivo della crescita media annua del 3 percento per l’Eurozona, concepita all’inizio del nuovo decennio.
La SPD intanto perdeva le elezioni dell’autunno del 2005 aprendo la strada al lungo cancellierato di Angela Merkel, ormai vicino per la durata a quello di Kohl, il più lungo della Germania dal tempo di Bismarck.
In ogni caso, dopo i primi deludenti cinque anni si apre una fase di crescita nell’eurozona. La crescita contribuisce a ridurre il debito pubblico che in Italia si colloca al 106 per cento del PIL e, secondo la Banca d’Italia, si avvia a scendere verso quota cento nel giro di qualche anno. Soprattutto, il tasso di disoccupazione è diminuito significativamente collocandosi appena al di sopra del 6 per cento, per la prima volta inferiore ai tassi registrati in Germania e Francia. L’eurozona sembra finalmente entrare in una fase di sviluppo dopo il deludente primo quinquennio. Ma la prospettiva si rivelerà illusoria e il decennio si avvia alla chiusura con un rovesciamento del quadro economico.
3) – Nell’autunno del 2008, la crisi scoppiata in America si ripercuote pesantemente sull’economia dell’eurozona. Le maggiori banche francesi e tedesche sono coinvolte nella crisi finanziaria di Wall Street. La Germania va incontro a una profonda recessione che causa un calo del PIL del 4,7 per cento nel 2009. L’Italia, come gli altri paesi dell’eurozona segue la stessa sorte.
La crisi finanziaria colpisce in particolare paesi minori come la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. La Spagna che era ancora un paese con un debito pubblico particolarmente basso pari 36 per cento del PIL è fortemente esposta con le banche di carattere regionale coinvolte nella crisi immobiliare. E il loro salvataggio, imposto dalle autorità della eurozona a salvaguardia delle banche tedesche e francesi creditrici, apre una voragine nei conti pubblici della Spagna, avviando una fase di dura deflazione e di esplosione della disoccupazione che toccherà negli anni successivi il 25 per cento della forza lavoro.
Tuttavia, nonostante le pesanti conseguenze della crisi bancaria, il 2010 fa registrare una ripresa dell’eurozona nel suo insieme. La crisi ha devastato alcuni paesi minori, ma la ripresa americana iniziata a metà del 2009 si riflette positivamente sull’economia globale. Sembrava in sostanza che l’eurozona considerata nel suo insieme si avviasse a superare la crisi, riprendendo un sentiero di crescita.
Sappiamo che, invece, le cose andarono diversamente. Invertendo puntualmente la politica adottata in America, dove i tassi di interesse furono ridotti quasi a zero, Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, temendo che la ripresa dell’economia potesse originare una fiammata inflazionistica, aumentò i tassi di interesse. Era una politica insensata che aveva il doppio effetto di uccidere nella culla i primi segnali di ripresa e al tempo stesso di aggravare il peso degli interessi pagati sul debito che la crisi aveva fortemente accresciuto. I paesi più indebitati si trovarono alle prese con la crescita del costo del debito insieme con una compressione della crescita economica che si avviava.
I mercati finanziari attaccarono i paesi più esposti che dovevano rimborsare o rinnovare i debiti accumulati nella crisi. In questo quadro, nell’estate 2011, la speculazione prese di mira le banche italiane, non ostante il disavanzo del bilancio pubblico, benché aumentato fino al 5 per cento del PIL, fosse tra i più bassi dell’eurozona. Mario Draghi, candidato a succedere a Jean-Claude Trichet, da governatore della Banca d’Italia aveva concluso la sua ultima relazione alla fine di maggio con accenti relativamente ottimistici sulla situazione italiana. Ma nel giro di poche settimane, nel mese di luglio, la Commissione europea, d’accordo con la Banca centrale, aveva deciso una poltica di rientro del disavanzo di bilancio sostanzialmente irrealizzabile in un quadro di riduzione della crescita. Era l’occasione offerta ai mercati finanziari per aggredire l’Italia oltre alla Spagna .
È in questo contesto che la Germania elabora il Fiscal compact che impone l’azzeramento del disavanzo pubblico, in sostanza la paralisi dell’intervento pubblico che è servito non solo in America ma anche nei principali paesi europei a sostenere le banche in difficoltà fra le quali le banche tedesche. Il nuovo Patto fiscale è sottratto al dibattito del Parlamento europeo. La Germania col consenso della Francia di Sarkozy impone un patto di carattere intergovernativo con una durata di cinque anni. I paesi membri dell’Unione europea lo approvarono nel corso del 2012 con poche eccezioni fra cui la Gran Bretagna, votandosi a un destino di austerità che, nella sostanza, decretava l’inizio di una lunga fase di stagnazione quando non di aperta recessione dell’economia dell’eurozona.

I governi crollano come birilli prima della fine del 2011. In Italia cade il governo Berlusconi sostituito dalla compagine tecnocratica guidata da Mario Monti. In Spagna cade il governo di Zapatero sostituito dalla destra di Mariano Rajoy. In Grecia è liquidato il governo Papandreou per una chiara decisione della coppia Merkel-Sarkozy. La crisi economica è la chiave di volta di un riassetto politico che sposta decisamente a destra l’asse politico dei paesi dell’euro.
4) – In estrema sintesi, la politica praticata nell’eurozona fu l’esatto rovescio della politica adottata negli Stati Uniti, dove la crisi era esplosa facendo inizialmente temere le conseguenze catastrofiche della Grande recessione degli anni Trenta. In America Henry Paulson e Ben Bernanke, rispettivamente a capo del ministero del Tesoro e della Federal Reserve avevano reagito, chiedendo e ottenendo dal Congresso la disponibilità di 700 miliardi di dollari da impiegare a sostegno delle banche per scongiurare il dilagare della crisi aperta con il fallimento della Lehman Brothers. Poi Barack Obama, eletto alla fine del 2008, aveva fatto ricorso alla poltica fiscale deliberando la disponibilità di 800 miliardi di dollari, circa il 6 per cento del reddito nazionale per rilanciare l’economia con una forte spinta della spesa pubblica.

L’America che aveva rischiato il ripetersi di una crisi che ricordava i primi anni Trenta del secolo scorso e che aveva visto crescere la disoccupazione giunta a 14 milioni, si avviava lentamente a riprendere la via della crescita che come oggi sappiamo si sarebbe prolungata per oltre un decennio e che ancora continua, mentre il tasso di disoccupazione si è ridotto al 3,5 per cento, il più basso dell’ultimo mezzo secolo. La differenza tra le politiche adottate dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico non potrebbe essere più radicale e clamorosamente autopunitiva per l’eurozona.
Dieci anni dopo la crisi, l’eurozona è vittima della più bassa performance economica a livello globale. E come testimonianza definitiva dell’assurdità della sua politica è di fronte a noi la crisi della Germania. Vale a dire la crisi della principale economia, segnata fra il 2018 e il 2019 dalla recessione seguita da un tasso di crescita vicino allo zero. Una sorte non dissimile da quella subita dall’Italia, ma tanto più paradossale in quanto relativa a una delle maggiori potenze economiche a livello globale.
In sostanza, i primi vent’anni dell’eurozona culminano in una fase di ribaltamento delle prospettive che hanno segnato la sua nascita. Doveva aprire la strada a una nuova potente Europa, al centro del mondo del nuovo secolo. È stato vero il contrario. La crescita economica è diventata appannaggio degli Stati Uniti che realizzano il più lungo e ininterrotto periodo di crescita che si ricordi.

Lo sviluppo economico si è dislocato sulle rive del Pacifico. Gli Stati Uniti e la Cina, fra di loro sempre più in competizione, sono alla testa della crescita economica e del progresso tecnologico. Il Giappone, dopo un periodo di stasi, vede oggi il governo di Shinzō Abe decidere investimenti pubblici nell’ordine di oltre cento miliardi per rilanciare la crescita alla cui base ha in ogni caso conservato un alto livello di sviluppo tecnologico e una forte concorrenzialità nei settori industriali di punta. La Corea del Sud mostra una crescita continua nei settori tecnologici più avanzati. E nel sud del continente l’India, sia pure nel mezzo di grandi contraddizioni sul piano sociale, tende a occupare un posto di primo piano nell’economia globale. Come Fernand Braudel aveva previsto alcuni decenni fa, il Pacifico si pone al centro dell’economia mondiale.

5) – Per uscire dalla crisi l’unica soluzione è un forte intervento pubblico diretto a rilanciare gli investimenti e ridare fiato alla crescita Dalla quale in definitiva dipende a medio termine la progressiva riduzione del debito paradossalmente aumentato negli anni dell’austerità. Un nuovo corso è possibile mobilitando i risparmi che la crisi immobilizza per tradurli in investimenti. I risparmi sono aumentati durante la crisi. Il risparmio privato sotto forma di depositi e conti correnti ha raggiunto nel 2018 la straordinaria cifra di 13 trilioni di euro, una dimensione maggiore del redito annuale dell’intera area.
In Italia i risparmi privati hanno toccato circa 1500 miliardi di euro mentre i tassi di interesse sono prossimi allo zero, quando non sono negativi. Lo stato è il soggetto che può attivarli sia direttamente che in combinazione col settore privato nelle infrastrutture con un elevato potenziale occupazionale, nei settori della ricerca e del progresso tecnologico, nell’ambiente, nel sostegno ai settori come la sanità e l’istruzione, per non parlare del Mezzogiorno e di milioni di famiglie impoverite dalla crisi.
Gli economisti che sostengono questa linea d’intervento sono consapevoli del fatto che la spesa pubblica accresce necessariamente il deficit di bilancio. Ma l’aumento del reddito derivante dallo sviluppo degli investimenti e dell’occupazione genera una crescita del PIL e delle entrate pubbliche che consentono, dopo un primo avvio, di ripagare il debito aggiuntivo.
Che il passaggio alla moneta unica potesse essere un azzardo è stato un tema ampiamente sviluppato dagli economisti. Si era soffermato sulle sue contraddizioni Tony Judt già a meta degli anni Novanta nelle conversazioni tenute presso il John Hopkins Center di Bologna riprodotte in un volumetto del 1995, A grand illusion?, e poi riprese nella sua monumentale storia dell’Europa del dopo guerra,Postwar, pubblicata quindici anni dopo. Ma sarebbe difficile fare il conto degli economisti, da Krugman a Stiglitz a Galbraith ad Ashoka Modi, che hanno con articoli e saggi mostrato le incongruenze della politica dell’eurozona.
Alla critica si affiancano anche, sia pure indirettamente, le possibili soluzioni, come nel caso delle posizioni di Lawrence Summers. Per l‘economista di Harvard, ex ministro del Tesoro di Clinton e poi principale consigliere economico di Barack Obama, l’investimento pubblico aggiuntivo è in grado di generare un elevato multiplo del tasso di crescita mentre a medio termine l’aumento delle entrate fiscali consente una progressiva riduzione del rapporto debito / PIL.
La politica europea si muove in senso contrario e condiziona gli Stati membri, anche quando sarebbero orientati a uscire dalla gabbia in cui l’eurozona ha costretto la poltica economica. Il governo Conte è l’esempio lampante di un governo con le mani legate, costretto a immolarsi nel quadro di un’economia la cui crescita non solo è attualmente vicina allo zero ma che, secondo le previsioni del FMI, sarà ancora segnata dal misero aumento di qualche incerto decimale nel 2020-2021. Un quadro nel quale o il governo rielabora la sua politica puntando a un forte rilancio della crescita – con o senza il consenso della nuova Commissione europea – o si avvia al fallimento per le sue a divisioni interne e sotto l’attacco dell’opposizione di destra guidata dalla Lega.
L’eurozona si è rivelata il principale paradosso della storia europea dei primi venti anni del nuovo secolo. L’euro è nato per rafforzare l’economia europea e renderla un forte concorrente a livello economico globale. Il risultato è stato il contrario. La crisi che devasta l’eurozona non è una condanna divina, ma il risultato di una politica autolesionista. L’obiettivo del pareggio del bilancio in mezzo a una lunga stagnazione dell’economia e a un inarrestabile peggioramento delle condizioni sociali è privo di senso.
I tempi e i modi di un possibile cambiamento rimangono incerti. Certo invece appare il giudizio sul fallimento di un’esperienza che venti anni fa fu inaugurata nel quadro di un grande ottimismo che all’epoca parve ragionevolmente motivato. Un ottimismo che la politica praticata nei venti anni che ora giungono a compimento ha clamorosamente smentito.

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