Tronti: “Separazione del valore dal lavoro e diritto alla conoscenza”

Postfazione di Leonello Tronti per il libro: “I SOMMERSI. Lavoratori disarmati nella sfida con i robot” di Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie, P.S. Editore, Roma, Settembre 2022, seconda edizione.

1. I sommersi
Il libro affronta il tema storico, tanto complesso quanto cruciale per la stessa tenuta e lo stesso significato della democrazia, del progressivo deterioramento delle condizioni generali del lavoro
dopo l’ondata internazionale delle lotte operaie degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Quell’ondata aveva portato ovunque, in Occidente, al rafforzamento dei sindacati e dello stato sociale e, in Italia, nel 1970 aveva fatto “entrare la Costituzione in fabbrica” con lo Statuto dei
lavoratori di Giacomo Brodolini e Gino Giugni (ma anche, non bisogna dimenticarlo, di Carlo Donat-Cattin), che opportunamente gli autori ripubblicano integralmente come appendice al
volume.


Dopo quella fase fondante, e in relazione con la crisi economica internazionale conseguente agli shock petroliferi degli anni ’70 e al diffondersi della stagflazione nelle economie sviluppate, il lavoro subisce un processo di progressivo indebolimento politico, economico e sociale, che lo vede sempre più frammentato e disarmato nell’arena del conflitto industriale e nella stessa società. In Italia i partiti politici che avevano un legame storico con il lavoro e con i sindacati più rappresentativi scompaiono con la crisi della Prima Repubblica, e le nuove aggregazioni della sinistra, o meglio del centro-sinistra, perdono progressivamente l’aggancio privilegiato con il mondo del lavoro, mentre i sindacati si trasformano assumendo una mole crescente di compiti e funzioni di servizio sociale diversi dalla contrattazione: dall’assistenza fiscale e sociale a numerose e rilevanti attività bilaterali, anzitutto di formazione, e poi di gestione mutualistica di fondi di solidarietà per l’integrazione del reddito, di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, di
partecipazione alla gestione dei fondi di previdenza integrativa, del welfare aziendale e della sanità integrativa e altro ancora. Le nuove attività di servizio sociale del sindacato non riescono però a
impedire il progressivo indebolimento del sistema delle relazioni industriali al proprio interno e nei confronti dell’intero corpo sociale.
Il lavoro presenta cambiamenti che non possono non definirsi epocali, i cui fenomeni più profondi sono da un lato tecnologici (tra tutti la digitalizzazione dei processi produttivi, la diffusione
dell’intelligenza artificiale e dei robot e, quindi, le imprese-piattaforma e il management algoritmico) e dall’altro economico-sociali, con la generazione e la continua crescita di diseguaglianze economiche vertiginose, senza precedenti nella storia moderna. In questa trasformazione rapida quanto profonda, i lavoratori (e con essi una parte rilevante se non maggioritaria della classe media) sembrano aver perso non solo l’accesso a una condizione di
benessere diffuso, ma la capacità stessa di incidere sull’evoluzione della società e dell’economia,
di promuovere un programma di libertà e di progresso sociale.
2. Il declino del lavoro: le ragioni economiche 

Negli anni successivi all’ondata internazionale delle lotte operaie, che aveva consentito significativi miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro dei salariati, si registra un progressivo deterioramento che segue direttrici diverse e complementari. Il declino è anzitutto di natura
economica e si concretizza con il continuo ridimensionamento della quota dei salari nel valore aggiunto a favore di profitti e rendite. Il taglio si riscontra quasi contemporaneamente, in America,
in Europa e in quasi tutte le economie avanzate, a partire dalla metà degli anni ’70 e prosegue ininterrotto per un trentennio, fino alla crisi finanziaria internazionale del 2008. Il processo si avvia
tra il primo (1973) e il secondo (1979) shock dei prezzi del petrolio e delle principali materie prime.
Le economie occidentali si trovarono improvvisamente gravate da un pesante fardello di inflazione proveniente in larga prevalenza da altre aree del pianeta in un periodo in cui lo sviluppo le aveva
avvicinate alla piena occupazione, rafforzando l’influenza del lavoro organizzato e la sua capacità di resistere alle pressioni di chi voleva accollare per intero quel fardello ai salari. Il “mondo libero”
si impantana così in una lunga fase di “stagflazione”, caratterizzata da inflazione elevata e crescita stagnante. Sul piano della politica economica, la stagflazione pone fine al “consenso keynesiano”
(che sarebbe più giusto chiamare neokeynesiano) che aveva guidato lo sviluppo impetuoso del “glorioso trentennio” postbellico.
La crisi si scatena in successione. Anzitutto a causa del venir meno dell’accordo monetario internazionale creato dagli accordi di Bretton Woods per l’abbandono da parte di Nixon della
convertibilità aurea del dollaro (1971), resa insostenibile dalle ingenti spese per la guerra del Vietnam. Quindi, in conseguenza della decisione dei paesi arabi associati all’OPEC di sostenere
l’azione di Egitto e Siria nel conflitto arabo-israeliano dello Yom Kippur (1973) con robusti aumenti del prezzo del barile rispetto a un dollaro già fortemente svalutato (il valore dell’oro triplica nello
stesso 1973 a 106 dollari l’oncia) e con un embargo nei confronti dei paesi maggiormente filoisraeliani.
Ma la difficoltà con cui l’economia globale affronta la svalutazione del dollaro e l’inflazione dei prezzi delle materie prime è legata anche al successo delle politiche economiche espansive
condotte nella fase postbellica. È la stessa prossimità alla piena occupazione a mettere sotto scrutinio l’efficacia della visione keynesiana, nata per contrastare la Grande Depressione degli anni
’30: in una fase di avvicinamento al pieno utilizzo della capacità produttiva e del lavoro, oltre a non avere effetto sulla crescita, le politiche di sostegno della domanda si trasformano infatti in
inflazione interna, che impedisce di “accomodare” quella importata. In particolare, la disoccupazione, creata dal rallentamento della crescita e dalle restrizioni monetarie intraprese per bloccare l’inflazione dal lato dell’offerta di moneta, non è in grado di frenare un’inflazione alimentata da successivi rincari delle materie prime.
In altri termini, la provenienza esterna dell’inflazione e la resistenza dei lavoratori ad accettare una svalutazione salariale anche in presenza di una disoccupazione crescente minano alla base la
validità paradigmatica della curva di Phillips e, con essa, il suo ruolo di strumento centrale di finetuning dello sviluppo. Negli Stati Uniti del 1981, con un tasso di disoccupazione oltre il 10% e
l’inflazione al 13,5%, mentre il neopresidente Ronald Reagan contrasta la recessione con un forte aumento della spesa pubblica e un cospicuo taglio delle tasse, il presidente della FED Paul Volker
ricorre con straordinaria energia al freno monetario. Il prime rate bancario schizza al 21,5%, ma l’inflazione ritorna al 3,2% soltanto nel 1983, con un tasso di disoccupazione che non scende sotto
l’8,2% nonostante la crescita superi il 4%.
3. Cultura economica e politica del neoliberismo

Sul piano della cultura politica o, se si vuole, dell’egemonia gramsciana nelle relazioni sociali, gli shock petroliferi e la stagflazione nei paesi avanzati disegnano lo scenario in cui prende corpo la rivoluzione neoliberista, con la scelta strategica di ridurre l’intervento pubblico e le tasse per affidare l’economia all’individuo, al mercato e all’impresa e poi, dopo la caduta del Muro di Berlino
(1989), alla globalizzazione dei commerci e dei movimenti dei capitali. Sul piano politico, l’affermazione dell’ideologia neoliberista manifesta tutta la sua forza nelle varianti inglese (Hayeck
e la Mont Pelerin Society) e americana (Friedman e la Scuola di Chicago), con le vittorie gemelle della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti. Mentre alla variante ordoliberista tedesca
(Eucken, Rüstow, Röpke) sarà riservato un ruolo centrale nell’edificazione dell’Unione Europea anzitutto sulla base delle quattro libertà fondamentali che presiedono il disegno del Grande
mercato unico (libera circolazione di persone, merci e capitali e libera prestazione di servizi), e quindi attorno al ruolo centrale della moneta unica e della sua stabilità, nonostante i rilievi critici
di Robert Mundell. Alla crisi del “consenso keynesiano” e al parallelo declino dell’intervento economico dello Stato e delle politiche di sostegno della domanda si accompagna così il netto deterioramento
dell’influenza politica e sociale dei partiti di sinistra e del sindacato, che si manifesta in modo drammatico con cocenti sconfitte del lavoro organizzato. In Italia nel 1980 alla Fiat, con la
cosiddetta “marcia dei quarantamila” impiegati e quadri contro il blocco di Mirafiori da parte degli operai che vogliono far ritirare all’impresa 14.500 licenziamenti; negli Stati Uniti di Reagan un
anno dopo, con il licenziamento in tronco di più di 11 mila controllori di volo in sciopero, che non verranno mai reintegrati; nella Gran Bretagna della Thatcher con la vera e propria “guerra” che la
oppone al sindacato dei minatori guidato da Arthur Scargill, che cerca di impedire la privatizzazione e/o chiusura dell’intero comparto dell’estrazione del carbone.
Il “mondo libero” spedisce in soffitta l’obiettivo della piena occupazione. Anzi, ne ha paura, e la politica tende ad addebitare più o meno esplicitamente la stagflazione all’eccesso di potere
guadagnato dal lavoro negli anni precedenti e, dunque, alla sinistra (che con l’inflazione importata non ha alcun legame). Sulle opposte sponde dell’Atlantico Margareth Thatcher e Ronald Reagan
affrontano la stagflazione con politiche economiche di ridimensionamento del ruolo di regolazione sociale ed economica dello Stato: taglio delle tasse, smantellamento dello stato sociale e
dell’intervento pubblico in economia, liberalizzazione della finanza privata, eliminazione dei vincoli all’azione delle banche e delle imprese, abolizione delle norme di tutela del sindacato. Le
cosiddette politiche “dell’offerta”, che si contrappongono a quelle keynesiane “della domanda”, riescono a domare l’inflazione soprattutto attraverso la leva della restrizione dell’offerta di
moneta – che Ezio Tarantelli chiamava “la corda del boia” – e con le politiche di “austerità” (compressione di salari e stato sociale e taglio delle tasse, soprattutto per i più ricchi e per le imprese). Mentre la centralità politica della piena occupazione viene rimpiazzata da quella della libertà di mercato, dell’impresa e della stabilità della moneta, favorendo un po’ ovunque non solo, come abbiamo detto, la compressione della quota del lavoro nel reddito, ma anche l’aumento
della disoccupazione, l’impoverimento della classe media e una rapida crescita delle disuguaglianze economiche e sociali, che nel tempo si dimostrerà senza precedenti.
4. La globalizzazione dell’economia

Liberismo e monetarismo coinvolgono anche la fase costituente dell’Unione Europea e la creazione dell’euro, che traggono impulso dal parallelo indebolimento dell’impero sovietico, divenuto inarrestabile con la caduta del Muro di Berlino, le successive Rivoluzioni dell’89 e la fine del comunismo in Russia. L’America trionfante, grazie anche alla rivoluzione informatica, assieme
alla dottrina liberista e alle forze del capitalismo internazionale, sostenendo vigorosamente (dopo lunga preparazione) la creazione nel 1995 e il ruolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
(WTO), a scapito di quello declinante dell’assai più antica Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO: 1919), pone le basi politiche e normative per il processo di globalizzazione economica del pianeta.
I diversi elementi di questo processo (liberalizzazioni, deregolazioni, delocalizzazione della produzione, riduzione della sovranità degli stati nazionali, paradisi fiscali), sostenuti tecnologicamente dalla rivoluzione informatica e politicamente dalla diffusione dell’ideologia neoliberista e individualista, ottengono il risultato di portare indubbiamente allo sviluppo accelerato una quota rilevante, se non maggioritaria, della popolazione mondiale (soprattutto i
cosiddetti Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Ma portano anche ad un relativo indebolimento economico dei paesi sviluppati, nonostante l’enorme rafforzamento delle imprese
multinazionali. Alla loro ottima e a volte strabiliante salute è ormai sempre meno legata la sorte economica complessiva delle economie nazionali e, in particolare, quella dei lavoratori.
Nonostante l’interscambio commerciale cresca in misura significativa, il Pil dell’intero pianeta, che tra il 1965 e il 1980 aumentava del 4,6% l’anno, nel periodo successivo (1981-2008) rallenta, superando comunque il 3 per cento l’anno, mentre gli Stati Uniti crescono a tre quarti circa della velocità dell’intero pianeta, l’Unione Europea segue a più di metà della velocità degli Stati Uniti, e per l’Italia, ancor più in difficoltà, la crescita che nella Prima Repubblica, tra il 1965 e il 1980, era stata addirittura superiore a quella americana, si riduce a meno della metà della già assai modesta
crescita europea.
5. La liberazione dal lavoro

Oltre al neoliberismo e alla globalizzazione, esiste però anche una stella polare nascosta che guida in modo sotterraneo le trasformazioni del sistema produttivo, dell’economia e della società dei paesi sviluppati. Si tratta di un miraggio, di un’utopia in fondo antica quanto il mondo che però, a partire dagli anni ’70, la Terza rivoluzione industriale rende almeno apparentemente più concreta
e tangibile, facendo collassare su di essa visioni e progetti profondamente diversi, come quelli di una sinistra molto estrema (dall’autonomia operaia all’accelerazionismo), dei cultori di “realistiche utopie” tecnologiche e di punte avanzate del capitalismo globale. La stella polare segreta è quella della liberazione dell’uomo dal lavoro manuale (e, in prospettiva, dal lavoro tout-court).
Ma andiamo con ordine. Sono, anzitutto, proprio degli anni ’70 i contributi di analisi che evidenziano, all’interno del mercato del lavoro, la compresenza di due distinti mercati: il mercato
del lavoro esterno e il mercato interno (Doeringer e Piore, Tarantelli). Quello esterno è il vero e proprio mercato del lavoro, sul quale offrono i propri servizi di lavoro, in concorrenza tra loro,
persone non ancora o non più occupate, oppure in cerca di un posto migliore di quello in cui si trovano. Il mercato interno, invece, è quello che definisce, per le persone che già hanno un lavoro,
procedure individuate dall’organizzazione per cui lavorano, spesso negoziate con il sindacato, per trasferire gli occupati da un posto a un altro, stabilire i percorsi di carriera, fissare la  remunerazione del lavoro e i benefici connessi.
Le imprese, nelle proprie strategie di gestione del personale, fanno alternativamente ricorso all’uno o all’altro mercato: acquistano sul mercato esterno il lavoro di cui hanno bisogno; oppure coltivano, nel mercato interno, la professionalità dei dipendenti, investendo nella loro formazione, regolando benefici economici e non, e garantendosi in questo modo la disponibilità e la qualità del lavoro di cui abbisognano. Il mercato interno si differenzia significativamente da quello esterno in quanto, protetto da barriere all’entrata (procedure selettive o concorso pubblico) che limitano in misura consistente la possibile concorrenza tra i due mercati, di regola prevede diverse durate del rapporto di lavoro in relazione alla professionalità, al ruolo, all’anzianità ecc. del lavoratore, fino a garantire in alcuni casi l’impiego a vita. Ma il mercato interno conferisce al lavoratore anche una capacità decisamente maggiore di influire, direttamente o indirettamente, sull’organizzazione del proprio lavoro, una più ampia informazione sugli obiettivi aziendali, sulle strategie e sugli
strumenti per conseguirli, e soprattutto la possibilità di concorrere a definire orbite o intorni salariali (wage contours) che stabiliscono la remunerazione del proprio lavoro in termini di “giuste relatività” (fair relativities) nei confronti di gruppi socioprofessionali paralleli, superiori o inferiori.
L’interazione con i due mercati genera una sorta di gerarchia delle imprese/organizzazioni, a seconda di quanto esse si collochino a contatto con il mercato esterno oppure sviluppino il proprio
mercato interno. Nel primo caso abbiamo organizzazioni occasionali, poco strutturate, e comunque che occupano lavoratori prevalentemente temporanei, con un alto turnover occupazionale. Nel secondo troviamo invece organizzazioni molto strutturate, grandi imprese, attività professionali e, soprattutto, il pubblico impiego con, al livello più alto della gerarchia, le attività che impiegano personale non contrattualizzato (professori, prefetti, giudici, militari, diplomatici ecc.).
Il processo di separazione del valore dal lavoro avviene in primo luogo tramite l’estensione del mercato esterno. Da un lato le grandi imprese fordiste si ridimensionano attraverso processi di
downsizing basati sia sull’automazione, sia sull’esternalizzazione di intere fasi del processo produttivo ad altre imprese, magari create dall’impresa stessa per ricollocare almeno in parte i lavoratori espulsi, oppure create dagli stessi lavoratori espulsi, a volte incentivati con buonuscite e commesse pluriennali che favoriscono il decentramento produttivo creando filiere di subfornitura.
Un passo parallelo e di enorme rilievo di questo percorso, che procede con la globalizzazione dei commerci e dei movimenti internazionali di capitale, è l’ampliamento dell’offerta di lavoro
planetaria a disposizione delle società multinazionali: ampliamento che giunge a raddoppiarne la consistenza (Freeman, 2007). La creazione di un vasto e variegato mercato del lavoro globale, al
tempo stesso condizione e frutto della liberalizzazione dei commerci e dei movimenti di capitale, oltre a consentire un regime di concorrenza prima impossibile tra i mercati del lavoro e, in
definitiva, tra i lavoratori nazionali dell’intero pianeta, conferisce alle imprese la facoltà di trasferire e distribuire con relativa facilità la produzione da un punto all’altro del globo terrestre. Il legame dell’impresa con il territorio dove è stata creata e/o dove opera – legame non solo economico ma anche storico, culturale e sociale – ne risulta fortemente indebolito, mentre viene notevolmente rafforzato il suo potere negoziale. Grazie alla nuova libertà di movimento e alla possibilità di farne uso in uscita, imprese e fondi di investimento acquisiscono infatti un’inedita e cospicua autorevolezza nei confronti di governi e sindacati. Un parallelo rafforzamento dei poteri di condizionamento dell’impresa nei confronti del lavoro e degli amministratori pubblici locali e
nazionali deriva, poi, dalla creazione di nuovi paradisi fiscali e dal rafforzamento di quelli preesistenti.
6. Flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro 

Peraltro, fin dagli anni ’80, nei paesi industriali avanzati (e in Italia con qualche ritardo), in aggiunta alla nuova concorrenza sul mercato del lavoro globale, il ruolo e l’importanza del lavoro vengono ulteriormente erosi con l’introduzione e la diffusione delle tante forme di prestazione lavorativa regolate da rapporti flessibili e precari, che frazionano il mercato del lavoro in un segmento garantito cui si contrappongono vari segmenti sempre meno garantiti, senza peraltro riuscire in alcun modo a scalfire il segmento non garantito per nulla. Anche i processi di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, dunque, favoriscono il trasferimento del lavoro al mercato esterno, anzi a un mercato spesso geograficamente lontano, e cercano di mantenerlo lì, dove esso perde contatto con se stesso, con il sindacato, con la sinistra e con ogni prospettiva di riscatto su base nazionale.
Sul piano della cultura di massa, la progressiva separazione del valore dal lavoro è sostenuta da messaggi sociali che in mille modi affermano che “quello che conta non è più il lavoro”, dato che il
valore si crea con l’inventiva, l’imprenditorialità, l’innovazione, la finanza. Il lavoratore deve diventare “imprenditore di se stesso”, ciò che favorisce la concorrenza tra i lavoratori e la caduta della solidarietà sociale (nel caso italiano, in spregio all’articolo 2 della Costituzione); salvo poi scoprire che questo imprenditore di se stesso se vuole campare deve fare la finta partita IVA, il
fattorino, il guidatore di Uber o, alla meglio, entrare in una catena di valore, magari transnazionale, attraverso la quale il valore viene appunto separato dal lavoro ed estratto in larga prevalenza in alcuni segmenti, mentre negli altri ne ricadono a stento le gocce, secondo la lezione della teoria dello “sgocciolamento in basso” (trickle-down).
A cavallo tra le esternalizzazioni, le retoriche dei distretti e dell’autoimprenditoria, tra il Censimento dell’industria e dei servizi del 1991 e quello del 2011 il numero delle imprese attive cresce di un milione e 126 mila unità (+34,1%), e quello degli addetti di un milione e 850 mila unità (+12,7%). Tuttavia, nello stesso ventennio sia il numero sia l’occupazione delle grandi imprese si riducono nettamente, mentre tutte o quasi le nuove imprese (98%) e quasi due terzi della nuova occupazione (58%) vanno a collocarsi nel segmento delle microimprese (da 1 a 9 addetti), che presenta nell’insieme dinamiche della produttività e dei salari deludenti e, ovviamente, notevoli limitazioni ai diritti sindacali.
Se nel 1993 gli occupati a tempo parziale sono 2,4 milioni, pari all’11,2% del totale, nel 2015 sono diventati 4,2 milioni, ovvero il 18,6%. E così, se nel 1993 gli occupati a tempo determinato sono 1,5
milioni, pari al 10,3% del totale, nel 2015 sono diventati 2,4 mln, pari al 14,1%. Fra l’altro, il lavoro flessibile o precario si concentra sulle donne che, nel periodo considerato, occupano in media il
73,4% delle posizioni a tempo parziale e il 49,1% di quelle a tempo determinato.

7. Economia dell’informazione ed economia della conoscenza

Il terzo pilastro della separazione è, poi, la progressiva smaterializzazione del lavoro, consentita dal rapido diffondersi delle tecnologie di comunicazione, coordinamento e anche controllo dei
processi produttivi, che rendono obsoleti la grande fabbrica, il fordismo, l’addensamento del lavoro in grandi concentrazioni operaie. Già nel 1976 la tesi di dottorato di Marc Porat evidenzia
come il 40 per cento dei lavoratori americani sia ormai impegnato in quella che egli definisce l’Economia dell’informazione: un concetto che comprende sia i settori il cui prodotto finale è costituito da diversi tipi di informazione, sia quelli che producono informazione come bene intermedio per altri settori. L’economia dell’informazione include la parte dell’industria dedicata  alla produzione di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i servizi avanzati, i settori
più strettamente legati all’informazione e alla comunicazione (politica e burocrazia, televisione, radio, giornali, spettacolo, arte), la scuola, l’università, la formazione e la ricerca scientifica e,
naturalmente, da ultime ma davvero non ultime, la banca e la finanza.
Sempre a metà degli anni ’70, e sempre in America, il pedagogista Nicholas Henry conia il concetto di “gestione della conoscenza” (knowledge management) e lo pone al vertice della sua ormai
famosa piramide. Quattro stadi di complessità e rarità crescenti – dati, informazione, conoscenza e saggezza (quest’ultima indispensabile quanto raro requisito “metapolitico”, fondamentale per gestire la conoscenza in modo adeguato a mantenere nel solco della democrazia quel processo sociale che, nelle parole di Henry, “cambia noi stessi”). I quattro stadi della piramide delineano
icasticamente l’essenza dell’economia della conoscenza: non solo il suo modo di funzionamento, le sue materie prime, i suoi processi produttivi, i suoi risultati e i problemi che questi generano, ma
implicitamente, come proiezione di quelli, anche i processi di creazione del valore nel nuovo mondo che possiamo definire Economia della conoscenza.
Tornando al tema della globalizzazione, si può facilmente notare come la creazione di circuiti finanziari internazionali, così come di reti di coordinamento e trasmissione/condivisione di dati,
informazioni e conoscenze, renda all’impresa più agevoli e meno costosi i processi di downsizing, esternalizzazione e outsourcing, più facili la composizione e la gestione delle filiere produttive che
scavalcano i confini nazionali. L’internazionalizzazione è, infatti, un terreno relativamente agevole per l’impresa che, per delocalizzarsi, globalizzarsi, creare e gestire catene globali del valore può
traferire mezzi di pagamento e capitali da una parte all’altra del globo con un clic, mentre per il lavoro i processi migratori alla ricerca di un mercato del lavoro migliore non sono soltanto costosi
e dolorosi, ma troppo spesso pericolosi se non drammatici.
Se il continuo avanzamento delle tecnologie digitali e la loro sempre più capillare diffusione favoriscono i processi sinteticamente richiamati nei paragrafi precedenti, essi stabiliscono anche
un discrimine tra chi governa informazione e conoscenza e chi ne è governato, tra chi è descritto dai dati – che peraltro spesso produce egli stesso attraverso l’interazione con le piattaforme social
o con attività amministrative, produttive o semplicemente con il collegamento a siti di informazione o intrattenimento – e chi di quei dati dispone, trasformandoli in informazione e conoscenza, strumenti che gli conferiscono un nuovo potere di intervenire sulla realtà in modo informato. In questo modo, peraltro, l’economia della conoscenza e la sua gestione stabiliscono nuovi confini tra il mercato del lavoro esterno e quello interno. Il mercato interno tende a
diventare casta, privilegio, élite tecnocratica, protetta da una barriera di dati, informazioni e conoscenze sempre crescente, una barriera spesso organizzata in tecnologie, algoritmi e
piattaforme atti a governare processi gestionali, produttivi, distributivi e finanziari, ma anche, se non contrastati, capaci di immiserire il mercato esterno e alimentare disuguaglianze sociali sempre crescenti.
8. L’impresa-piattaforma

In questo quadro, una posizione di particolare rilievo è assunta dall’impresa-piattaforma e dal management algoritmico. Grazie alla comunicazione digitale, il modello della piattaforma si
afferma nei primi decenni del XXI secolo come nuova forma di organizzazione aziendale, spesso di carattere globale, di servizi distributivi o di comunicazione o altri ancora (taxi, viaggi, affitto
appartamenti ecc.). Sotto il profilo organizzativo, l’impresa-piattaforma si distingue per il fatto che, a differenza delle aziende tradizionali, che “contrattano nei mercati, comandano nelle gerarchie e collaborano nelle reti” (Stark e Pais, 2021), le piattaforme funzionano essenzialmente come agenzie di intermediazione: cooptano beni, risorse e attività che non fanno parte dell’azienda e ne segnalano e vendono i servizi/prodotti ad acquirenti che si rivolgono ad esse e non ai produttori.
Le imprese-piattaforma sono un nuovo modello di organizzazione e non soltanto lo svolgimento in chiave digitale di una funzione tradizionale di intermediazione di mercato, assunta da una sorta di
banditore d’asta tecnologico o di agente informatizzato del fornitore. In realtà, “in un processo a geometria triangolare, chi possiede la piattaforma coopta il comportamento di fornitori e utenti, e li iscrive alle pratiche di gestione algoritmica senza che gli sia stata formalmente delegata alcuna autorità né alcuna responsabilità gestionale; internalizza relazioni di mercato senza però pervenire mai, almeno in termini espliciti, ad assumere una gestione gerarchica degli scambi”. Le piattaforme accumulano informazione sui due lati del mercato: su prodotti, fornitori e
distribuzione, così come su bisogni, caratteristiche e preferenze dei clienti. È questa mole di informazione raccolta automaticamente attraverso l’attività quotidiana di interazione con produttori e utenti a costruire il potere dell’impresa-piattaforma, il capitale che può mettere a loro disposizione, che loro stessi alimentano e su cui essa fonda i suoi introiti.
La gestione algoritmica implica un tipo particolare di controllo cibernetico perché, “a ogni piega dell’interazione con clienti e fornitori, l’accesso alle informazioni raccolte e alle modalità del loro
utilizzo può essere deviato e negato”. Gli algoritmi traducono le valutazioni e le altre attività e caratteristiche del contatto informatizzato con fornitori e consumatori in classifiche e altri
dispositivi di valutazione spesso inaccessibili o solo parzialmente accessibili a chi ha fornito l’informazione. In questo modo, essi producono conoscenza, ovvero capacità di effettuare scelte
informate, totalmente disponibile soltanto ai proprietari della piattaforma. Per questa ragione questo tipo di impresa opera una ridefinizione tanto dei soggetti quanto dei termini del conflitto
sociale.
Mentre il management scientifico all’inizio del ventesimo secolo offriva un principio legittimante per la crescita di una nuova classe dirigente, il management algoritmico all’inizio del ventunesimo
secolo ridisegna una classe dirigente protetta da barriere di informazione/conoscenza, che si sottrae al conflitto non gestendo direttamente altro che l’incontro tra domanda e offerta di beni e
servizi e, soprattutto, accumulando e utilizzando in proprio la preziosa informazione che ne deriva.
Le asimmetrie di potere della triangolazione fornitori-piattaforma-utenti sono sostenute a livello regolativo da strutture di consenso in cui il proprietario della piattaforma e gli investitori sono in
alleanza con i consumatori della piattaforma e tendenzialmente in conflitto con chi produce e/o distribuisce i beni e servizi offerti, che tende ad essere marginalizzato e posto in concorrenza. Un
caso evidente ne è il conflitto tra Amazon e le miriadi di aziende di piccola e piccolissima dimensione che trasportano le merci presentate e vendute dalla piattaforma.
In questa prospettiva, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e del lavoro robotizzato evidenziano nuove possibilità di separare ancor più drasticamente il valore dal lavoro. Siamo di fronte a
situazioni tuttora di frontiera, ma espressione di un nuovo mondo che sta crescendo in modo impetuoso a fianco di quello più tradizionale: un nuovo mondo in cui l’utopia della liberazione dal
lavoro corre il rischio di trasformarsi in un’intollerabile distopia fondata su disuguaglianze sociali vertiginose e arresto dello sviluppo, in cui la concentrazione in poche mani della nuova
cristallizzazione del valore (informazione e conoscenza) esplicita la lezione di Paolo Leon sul crescente livello di conflitto tra profitto e accumulazione e, in concreto, tra la figura dell’imprenditore o, meglio, dell’apparente auto-imprenditore, e quella del capitalista (che in realtà capitalizza soprattutto l’informazione raccolta gratuitamente o quasi dai due lati del mercato e, attraverso di essa, il potere di fare scelte informate). Questo nuovo tipo di capitalista
diverge e si allontana dalla figura storica dell’imprenditore in quanto non è direttamente interessato alla produzione di beni materiali, mentre il sistema ristagna e diventa più instabile e soprattutto drammaticamente più diseguale.
9. Il mercato finanziario

Il quarto pilastro che sostiene la separazione del valore dal lavoro è dato dallo sviluppo abnorme del mercato finanziario. In questo momento la ricchezza finanziaria globale è pari a più di tre volte
il prodotto lordo del pianeta. Un’immensa “piramide di carta”, come la chiamava già Guido Carli, di debiti e di crediti, che sovrasta l’economia del mondo e il cui valore, che non ha legame diretto
con il lavoro, vive una vita propria nelle periodiche oscillazioni delle borse e dei mercati valutari. Lo sviluppo della finanza, favorito dai guadagni straordinari dei produttori di materie prime e delle
imprese multinazionali (il neoliberismo ha abbandonato del tutto la lotta al capitalismo monopolistico), e moltiplicato dall’internazionalizzazione del credito e dei pagamenti così come
dalla gestione di grandi patrimoni esportati in paradisi fiscali, dall’espansione senza precedenti del credito al consumo e del debito pubblico, ha finito per dare vita a nuovo pianeta, duale rispetto a
quello fisico, a un universo parallelo dell’economia. Le borse sono ormai insensibili al fatto che le economie crescano o, come sempre più spesso accade, ristagnino: le quotazioni dei titoli,
attraverso procedimenti di buyback delle imprese stesse, acquisti delle banche centrali, continuo aumento degli investitori e altri meccanismi finanziari, non corrispondono né agli investimenti fatti
dalle imprese, né ai loro stessi risultati di bilancio e nemmeno a realistiche previsioni dei guadagni futuri. Se il credito al consumo ha raggiunto ormai livelli impensabili e i dirigenti delle grandi
corporation intascano tra stipendi e dividendi cifre che non hanno più alcun rapporto non solo con i guadagni di un loro dipendente ma nemmeno con i risultati reali delle imprese, le stime anche
prudenziali delle “imprese zombie”, che sopravvivono soltanto perché il valore dei loro titoli viene mantenuto elevato da acquisti finanziati dalle banche centrali stampando moneta, fanno tremare
le vene ai polsi.
Infine, al culmine di questa galleria di forme del valore sempre più autonome dal lavoro troviamo le criptovalute: valori creati dal nulla – gli inglesi dicono out of thin air, dall’aria sottile. Qualcuno
mette in vendita un titolo che la blockchain, di cui è parte integrante e non rimuovibile, rende infalsificabile e inalienabile se non da parte di chi lo ha creato o lo possiede, che rimane comunque ignoto e protetto dal meccanismo algoritmico di creazione del titolo. Il valore della criptovaluta è un atto di fede, un gioco, una scommessa (quando non sia un modo di evadere il fisco o di
occultare denaro sporco). È quello che le attribuisce chi la vuole comprare, chi vuol provare il brivido di giocare a un gioco d’azzardo dove, come in un gigantesco schema Ponzi, si vince solo se
sempre più persone vengono a giocare, acquistando criptovalute, tesaurizzandole o accettandole come pagamento. Per non perdere bisogna saper scendere dal treno in corsa prima che vada a
sbattere.
In questo smagliante mondo nuovo di lavoro non ce n’è o, meglio, è sommerso, invisibile: il suo valore è minimale e non ha più alcuna relazione con il valore prodotto. Le imprese che si liberano
dal lavoro estraggono valore dalle informazioni raccolte gratuitamente da algoritmi e piattaforme, dallo strutturarsi in oligopoli e monopoli globali che neutralizzano i possibili concorrenti
acquistandoli, da processi di acquisto-ristrutturazione-smembramento-rivendita di altre imprese, dalla liberazione delle banche d’affari dai vincoli di separazione da quelle commerciali, dalla
liberazione della finanza creativa e dei derivati, seguendo percorsi molteplici di estrazione di valore e accumulazione di ricchezza svincolati dal lavoro che arrivano fino a quella fiat money
privata che sono le criptovalute.
Certo la crisi pandemica ha fatto emergere, nel periodo del lockdown e dei confinamenti, l’importanza del lavoro indispensabile, del lavoro che solo consente alla società di sopravvivere: la
sanità pubblica, il lavoro agricolo, la distribuzione di generi alimentari e di prima necessità, la logistica e i trasporti, le farmacie, lo smaltimento dei rifiuti e così via. E ha messo a nudo la fragilità
dell’orgogliosa costruzione umana basata sulla presunzione di poter rinchiudere nell’ombra, se non è possibile farne a meno, le mani, il sudore quotidiano della fronte, la dignità, la competenza,
il coraggio e la solidarietà del lavoro. Il segnale di questo scenario bisognerà tenerlo caro nei tempi che vengono; bisognerà dimostrare di averlo ben compreso e di saperne conservare il significato
anche dopo la crisi pandemica e la guerra che la Russia ha mosso all’Ucraina, perché la corsa alla separazione del valore del lavoro ha sì unito il mondo, ma ha fatto anche emergere disuguaglianze
inimmaginabili e rischi senza precedenti.
10. Riconnettere il lavoro al valore? Prima direzione di marcia. Fuori dal lavoro

Di fronte a mutamenti di questa portata appare evidente che, per riconnettersi con il valore, il lavoro deve trovare nuove forme di identità, di comunità e di autorappresentazione, capaci di
definire nuovi obiettivi che delineino un percorso di trasformazione dei rapporti di lavoro, della dinamica delle relazioni industriali e, con essa, dei caratteri del sindacato, delle stesse imprese e del diritto del lavoro. Ma è possibile additare oggi, anche soltanto in prima approssimazione, gli orizzonti di un nuovo Statuto dei lavoratori evitando, come ben suggeriscono Benvenuto e Maglie,
di limitarsi a rimpiangere l’originale? Forse un risultato di questa portata non è ancora maturo, tuttavia alcune direzioni di marcia sono relativamente ben definite. Come notato all’inizio, l’utopia della separazione del valore dal lavoro ha una sua declinazione “di
sinistra”, “dalla parte del lavoro”, che si iscrive alla previsione che un capitalismo pienamente sviluppato, sotto il profilo tecnologico ma evidentemente anche politico e sociale, riduca sostanzialmente il tempo di lavoro necessario ad assicurare ai lavoratori un tenore di vita “libero e dignitoso”, come proclama sempre meno osservato l’articolo 36 della Costituzione italiana. Già nel 1845 Marx ed Engels prefiguravano la futura stagione comunista in cui l’uomo, liberato dal lavoro, potesse dedicare a suo piacimento “la mattina a pescare, il pomeriggio a cacciare, la sera ad allevare il bestiame e dopo pranzo a criticare”, senza preoccuparsi di fare di caccia, pesca,
allevamento o anche critica, una professione da cui ricavare di che vivere, dato che lo Stato avrebbe assicurato a tutti una sussistenza dignitosa. Ad essi faceva eco nel 1880 Paul Lafargue con
il suo “Diritto all’ozio”, tradotto in più lingue di qualunque altra opera di propaganda socialista ad eccezione del “Manifesto” di Marx ed Engels. Ma anche l’assai più moderato Keynes, che si
proclamava liberal, nelle “Prospettive economiche per i nostri nipoti” (1930) immaginava che cento anni dopo (ormai manca poco…) gli adulti avrebbero lavorato non più di tre ore al giorno,
prima della scomparsa totale di quello che chiamava “il problema economico”.
La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro è, del resto, una direttrice costante delle conquiste della classe lavoratrice. Oggi l’argomento della riduzione del tempo di lavoro – non solo dell’orario
giornaliero, settimanale o mensile, ma del tempo di lavoro nel ciclo di vita – insieme a quello del salario e dell’equa distribuzione del prodotto sociale, è diventato nuovamente cruciale per il futuro del lavoro, a fronte della digitalizzazione e della robotizzazione – di quella Quarta Rivoluzione industriale che richiama con forza crescente la parola d’ordine di Pierre Carniti e di Ezio Tarantelli “Lavorare meno, lavorare tutti!”.
Dopo la battaglia francese per le 35 ore settimanali, divenute nel 2002 obbligatorie per tutte le aziende, limitazioni analoghe sono state approvate contrattualmente in Germania, Spagna e
Olanda, dove tra l’altro si sta sperimentando con favore la settimana lavorativa di quattro giorni.
Contemporaneamente, tendenze “spontanee” alla riduzione del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita si riscontrano nel differimento dell’età di entrata nel lavoro dei giovani e, all’opposto, nell’anticipo dell’età di uscita degli adulti, come anche nella diffusione del lavoro a tempo parziale e delle varie forme di lavoro intermittente o di breve durata. La riduzione volontaria del tempo di lavoro corrisponde all’aspirazione crescente dei lavoratori e delle
lavoratrici di poter optare per impegni lavorativi più brevi tramite strumenti quali part-time volontario, ferie e riposi settimanali (anche non retribuiti), periodi sabbatici e simili. In un’intervista concessa nell’estate del 1984 a “Quale Impresa”, l’organo dei giovani imprenditori di Confindustria, Ezio Tarantelli si spingeva fino a proporre ai lavoratori una concezione del tempo libero come una sorta di bene di consumo, ipotizzando che per la fine del secolo si generalizzasse il venerdì libero – un esperimento che rispetto a quelle ottimistiche previsioni si sta invece conducendo solo ora, con vent’anni di ritardo, e soltanto in paesi o aziende particolarmente
avanzati (tra queste ultime, ad esempio, Microsoft).
Ovviamente, nella prospettiva di riconnettere il valore al lavoro, la riduzione del tempo di lavoro non può comportare una corrispondente, ulteriore riduzione del valore corrisposto al lavoro per il suo impegno. Già Thomas Piketty e su una linea di indagine autonoma Paolo Leon, hanno evidenziato che l’attuale fase di sviluppo capitalistico globale è caratterizzata da una progressiva
separazione del tasso di profitto dal tasso di crescita o, in termini sociali, dell’accumulazione dallo sviluppo economico, del capitalista dall’imprenditore oltre che dal lavoratore. Come abbiamo
notato più sopra, l’economia della conoscenza è caratterizzata da un progressivo allontanamento se non contrapposizione della figura del capitalista puro, che prospera capitalizzando soprattutto
l’informazione e in particolare quella finanziaria, rispetto a quella dell’imprenditore, impegnato direttamente nella produzione di beni materiali e di servizi, e quindi nella gestione del rapporto
diretto con il lavoro. Il disegno dei rapporti sociali che caratterizza questa configurazione si regge su di un’alleanza tra capitalisti e consumatori, a danno di imprenditori e lavoratori, alleanza il cui
perno materiale è un continuo sviluppo della tecnologia che dovrebbe consentire di produrre ogni bene con una progressiva riduzione dell’intervento diretto del lavoro sino quasi ad azzerarlo. Ma, in questo caso, la prospettiva di ricongiungimento del valore almeno ai consumatori (costituiti ancora in misura prevalente da lavoratori) diviene indispensabile per poter proseguire
l’accumulazione capitalistica, al punto da richiedere che il valore prodotto sia distribuito, in parte crescente, indistintamente a tutta la popolazione, senza più bisogno di uno stretto rapporto con il
lavoro prestato.
Su questa traccia si sono mossi da tempo diversi studiosi, tra i quali va ricordato James Meade, l’economista inglese amico di Keynes e premio Nobel nel 1977, autore di Agathotopia e propugnatore dell’istituzione di un “dividendo sociale”, ovvero di un reddito ricavato da una partecipazione pubblica fino a un massimo del 50 per cento al capitale di tutte le imprese (attraverso un processo che chiama di “nazionalizzazione alla rovescia”). Il reddito ricavato dallo
Stato dalla sua partecipazione nelle imprese dovrebbe sostituire buona parte della tassazione, ma soprattutto consentire a tutti i cittadini di godere in perpetuo di un reddito uguale per tutti e
indipendente dal lavoro – frutto tangibile della cooperazione sociale (tra Stato, imprenditori e lavoratori) nella buona conduzione delle imprese e dell’economia.
In questa stessa linea d’orizzonte si può aggiungere il movimento internazionale BIEN (Basic Income European Network), sorto nel 1986 a Lovanio come rete di ricerca, approfondimento,
discussione e promozione di “un pagamento periodico in denaro erogato senza condizionalità a tutti, su base individuale e senza requisito di prova dei mezzi o di lavoro del beneficiario”. Nel giro
di un ventennio il movimento è cresciuto fino a diventare globale, trasformando il suo nome in Basic Income Earth Network (2006). Esperienze di strumenti redistributivi di questo tipo sono
attualmente in corso in Alaska, in collegamento con i proventi dell’industria petrolifera, come anche in India, Kenya, Iran, Macao e Israele, mentre l’istituzione italiana del Reddito di cittadinanza (2019), non essendo né incondizionato né universale, presenta caratteristiche assai più limitate, mirate in modo specifico a contrastare la povertà.
11. Dentro il lavoro. Il diritto alla conoscenza come nuovo punto di aggancio al valore

Le possibilità di distribuzione generalizzata del reddito senza una contropartita in lavoro evidenziano, però, con forza il caso del lavoro non pagato la cui dimensione più rilevante è
collocata nell’area del lavoro domestico, del lavoro di cura, in quello della ristorazione e del turismo e anche in diverse fattispecie del lavoro nell’economia della conoscenza. Evidentemente,
oltre agli interventi di riduzione del tempo di lavoro e redistribuzione della ricchezza indipendentemente dal lavoro, è indispensabile che il movimento sindacale individui nuovi
obiettivi centrali e nuove strategie organizzative e rivendicative tese a ricongiungere il lavoro al valore nei luoghi di produzione. Per inquadrare almeno il segmento più innovativo dell’orizzonte di
questa direzione di marcia può essere utile richiamare le pagine dedicate da Bruno Trentin, in particolare nella sua ultima opera (“La libertà viene prima”), alle basi dell’ormai improcrastinabile
avvio di un processo di affermazione dei diritti del lavoro proprio nella gestione dell’informazione e della conoscenza. L’affermazione di questi diritti richiede il riconoscimento del ruolo dell’apprendimento come asse portante del percorso di liberazione del lavoro dall’assoggettamento impersonale alle macchine intelligenti, agli algoritmi, alle imperscrutabili
ragioni della finanza e degli impersonali e onnipotenti “mercati”.
Nel contesto dell’economia che estrae valore da informazione e conoscenza, la tensione verso l’emancipazione sociale e la riconnessione del lavoro al valore non può che esprimersi in termini di socializzazione dell’apprendimento, di acquisizione tanto di capacità quanto di diritti capaci di assicurare una gestione democratica della conoscenza. La liberazione del lavoro dallo
sfruttamento e dall’emarginazione sociale, economica e politica cui l’hanno condannato i fenomeni trattati nel volume da Benvenuto e Maglie, qui sinteticamente ripresi da angolazioni diverse ma convergenti, passa per la rivendicazione da parte dei lavoratori del diritto a partecipare alla creazione come alla fruizione dell’informazione e della conoscenza, e quindi del valore, in un
ruolo trasparente, libero perché cosciente e informato non solo nei settori che precipuamente ed esplicitamente producono dati, informazione e conoscenza, ma in tutti i settori che se ne servono
nei processi lavorativi. La conquista di questa nuova sfera della libertà richiede l’acquisizione da parte del lavoro di una nuova capacità collettiva, che Trentin intende come conoscenza e al tempo
stesso competenza. Come capability nel significato che al termine attribuisce Amartya Sen: fondamento di libertà positiva, di autonomia e governo consapevole della conoscenza nel lavoro,
capacità di scelta e di realizzazione di sé attraverso il lavoro, liberazione dagli ostacoli che si frappongono a tale realizzazione. Riprendendo la concettualizzazione di Nicholas Henry, possiamo
parlare della necessità di un’acquisizione socialmente diffusa di saggezza (wisdom), in questo caso specificamente intesa come gestione democratica della produzione così come della diffusione e
dell’utilizzo dell’informazione e della conoscenza.
Sono queste caratteristiche, queste attitudini che costituiscono il fondamento della nuova dimensione della libertà che il lavoro è chiamato a percorrere e a trasmettere, a partire dai luoghi
di lavoro, all’intera società. Questi i nuovi diritti che il lavoro è chiamato a reclamare per consentire a tutti di partecipare a pieno titolo a processi di creazione del valore caratterizzati da
un ampio grado di coscienza, di partecipazione informata e responsabile. Si tratta di una prospettiva che, nel caso italiano, richiama principi e diritti fondamentali e ancora da attuare,
sanciti dalla Costituzione e rintracciabili tanto nell’articolo 3 (libertà come rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese), quanto nell’articolo 46 (diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle imprese), dei quali il nuovo contesto globale dell’economia della conoscenza e della digitalizzazione della produzione propone una lettura
totalmente nuova.
Di fronte al rischio che il nuovo orizzonte di produzione e scambio del valore costringa la società in un nuovo Medioevo, dove a prevalere siano i diritti di censo di un’oligarchia globale protetta da
una gestione sempre più monopolistica dell’informazione, della conoscenza e della ricchezza, che privilegia l’accumulazione a scapito dello sviluppo, il lavoro e tutte le forze che ne individuano la
centralità nella compagine sociale sono chiamati ad un nuovo progetto di progresso sociale che dai luoghi di lavoro si espanda sino a coinvolgere società, politica e diritto. La nuova capacità del
lavoro, che fonda questo processo di liberazione, va conquistata attraverso la lotta per il diritto alla conoscenza (come peraltro indicato da prospettive tanto diverse e lontane nel tempo come
quelle di Giuseppe Di Vittorio e di Jacques Delors).
È questo il percorso di costruzione della società dell’apprendimento, premessa indispensabile alla ricostruzione del rapporto tra valore e lavoro, alla saggezza politica nella democratizzazione della
gestione di informazione e conoscenza e a un nuovo livello di emancipazione dell’intero corpo sociale. Se la libertà viene prima, questo è perché “la libertà è la posta in gioco nel conflitto
sociale” (e lo è perché, nello specifico, è il punto in cui è possibile ristabilire la giusta connessione tra lavoro e valore). La rivendicazione del diritto alla conoscenza opera una ridefinizione tanto dei soggetti quanto dei termini del conflitto come del progresso sociale e politico. E il conflitto tende ad accumularsi attorno alla capacità, tanto tecnica quanto di mobilitazione del lavoro coinvolto, di governare il progresso tecnologico e di «contrattare l’algoritmo», ovvero di svolgere un ruolo
paritario e democratico nella determinazione delle informazioni da raccogliere e di come utilizzarle nella creazione e distribuzione del valore. In questo processo l’apprendimento, pratica
collettiva del diritto alla conoscenza – concepito come processo di sviluppo umano, e non come privilegio da concedere ad una struttura di comando fedele e “meritevole” – costituisce «l’unica
opportunità di ricostruire nella persona le condizioni di realizzare se stessa, ‘governando’ il proprio lavoro». Realizzazione della persona che, anche nel suo collegamento con il valore, costituisce il
fattore essenziale dell’avanzamento della libertà e della democrazia.

Riferimenti bibliografici

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